Si dice che gli dèi, invidiosi delle straordinarie fortune dei migliori tra gli uomini, ordiscano sinistre insidie del destino per vendicarsi di costoro, con la scusa della hybris. Dev'essere ciò che accadde al leggendario Fitzwilliam String Quartet, catapultato dall'oggi al domani dal rango di “undergraduated Quartet” d'un College universitario inglese alla planetaria fama d'evangelisti ufficiali del verbo quartettistico sciostakoviano. C'erano entrate la curiosità (di conoscere l'allora ultimo nato, il Tredicesimo, dei quartetti di Shostakovich di cui il Fitzwilliam aveva pubblicamente eseguito il celebre Ottavo), la determinazione (scrivere al musicista in persona richiedendo l'invio della musica, che in Occidente non era disponibile), la bravura (farsi apprezzare dal compositore a tal punto che egli fece dei Fitzwilliams, di fatto, i “creatori” nei paesi di qua dalla ferrea cortina dei Quartetti ch'egli ancora scrisse, ovvero il Quattordicesimo e il Quindicesimo), la fortuna (quella serve sempre): che risedette, anche, nell`essere precocemente notati da Peter Wadland, il leggendario producer delle Editions de l'Oiseau-Lyre (un altro tanto fuori dal comune, Wadland, da essere reclamato anzitempo dal Parnaso degli Olirnpi), il quale affidò a quei giovanissimi la realizzazione della prima registrazione integrale, nei paesi non-comunisti, proprio dei Quartetti di Shostakovich.
L`impresa fu compiuta nel breve volgere d'un paio d'anni riscuotendo un risonante e durevole successo, anche commerciale. A riascoltarli oggi, quei Quartetti, mantengono intatta tutta la loro freschezza sorgiva e l'interpretazione del Fitzwilliam l'idea di unicità, che la distingue dall'approccio più “normalmente” russo dei, pur giustamente celebrati, creatori d'oltrecortina (il Quartetto Beethoven, fedelissimo di Sciosta) e dei loro leggendari concorrenti del Quartetto Borodin. Anche Shostakovich si dice confessasse di considerare i quattro giovani britannici i suoi interpreti prediletti. C`è nelle loro esecuzioni una forza drammatica quasi teatrale (ascoltare i recitativi, paiono cantati da voce umana), sonorità piene, al contempo tonde e ruvide, le dinamiche spesso estremizzate, sia nelle accentazioni del fortissimo che nella quasi-impercettibilità (ma il quasi è determinante) di estenuati pianissimi, a passare una pennellata espressionista sulle immagini liriche, sui quadri astratti, sulle tragiche evocazioni belliche, sui riferimenti storici o letterari che volta a volta si presentano, dichiarati o sottintesi, nei capolavori di Dmitri Dmitrievich. L'ideale per la sua musica, così fortemente contrastata tra l'apparenza superficiale e la sostanza profonda da scovarsi.
A mantenere la divisa d`apripista, per il prosieguo della sua carriera discografica il Fitzwilliarn si dedicò ad incidere opere di raro ascolto: nacquero così i dischi col Quartetto di Delius (che riscoprimmo teso e dipinto a colori meno tenui di quanto siamo soliti osservare) in desinenza baciata con quello di Sibelius, fissato pel capolavoro che da allora conoscemmo e ci abituammo ad ascoltare con più lieta frequenza; poi il gigantesco Quartetto di César Franck, dove il Fitzwilliam si divertiva a ricreare i “colori” dell'organo in un contrappunto abbacinante tra quattro solisti di stupefacente personalità. Una delle caratteristiche più evidenti del Fitzwilliam SQ è la perfetta definizione delle quattro voci, che si fondono in una timbrica comune senza mai nascondersi dietro le linee principali.
Coi due Quartetti di Borodin, l'ensemble tornava all'amato repertorio russo per gettare nuova e meritamente più radiosa luce sul misconosciuto primo e rinnovare con una interpretazione di straripante originalità il celebre secondo.
