Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, marzo 25, 2011

Gli strumenti della Musica

La storia degli strumenti musicali procede parallela alla storia della musica e ad essa si accompagna come Sancho Panza a Don Chisciotte. Una è la storia del corpo, l'altra è la storia dell'anima. Ovviamente, sono una sola e medesima cosa, vista da differenti punti di vista, cosi come anche — si potrebbe aggiungere — la storia della notazione musicale è storia della musica, e non storia di qualcosa di diverso applicato alla musica dall'esterno. La vocazione umanistica che prevale negli studi musicali italiani fa sì che questa identità non sia sempre ben chiara e presente nella storiografia, e che alla storia degli strumenti venga concessa un'attenzione indulgente, come a un fenomeno marginale. Nei Paesi d'alte tradizioni musicologiche la storia degli strumenti musicali è attentamente coltivata, e spesso da veri e propri storici della musica, come il grande Curt Sachs, i quali non ritengono con questo di entrare in una specializzazione esterna al filone principale dei loro interessi. Avveduto intenditore di musica moderna e autore, fin dal 1931, d'uno dei più bei libri su Stravinsky è André Schaeffner, di cui viene finalmente proposta alla cultura italiana quella Origine degli strumenti musicali (Sellerio editore, Palermo, pagg. 446, lire 8000) che circa quarant'anni or sono fondava, si può dire, gli studi di etnografia musicale. (Schaeffner è il fondatore del dipartimento di musicologia del Musée de l'Homme e ne rimase direttore fino al 1965; questa specializzazione, coltivata attraverso viaggi di ricerca nel Sudan, Guinea e Camerun, non gli ha impedito di studiare Debussy e il jazz, Couperin, Hoffmann e Nietzsche). Appunto perché tardiva, la traduzione italiana di quest'opera fondamentale ha la fortuna di cadere su un terreno meno incolto di quello che avrebbe trovato quarant'anni or sono: lavori imponenti come i due volumi di Giampiero Tintori su Gli strumenti musicali (Utet 1971), o stimolanti come Gli arnesi della musica di Leonardo Pinzauti (Vallecchi 1965), provano che non si è rimasti ai Manuali Hoepli e alla vecchia Liuteria dello Strocchi. Abbiamo in questo campo il prezioso volume sugli Strumenti ad arco del Peterlongo (Siei, Milano, 1973). L'organaria gode di una situazione privilegiata, con gli studi di Renato Lunelli e di Sandro Dalla Libera, rispettivamente sugli organi trentini e su quelli veneti, con l'opera complessiva su L'organo italiano di Corrado Moretti (Eco, Milano, 1973) e i moderni studi di Oscar Mischiati e Luigi Tagliavini. Importanti musei di strumenti musicali si trovano a Roma e a Milano, e di quest'ultimo, allogato nel Castello Sforzesco, è disponibile un ricco catalogo a stampa, a cura di Natale e Franco Gallini; cosi come Vinicio Gai ha pubblicato cenni storici e catalogo descrittivo de Gli strumenti musicali della corte medicea e il Museo del Conservatorio «L. Cherubini» di Firenze (Licosa, Firenze, 1969). Infatti, dell'idealistico disprezzo in cui sono talvolta tenuti, gli strumenti si vendicano alla maniera tipica della materia, delle «cose», degli oggetti concreti e solidi: durando, esistendo e conservandosi, laddove l'etereo canto svanisce senza lasciar tracce. Sembra pacifico che nella musica dell'antica Grecia il canto occupasse una posizione prevalente, e che gli strumenti vi fossero in gran parte subordinati. Eppure, quando si pensa alla musica dei Greci, la prima cosa che viene in mente è la cetra, è l'aulos; che cosa fosse il canto di Orfeo, capace di rendere mansuete le belve e di forzare le porte dell'Ade, non lo sappiamo più. Per oltre un millennio la musica del mondo cristiano è quasi esclusivamente canto. La vita degli strumenti è grama e quasi clandestina. La musica del Medioevo, nella sua accezione più elevata, è preghiera, e soltanto la voce umana è considerata degna di cantare la lode del Signore. L'uso degli strumenti musicali pare occupazione di rango