Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, aprile 01, 2011

Il reportage musicale di Heinrich Heine

Fra i minori scritti di Enrico Heine sono le Lettere confidenziali ad Augusto Lewald, del '37, e le Cronache parigine inviate alla Gazzetta di Amburgo dal 1840 al '47, tutte intorno ai più notevoli avvenimenti musicali di Parigi. Tali epistolari, (ora tradotti da E. Roggeri, Divagazioni musicali, Torino, Bocca), si leggono con alquanto interesse, sia come testimonianze di quel singolare momento della storia musicale che comprende l'alba del romanticismo francese, l'affermazione del grand Opera meyerbeeriano e la rivelazione dei maggiori concertisti di pianoforte, sia come nuovo documento del virtuosismo dello scrittore, appena appena dilettantesi di musica, il quale esprime le sue lievi, superficiali, imponderate sensazioni musicali in una prosa tanto squisitamente aderente alle sensazioni stesse, e brillante e vivace, da rappresentarle quasi profonde e intime. Epistolarii estemporanei, redatti senza preparazione, coscienza o fede, ma con il gusto della curiosità, dell'aneddoto, del pettegolezzo. La celia è l'anima di molte pagine, la celia per la celia, la boutade per divertire i lettori. Lo Heine si giova perciò di quell'abilissimo sfavillìo di locuzioni amene, sarcastiche, ciniche, frivole, ingegnose, interrotte da qualche tocco di falsa passione qua e là, di quel giuoco letterario cioè nel quale egli fu eccellente. Con tali pagine non sono da raffrontare quelle, opache e gravi, dei pochi francesi del primo Ottocento, che occasionalmente inserirono nei loro romanzi vaste digressioni, e superflue, intorno alla musica. Ma neppure è da credere che queste corrispondenze informino esaurientemente del momento musicale. E chi prendesse la cura di controllarle sulle cronache parigine del tempo, per esempio del Castil Blaze, del Berlioz, dell'Escudier, eccetera, rileverebbe quanto siano imprecise e unilaterali. Non stupisce, innanzi tutto, che la prosa heiniana smarrisca la virtù suggestiva laddove lascia le chiacchiere e i pettegolezzi di corridoio per toccare teorie e principii. Le debolezze fondamentali del cronista si fanno allora evidenti. Egli comincia domandando «Che cosa è la musica?». Credete che da tempo s'affanni intorno a tale formidabile quesito? No, la domanda lo ha perseguitato «ieri sera, per molte ore prima di prendere sonno». La notte gli ha portato consiglio; potrebbe già rispondere, stamane, «che è un prodigio». Così tutto sarebbe chiaro, per lui e per il lettore. E comincia a scrivere l'articolo. Per abbondanza, aggiunge che la musica «sta fra il pensiero e la materializzazione, è un crepuscolo fra la luce dello spirito e la tenebra della materia». Infine risolve spiritosamente: non sa che sia la musica, ma sa che altro è la buona, altro la cattiva. Di palo in frasca, passa a definire in quattro e quattro otto la critica: può essere solo esperienza, non sintesi, dovrebbe limitarsi a classificare le opere musicali in base alle loro rassomiglianze e all'impressione che producono sulla collettività. Crederà perciò d'aver fatto critica affermando, per esempio, che la Norma non somiglia agli Ugonotti (e dove troverà una somiglianza non balorda?) e che tale opera fu fischiata e tal'altra applaudita! Tenta poi l'avvicinamento di Rossini e di Meyerbeer; non «amerà l'uno a spese dell'altro», ma «simpatizzerà forse più col primo che col secondo», aggiungendo che si tratta di un «sentimento privato» e non d'un «riconoscimento di superiorità». Sorvolato con questo insipiente preludio il pericoloso campo del concetto dell'arte e della critica, lo Heine si dà alla cronaca curiosa e vivace. Sfila davanti ad Enrico Heine la seconda generazione dei pianisti, quelli che avevano studiato e Clementi e Czerny, e tratto dalla meccanica, divenuta più docile, le più morbide romanticherie e le sinfoniche tregende. Il vecchio Kalkbrenner aveva già «estremamente perfezionata» la pianistica; i giovani «non potevano illudersi di raggiungere la sua abilità tecnica». Ma ecco tre giovanissimi e coetanei, Liszt, Thalberg, Chopin recare nuove sorprese e nuove maniere. Thalberg delicato, sentimentale, intelligente, amabile, quieto, tedesco, anzi