Poi venne la ondivaga Serenata italiana di Hugo Wolf, in un abbinamento, atto a far infuriare i due autori che si disamavano, col Quintetto di Brahms, clarinettista Alan Hacker, ed è l'unico esito non memorabile della collezione. Forse le intenzioni di svecchiare un pezzo che, a differenza degli altri incisi dal gruppo, era fin troppo eseguito superarono le reali possibilità di farlo (la tradizione esecutiva del Quintetto brahmsiano, anche in disco, è tra le più fortunate nella storia della musica occidentale); forse non si creò col clarinettista (che pare suonare su uno strumento in si bemolle anziché in la, come prescritto, sì che il colore risulta più livido che luminoso, e certo poco adatto a rimuovere dall'opera la patina d'autunnale che gli interpreti, dichiaratamente, si prefiggevano) quel feeling che i Fitzwilliams trovarono, invece, col violoncello di Christopher Van Kampen, compagno nel Quintetto in do minore di Schubert e in molti concerti: un disco-capolavoro nel quale l'inafferrabile fantasia schubertiana viene fatta vibrare in totale libertà d'esprimersi, nel mutevole porsi disincantata dinanzi all'eterno, quasi ironica a celar la tragedia, struggentesi di rimpianti, in una intonazione della 'Sehnsucht' 'romantica di travolgente pietas. I quattro formidabili musicisti avevano vinto così anche la prima sfida col “digitale”, riuscendo a mantenere intatta la riproduzione dei loro inconfondibili suoni e dei loro colori, tanto eccezionalmente “caldi'.
Si apriva il 1982, il nostro anno “mundial", e il Fitzwilliam riceveva la sua definitiva consacrazione: la Decca - che già aveva loro aperto le porte del suo catalogo principale - invitò questi antichi allievi di Cambridge a misurarsi con la summa quartettistica di Beethoven. O sia, la catena dell'Himalaya in punta d'archetto. Come con Shostakovich, si partì a registrare dal fondo, dagli ultimi Quartetti e quasi ad esorcizzare le non immotivate ansie, i prevedibili batticuori agitati dalla deferenza verso cotali giganti, il primo fu proprio il monumentale opus 132 in la minore, il Monte Everest dei quartettisti. Ascoltarlo fu (ed è ancora oggi) come ripulirsi le orecchie: l'interpretazione del Fitzwilliam non manteneva nulla di sacrale né di reverenziale (se non il necessario timor per affrontare simili sfide), nulla di testamentario. Anche la Canzona di Ringraziamento veniva attenuata di tante didascaliche sovrimpressioni e riportata alla sua pura - finissima, sperimentale, quasi inverosimile - essenza musicale: non più la preghiera (sia pure sonoramente ebraica) innalzata dall`Amadeus; non più l'immobilità metafisica del Quartetto Italiano in stato di grazia (ho in mente soprattutto una registrazione catturata 'live' alla londinese Royal Festival Hall nel 1965), ma uno scorrere lentissimo attraverso i modi antichi, che pur nella estenuata lentezza mostra sempre il suo moto, come un interminabile fiume cinese, col cangiare dei colori man mano che cambia il paesaggio. E il resto consegue, come i precordi, che risuonano nel ripetersi del salto di sesta che, prima della Canzona, aveva dato suono alla Cavatina nell'opus 130. Un'estasi tragica.
L`anno dopo prese corpo il progetto, avviato da tempo e sollecitato anche dalla vedova di Shostakovich, di registrare il Quintetto con pianoforte op. 57 del maestro: Irina, impariamo dal booklet, avrebbe gradito Richter o Gilels (et pour cause), ma la Decca preferì giocare in casa e coinvolse il “suo” Ashkenazy. A settembre i cinque si ritrovarono alla Kingsway Hall per registrare l'opera: Ashkenazy, si dice, dall`alto della sua fama accolse di buon grado la autorevolezza dei più giovani colleghi in materia sciostakoviana ed anzi ne sollecitò la guida, ma impose il suo proprio producer e il suo tecnico del suono, e la differenza si sente, percependosi un poco più di freddezza (il caratteristico suono “neo-classico" di Ashkenazy) nelle timbriche anche del quartetto, un colore meno caratterizzato e distinto di quanto non si ascolti negli altri dischi del FSQ; ma dal punto di vista strettamente musicale l'esito è (e fu al momento dell'uscita dei dischi che fecero epoca) egualmente soggiogante: l'eccitazione in trionfo. A dicembre il quartetto si ritrovò in studio per alternare l'incisione dell'opus 130 di Beethoven (quasi ovvio corollario - ricordate la sesta? - all'opus 132) con le Romanze su testi di Blok, protagonisti la Söderström ed Ashkenazy ai quali si aggiunsero Christopher Rowland e Ioan Davies (primo violino e violoncello del FSQ), che completavano il disco sciostakoviano.
