Nel corso dell'800, da Mendelssohn a Cesar Franck, l'organo venne ridotto a strumento di carattere sinfonico, privo della sua potenziale molteplicità timbrica e per lo più utile soltanto a costituire una specie di surrogato dell'orchestra. Il musicista che restituì all'organo la sua veste di strumento-sintesi, di immensa fucina di suoni ove si potessero plasmare strutture arditissime e irripetibili fu Max Reger con le sue titaniche e sofferte composizioni costantemente protese verso il recupero del modello bachiano. In effetti Reger si trovò in una posizione assai singolare: erede di un certo formalismo classicista e votato, dopo l'assimilazione dell'esperienza romantica, alla riscoperta del contrappuntismo barocco e della severa polifonia antica, egli giunse alle soglie della dissoluzione tonale con l'uso di un cromatismo esasperato. Per restare nel campo della sua produzione organistica, la sensibilità decadente del suo linguaggio, talvolta tenebroso e talvolta pervaso da un senso plastico luminoso e nitido, lo portò ad esprimere una religiosità contorta, intensa ma allo stesso tempo sensuale. L'incomprensione che ancor oggi in Italia viene riservata a Reger (spesso definito "retorico") deve essere addebitata alla scarsa familiarità della nostra cultura con il clima spirituale tipicamente germanico, in cui trovarono una dissoluzione congiunta due grandi costanti del pensiero tedesco: l'idealismo e il protestantesimo (anche se quest'ultimo permarrà dopo aver subito una profonda metamorfosi). In verità Reger è musicista importantissimo e nel nostro caso fu l'indiretto iniziatore della moderna tradizione esecutiva bachiana per organo. Infatti egli esercitò una notevole influenza nei confronti dell'amico Karl Straube, organista formatosi alla scuola romantica, il quale diede così inizio al recupero della tradizione esecutiva barocca: recupero lento e laborioso, che doveva attraversare una lunga purificazione dalla prassi esecutiva ottocentesca.
Le sopraccennate peculiarità dell'organo romantico erano il frutto di un ben preciso indirizzo estetico che predominava nel secolo scorso e che in sostanza reagiva alla visione del mondo propugnata dal positivismo. Quest'ultimo trasponeva in sede scientifica e quantificabile la fiducia illuminista in una Ragione che potesse conferire forma e struttura assolute ai contenuti dell'esperienza. Una appetizione dunque verso un mondo codificato una volta per sempre e ottimisticamente proteso verso un rassicurante progresso. Il pensiero romantico al contrario aborriva (com'è giusto) ogni riduzione in formule della totalità della vita: la dialettica onnicomprensiva, che costituisce la trabeazione portante del mondo secondo l'idealismo, non può tralasciare entità primarie come il corpus dell'irrazionale (intuizione, fantasia, misticismo, ecc.), quasi che esso non facesse parte della vita. Risulterà infatti chiaro che lo stesso congegno logico della dialettica hegeliana non esclude per nulla tali entità, bensì le viene ad inserire nel ritmo complessivo della vita. Non a caso nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel la Ragione non è altro che una semplice figura, incastonata anch'essa nel grande mosaico dell'Essere. Il quale, a sua volta, non obbedisce affatto ad un criterio diligentemente razionale (come vorrebbe il positivismo), ma a pulsioni non mortificabili in semplici formule (e qui starebbe l'origine mistica del pensiero hegeliano, secondo cui la dialettica dell'Essere rappresenta il tracciato del divino attraverso il il mondo).
In termini musicali questo grande movimento di pensiero portò nel secolo scorso alle tipiche caratteristiche dello stile romantico più maturo (Wagner in primis e poi, già proteso verso nuove possibilità, Max Reger). La melodia infinita di Wagner rappresenta il tentativo sonoro di creare un'entità totale, dove la razionalità dell'impianto possa coesistere con l'irrazionale tensione dei suoi contenuti più interni, così legati alla visione poetica di Nietzsche, nonostante la famosa rottura avvenuta fra i due personaggi. In altre parole, il rapporto fra l'apollineo della forma e il dionisiaco del contenuto sfocia nel perenne ed irrisolto "streben" romantico, che rifiuta ogni codificazione in formule, ogni delimitazione al proprio fluire, in quanto sempre ansioso di cogliere nell'attimo o nel frammento (si ricordi Novalis) la totalità del mondo. Se dunque l'Illuminismo si era compiaciuto, con la «teoria degli affetti», di stendere un sillabario musicale dei sentimenti, la risposta filosofica ed artistica del Romanticismo fu drasticamente contraria a tale sclerosi enciclopedica e venne in seguito perfezionata dalla raffinatezza del Decadentismo, votato alla sublimazione estetica dell'introspezione.