austriaco; Liszt selvaggio, lampeggiante, vulcanico, burrascoso, ungherese. Tanto esibizionismo concertistico suggeriva alla Heine acuti accenni a un pregiudizio che è ancor oggi diffuso, quello che fa giudicare l'esecutore secondo la sua abilità tecnica. Egli notava che come si è giunti a distinguere, nell'arte poetica, la metrica dalla qualità poetica, sicché «noi non ammiriamo un bel verso soltanto perchè la sua composizione ha richiesto molto lavoro», così «quanto prima» — egli sperava — si accetterà un nuovo principio: essere sufficiente che l'esecutore esprima con il suo strumento tutto ciò ohe sente e pensa, o ciò che il compositore ha sentito e pensato. I tours de force volti a sfoggiare soltanto difficoltà saranno proscritti e relegati fra i giuochi di prestigio, i salti mortali, le spade ingoiate, gli equilibrismi e le danze sulle uova. Basterà, concludeva, che il musicista domini il proprio strumento, e tanto da far dimenticare i mezzi materiali, sì che soltanto lo spirito della composizione sia messo in evidenza. (O poeta, o sognatore! Tu, che ripeti ciò che già dissero le persone ben pensanti del secolo che precedette il tuo, e ti associi al romantico Tieck, manda pure al futuro l'utopistico «quanto prima»! Son trascorsi cento anni, e le folle notturne ancora staccano i cavalli alla carrozza del mago zazzeruto che infiori di pizzicati e svolazzi l'Ave Maria di Schubert!). Chopin, aggiungeva, non soltanto brilla per la tecnica perfezione, ma anche si innalza come compositore. «E' un uomo di prim'ordine. Favorito di quella élite che cerca nella musica la più sublime voluttà spirituale, la sua gloria è aristocratica, profumata dell'ammirazione della buona società, distinta come la sua persona. Poiché nacque da genitori francesi in Polonia, e fu educato, per qualche anno, in Germania, le influenze delle tre nazionalità coincidono nella sua personalità, la quale si è appropriata il meglio dei tre popoli. La Polonia gli diè l'animo cavalleresco ed il tradizionale dolore, la Francia la piacevolezza e la grazia, e la Germania la romantica profondità. La natura poi gli donò aspetto leggiadro, svelto, alquanto delicato, nobilissimo cuore, e il genio. Si deve parlare di genio, nel più ampio significato della parola; egli è poeta, e può comunicarci la poesia che vive nella sua anima; è musicista e nulla uguaglia il godimento che ci offre quando siede al pianoforte e improvvisa». Alla poesia di Chopin fu assai sensibile lo Heine, il quale, come ha narrato Franz Liszt, non solo ne ascoltava, commosso, le musiche, ma anche ne sollecitava astratte e sognanti conversazioni sull'arte, voluttosamente smarrendosi insieme «nella aerea patria». I violinisti, numerosi nei concerti parigini, gli suggeriscono altre divagazioni e altri pensieri. Il virtuosismo dei violinisti, dice, non è soltanto il risultato dell'allenamento delle dita, non è soltanto tecnica, come nei pianisti. Il violino è un istrumento che ha quasi capricci di oreatura vivente e sta in vibrazione simpatica con il sentimento del suonatore; la minima manchevolezza, la più lieve agitazione, un brivido di sensibilità suscitano immediata risonanza nell'istrumento; il violino, premuto fortemente sul nostro petto, riecheggia i palpiti del nostro cuore. Ma ciò avviene soltanto agli artisti che nel petto hanno un cuore pulsante, un'anima. Quanto più arido e frigido è il violinista, tanto più uniforme risulta la sua esecuzione; e soltanto in tal caso può contare sull'obbedienza del suo istrumento, in ogni ora, in ogni luogo. Siffatta sicurezza è certamente il risultato di un'angustia spirituale. I grandi maestri, invece, non si sottrassero mai alle influenze esterne, ne ai moti interiori. «Non ho mai sentito alcuno suonare meglio, ma talvolta anche peggio di Paganini; la stessa cosa potrei dire di Ernst. Questi, che è forse il più grande violinista dei nostri giorni, assomiglia a Paganini non solo nella genialità ma anche nelle manchevolezze. Sivori è nato a Genova; forse, nei carrugi della sua città nativa, tanto stretti che non vi si può evitare, ha incontrato per caso, Paganini; e se ne è proclamato allievo. No, Paganini non ebbe scolari; e non