I Fitzwilliams furono tra i primi a ripristinare, nel Quartetto in si bemolle, la Große Fuge come movimento conclusivo (oggi è venuto di moda): idea non buona a parer mio; se Beethoven decise di ritirare l'esorbitante esercizio di scrittura “vetero testamentaria" non fu certo solo perché glielo chiese il preoccupato editore. Ci sono le lettere a testimoniare come Ludwig trattava con i riottosi editori. Se aveva bisogno di “realizzare”, come dicevano un tempo i rappresentanti di commercio, accettava di pubblicare roba vecchia (tipo l'Ottetto op. 103, tenuto nel cassetto per ventitré anni) o nuove trascrizioni di lavori più antichi (ad esempio il Quintetto op. 104, arrangiamento del terzo Trio op. 1), qualche Lieder o una marcetta, tutti facilmente spendibili sul mercato dei dilettanti amatori... Ma quando si trattava delle opere che contano, Ludwig non cedeva un unghia, né sul soldo né su altro che potesse intaccare la novità (ci insisteva sempre molto) o il valore (ne era ben consapevole) della sua arte. E se gli argomenti per ripristinare la Fuga son quelli del 'pensiero originale', allora dovremmo anche reinserire nella Waldstein l'Andante in fa minore, il famigerato Andante favori da molti cuori infranti. Ma questo non s'attenta a farlo nessuno...
Idea non buona, dicevo, ma realizzata magistralmente: il Fitzwilliam è uno dei rarissimi ensembles, infatti, a riuscire a dare un senso musicale e formale, come coda di Quartetto, a quell'esorbitazione.
Il clamore suscitato dalle imprese del Fitzwilliam era a quel punto talmente clamoroso che gli dèi non vollero più saperne e seminarono il germe dell`insidia. Nessuno avrebbe immaginato, all'epoca, che il ritorno a Shostakovich sarebbe stato, per il Fitzwilliam, la - non solo emblematica - chiusura del cerchio, dopo una vertiginosa parabola lanciata appena otto anni prima.
Nel 1984 era corsa la voce di due arrangiamenti per quartetto d'archi di Shostakovich appena riscoperti (risalgono a prima della guerra) e pubblicati. Il gruppo non poteva ignorarli ma, il tempo di ricevere la musica e studiarla, successe il finimondo. Christopher Rowland, il trasognato primo violino del gruppo che, si dice, aveva una perplessa e assai turbata tiefe religiosa, cedette a questa e ai suoi non più saldi nervi che crollavano al momento di presentarsi in pubblico, ritirandosi nei meno esposti compiti di direttore della musica da camera in un College di Manchester. Fu rimpiazzato da un argentino (una sorta di Barenboim dell'archetto che pareva il ritratto di Zukerman, ma non era Zukerman né Barenboim), Daniel Zisman, brillante virtuoso. Fu solo nel 1986, dunque, che la rinnovata compagine si ritrovò in studio per incidere i due nuovi Pezzi onde completare il disco col Quintetto e le Romanze, tenuto fermo fino allora: la novità si sente, Zisman è molto più “virtuoso” di Rowland, ma anche meno amalgamato col gruppo.
Ci sono - scopro dal booklet - altri due dischi beethoveniani, conservati nei frigoriferi della Decca ma, si dice per decisione comune, mai pubblicati: i due Pezzi sciostakoviani sono, dunque, l'unica testimonianza discografica del Fitzwilliam con Zisman, il feeling col quale non dovette mai cementarsi del tutto. Nel 1988, con la motivazione ufficiale (ma poco credibile) d'una consistente riduzione dei fondi da parte della York University (che dagli inizi manteneva il quartetto in residence), che non tutti vollero accettare, il gruppo si sciolse.
Si sarebbe ricostituito - con un nuovo primo violino e un nuovo violoncellista - pochi anni dopo (e ancora tiene duro, con valore), ma né il ciclo Beethoven né il rapporto con la Decca sarebbero mai più stati ripresi.
Credo sia stato corretto non inserire in questa bella scatola celebrativa i due dischi inediti, ma la speranza di poterli un giorno ascoltare la tengo viva.
Bernardo Pieri
("Musica" n.348, luglio/agosto 2023)
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