servile, non diversamente dall'uso della zappa, della vanga, del martello o della falce: tutti «strumenti», cioè arnesi del lavoro manuale. Nella Bibbia l'invenzione della musica è associata con la prima lavorazione del ferro; musicanti e fabbri si reclutano fra i discendenti di Caino. Delle due mogli di Lamech, pronipote di Enoch, l'una partorì Jubal, «padre de' sonatori di cetra e d'organo», e l'altra partorì Tubalcain, «che lavorò di metallo, e fu artefice d ogni sorta di lavori di rame e di ferro». Non va però dimenticato che questo disprezzo degli strumenti e della pratica musicale il cristianesimo l'ereditò pari pari dalla civiltà classica. Nerone sarà stato un poco di buono e avrà avuto tutti i difetti di questo mondo, ma la virtuosa indignazione dei senatori romani per il fatto che suonasse la cetra fa il paio La bottega del liutaio (dalle tavole dell'Enciclopédie) con la diffidenza di certi banchieri che in epoca recentissima negarono ogni credito a un giovane industriale italiano, finché non avesse smesso il vizio, per loro più imperdonabile che quello di sperperare quattrini al gioco o in amanti di lusso, di coltivare la direzione d'orchestra e di diffondere la musica, corale e strumentale, tra i dipendenti della sua azienda. La pratica della musica, e in particolare degli strumenti, non era reputata degna dell'uomo libero, ma compito di schiavi (vi eccellevano i Frigi, provenienti dall'Asia minore). Ben inteso, a questo disprezzo legale facevano riscontro, di fatto, una vivissima attrazione e un'immensa fortuna: ma era un'attrazione del genere di quella esercitata dai piaceri proibiti. Alcibiade era un uomo libero cui piaceva imbrancarsi nella compagnia di auleti, citaredi, mimi e danzatrici; ma è noto che non era considerato precisamente come un modello di virtù. Testimonianze iconografiche come la splendida coppa di Epitteto conservata al British Museum, o la pittura della tomba di Véset (Tebe egiziaca), del XV secolo a.C, provano in maniera inequivocabile l'associazione della musica col piacere nel mondo antico, e pertanto le ragioni del suo discredito. L'ostracismo gettato dalla chiesa cristiana sui suonatori li sospinse al margine della società, in un sol branco con giocolieri, saltimbanchi, ciarlatani e buffoni ambulanti. Certamente la musica era compresa nella classificazione delle scienze e faceva parte del Quadrivio, ossia del gruppo delle discipline superiori, insieme ad aritmetica, geometria e astronomia. Ma si trattava della teoria musicale, mentre agli esecutori — né ai cantori, né tanto meno agli strumentisti — nessun no si sognava d'accordare una qualsiasi dignità culturale. La liberazione degli strumenti dal primato dogmatico del canto è opera anch'essa, come tante altre, del Rinascimento, e come tanti altri fatti del Rinascimento spinge i suoi antefatti molto addietro. Il cavallo di Troia per la futura ammissione degli strumenti nel giro della musica «bene» fu il dono di un organo che Costantino Copronimo, imperatore romano d'Oriente, fece a) re di Francia Pipino il Breve nel 757. Già da tempo diffuso in Egitto, l'organo non era sconosciuto al mondo romano. Ma la penetrazione nel regno dei Franchi gli aprì le porte del mondo cristiano. Poco adatto ad impieghi profani, si rese prezioso in chiesa, per il sussidio che poteva prestare alle voci, sostenendone l'intonazione. Di tutti gli strumenti era quello che più si avvicinava alla natura del canto e alla dignità della voce umana. Che la prima rozza forma di polifonia vocale tentata nel secolo IX si sia chiamata organum, è un fatto pieno di significato e argomento di suggestive congetture. Anche in questo campo il Rinascimento ha la sua prova generale nella fioritura trecentesca della civiltà toscana. Francesco Landino, protagonista dell'ars nova fiorentina, era chiamato «il cieco degli organi», dalla maestria con cui non solo sapeva suonare questi strumenti, ma anche smontarli e rimontarli, pur avendo perduto la vista fin dalla