poteva averne, perchè l'eccellenza della sua arte non può essere insegnata, ne appresa». Se dalle testimonianze di questo brillantissimo periodo della concertistica europea passa alla considerazione delle opere d'arte e delle maggiori tendenze, lo Heine mostra lo sue debolezze di conoscitore e di osservatore. Mentr'egli scriveva, a Parigi, era oggetto di fervide discussioni la ripresa del Freischütz all'Accademie royaio de musique (7 giugno 1841), anzi l'avvenimento assunse speciale significazione di fronte al Profeta di Meyerbeer. Di ciò non s'accorse lo Heine. Trascurò del tutto Weber e il romanticismo tedesco, epperò gli Ugonotti gli parvero la più bella opera composta dopo il Don Giovanni. D'altro canto, vide sorgere Berlioz e non lo considerò in relazione all'Opéra e all'Opéra comique, una relazione evidente e chiarificatrice. Si volse poi a Rossini e a Spontini, ma li sfiorò con aneddoti e pettegolezzi, senza intenderne il reale valore, pur avendo sott'occhio le loro opere. Un'osservazione, non nuova nè approfondita, e pertanto notevole, riguarda il falso concetto che si aveva, e si ha, del trattamento speciale dell'argomento religioso. I pittori, egli scrisse, credono che per rendere fedelmente le immagini cristiane occorra rappresentarle con sagome scarnite e diafane, in forme tetre e scolorite. I disegni di Overbeck sono, da questo punto di vista, i loro ideali. Per combattere l'errata tendenza egli ricorda la pittura sacra della scuola spagnuola. «In essa regna l'opulenza delle forme e del colore, eppure non si potrà negare che questi quadri spagnuoli respirino un rigoglioso cristianesimo, e che i loro creatori non siano meno ebbri di fede di quei celebri maestri, che, a Roma, si infatuarono di cristianesimo per dipingere con più immediata ispirazione. Non l'esteriore secchezza e il pallore sono segni di profondo spirito cristiano nell'arte, ma piuttosto certe intime esuberanze che nè nella musica nè nella pittura si ottengono col battesimo o con un diploma». Lo Stabat di Rossini gli parve perciò la rappresentazione del più sublime, crudele martirio, con le più ingenue voci infantili: «Risuonavano ì terribili singhiozzi della Mater dolorosa, ma sgorgavano come da una innocente piccola gola di bambina, e le ali dei cherubini facevano fluttuare mollemente il drappo funebre. La tragedia della morte sulla croce è temperata dalle gioconde zampogne pastorali. Questa è l'eerna beatitudine di Rossini». L'osservazioue andrebbe approfondita per combattere due volgari errori, quello che considera la «musica sacra» come un genere regolato da speciali canoni artistici, come una musica priva di passione, e frigida, scolastica, accademica, e perciò castigatissima (tanta musica «da chiesa» fu ed è composta con tale negazione dell'arte!); e l'altro errore che accetta come espressione di commozione religiosa espressioni d'altro movimento spirituale, profano, erotico, sensuale, eccetera; mentre la questione sta nella specifica espressione d'un momento drammatico sorto con sentimenti, persone, immagini particolari. Chi ha gustato le opere d'argomento sacro di Palestrina, di Bach, di Beethoven, per citare culmini sublimi, ha attinto da esse quella saggezza estetica che è buona guida contro gli annosi errori. Queste e poche altre osservazioni, finemente intuitive, e scarse nella sostanza, sollevano alquanto il tono delle epistole musicali di Heine, troppo spesso futili, pettegole, e appunto per tali qualità gradite e presto dimenticate. Ora, tali divagazioni son da tenere ben distinte dalle pensose, spirituali, commosse espressioni dei romantici, predecessori o coetanei del poeta del Buch der Lieder, i quali scrissero di musica con fervido amore, con religiosa devozione, convinta dignità, e altamente la idealizzarono. Sono insomma da leggere per curiosità, e non da prendere a modello.

Andrea Della Corte ("La Stampa", 3 maggio 1928)

1 commento:

Lorenzo Leone ha detto...

Testo straordinario quello di Heine. Il suo ritratto lisztiano, per quanto "letterario" coglie anche nel segno. Mi permetto di rinviare al mio commento, al seguente indirizzo:
http://appiasnero.blogspot.it/2014/01/musica-letterateggiante-liszt-e-berlioz.html