fanciullezza. Uno storico non particolarmente attento alle cose della musica, come Filippo Villani, ritiene doveroso ricordare che gli organi «egli toccava con tale velocità di suono e tanta maestria e dolcezza che senza comparazione trapassò tutti gli organisti di cui si ha memoria». La storia degli strumenti si annoda a quella della musica in un inestricabile corpo a corpo, tipico esempio del venerabile dilemma se sia nato prima l'uovo o la gallina. Anche André Schaeffner se lo chiede, al principio del libro or ora ricordato: «La musica è il prodotto dei suoi strumenti, o questi sono stati costruiti a sua immagine?». La seconda ipotesi, idealistica e suggestiva, parrebbe confermata da certi esempi. In pieno Rinascimento, quando tutta l'arte assiste a un risveglio prodigioso dell'individuo, e di conseguenza la musica si sta trasformando da polifonica in monodica, sorge il violino a liquidare, con la sua prepotente personalità di primo attore, la collettività familiare delle viole da braccio, che con la loro discrezione di suono postulavano l'integrazione in un tutto. Ma in senso contrario si potrebbe citare un esempio clamoroso. Bartolomeo Cristofori inventa il pianoforte negli ultimi anni del Seicento. Bene, il Settecento non sa che farsene. Niente di più scoraggiante che la vita dura incontrata dal pianoforte per mezzo secolo e oltre. La gente non lo amava, lo trovava rumoroso e volgare in confronto al clavicembalo. Nei testi del Settecento si parla del pianoforte in termini simili a quelli che noi usiamo per il juke-box. «Lorenzo ha ceduto il suo clavicembalo», scrive Jacopo Ortis, «d'ora in avanti suonerà uno di quei pianforti, che fanno tanto strepito». Ed anche in questo echeggiava Werther: «Qui, mio caro amico, da alcuni mesi si fa un autentico furore per i nuovi pianoforti; Carlotta ha persuaso il Padre Suo a comprarne uno, e tutto il giorno dalle finestre se n'ode l'orribile rimbombo». Per gli esemplari di pianoforti che Federico II gli presentò nella reggia di Potsdam, Bach non dimostrò niente più di quell'irresistibile curiosità artigianale che egli provava per qualsiasi arnese capace di emettere suono. Ma il pianoforte aveva più di venti e più di quarant'anni quando Bach, imperterrito, produsse la prima e la seconda parte del Clavicembalo ben temperato. Il fatto è che il dilemma non si risolve né in un modo né nell'altro. La circolazione dell'arte musicale non è a senso unico: né dagli strumenti all'ispirazione, né dall'ispirazione agli strumenti. La circolazione avviene in ogni senso. Mozart creava per gli strumenti, anzi, per i singoli strumentisti. Beethoven mandava sgarbatamente al diavolo il violinista Schuppanzig e le sue rispettose obiezioni tecniche, quando lo spirito gli dettava dentro. Quel che è certo è che un legame stretto associa la fabbricazione degli strumenti e la produzione della musica strumentale. La reciprocità dei due fenomeni si mostra nell'unicità dei focolai geografici in cui essi si producono. E' raro che gli strumenti musicali si fabbrichino in un luogo e la musica strumentale si scriva in un altro. Senza pregiudizio d'altre eccelse apparizioni strumentali, come la scuola cembaloorganistica napoletana di Trabaci, Mattia Vento e Domenico Scarlatti, resta un fatto che la meravigliosa fioritura strumentale delle scuole veneta ed emiliana nel corso del Sei e Settecento avviene negli stessi luoghi dove si fabbricano organi e violini. Quell'angolo prezioso dell'entroterra veneto, formato dalla convergenza di Emilia-Romagna, Lombardia e Repubblica di Venezia, non è solo la patria di Vivaldi, Corelli, Locatelli, Albinoni e Frescobaldi, ma proprio lì, tra Brescia, Bergamo e Cremona, si pone pure la patria di Gaspare Bertolotti da Salò, degli Amati e dei Guarnieri, di Stradivari, principi dei liutai, e delle grandi dinastie d'organari, gli Antegnati e i Serassi.

Massimo Mila ("La Stampa", Anno 112, numero 130, giovedì 8 giugno 1978)

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