Per quanto concerne la figura di Bach, punto focale di questo scritto, non bisogna dimenticare che molti fra i massimi esponenti della reazione contro le asettiche istanze illuministe si rifecero a Spinoza e in particolare a due punti della sua dottrina: al concetto panteistico di Sostanza e alla visione intuitiva della conoscenza suprema. L'unità geometrico-mistica del pensiero spinoziano è sempre stata un grande punto di avvio per ogni pensatore che dovesse reagire contro i fanatismi enciclopedici o le rassicuranti concretezze dell'empirismo. Fra il mondo speculativo di Spinoza e quello espressivo di Bach il passo è molto breve, in quanto si stabilisce subito un denominatore comune fra i due: «esprit de geometrie» come linguaggio e senso lirico della totalità. Di tale relazione si accorse per primo Goethe, che tenne entrambi in massima stima, seguito da Hegel e quindi da un intero periodo storico di rivalutazione per i due dimenticati vertici del mondo seicentesco.
Tuttavia, se il «more geometrico» di Spinoza si risolve esplicitamente nella contemplazione intuitiva di Dio (ed è ciò garanzia di spiritualità anti-illuministica per il pensiero romantico), il linguaggio di Bach sembra consumarsi nella propria geometrica struttura e ciò poteva costituire elemento non facilmente assimilabile in un'epoca in cui le catalogazioni della ragione si spezzavano a favore di una percezione totale della vita. Pertanto la sincera rivalutazione culturale dell'opera bachiana si trovò invischiata in una prassi esecutiva tendente ad assimilare Bach alla sensibilità romantica. Il che in pratica significa: abuso del legato, scarso fraseggio, eccessiva cantabilità; tutte peculiarità romantiche, che venivano a sovrapporsi all'autentico dettato bachiano. In definitiva, mentre l'universalità e la spiritualità del messaggio bachiano erano amate ed accettate, la costruzione geometrica del suo linguaggio non veniva compresa o, meglio, veniva guardata con sospetto, sospetto di connivenze formali con la mentalità illuminista. Tale era la situazione culturale, quando Straube iniziò il recupero della prassi esecutiva barocca e a tali criteri rispondono anche le famose letture bachiane di Albert Schweitzer, pervenuteci attraverso numerose incisioni.
In verità noi oggi sappiamo (anche se vi è chi si ostina a non capirlo) che la geometria di Bach non ha nulla a che spartire con la cultura illuminista, anzi ne è il più palese rifiuto, essendo frutto di molteplici concause precedenti e talvolta antiche: polifonismo medioevale, tradizione simbolico-esoterica, misticismo figurato barocco, rigore speculativo razionalista, concezione luterana del dolore e infine anticipazioni del moderno conflitto fra tensione creativa e realtà esterna. Per quest'ultimo motivo il labirinto geometrico del linguaggio bachiano si contrappone al mondo esterno, non ne è una riduzione in formule logiche, bensì vive di per sé in modo autonomo come realtà totale e assoluta.
Dunque l'edificio sonoro di Bach è ben lontano dall'essere il risultato di una operazione linguistica che squadri il mondo e lo quantifichi; al contrario si tratta di una totalità vivente che si sovrappone al mondo e lo sublima in posizione creativa. Tale caratteristica veniva a conciliarsi perfettamente con lo spirito dell'idealismo per lo stesso motivo che indusse Hegel a dire di Spinoza: «...Essere spinoziani è l'inizio essenziale del filosofare. Infatti, non si comincia a filosofare senza che l'anima si tuffi anzitutto in quest'etere dell'unica Sostanza, in cui è sommerso tutto quel che si era ritenuto vero; questa negazione di tutto quel ch'è particolare, cui deve essere pervenuto ogni filosofo, è la liberazione dello spirito e la sua base assoluta». Hegel conclude affermando che la Sostanza spinoziana deve tramutarsi da entità immobile e contemplabile in soggetto attivo del divenire dello spirito. Se questo passaggio hegeliano viene interpretato in chiave musicale e si sostituisce il pensiero di Spinoza con la musica di Bach, si ottiene la più concisa spiegazione filosofica di come nacquero i criteri interpretativi bachiani in clima romantico. Infatti, analogamente a Spinoza, la posizione di Bach è di stampo contemplativo e intuitivo, cosa, questa, non sgradita alla cultura romantica, che però desiderava sentire tanto il messaggio del Kantor quanto quello di Spinoza più vicini al proprio inarrestabile «streben», forse per rendere ancor più solida l'implicita alleanza contro l'enciclopedismo illuminista: per tale motivo si cominciò, e si seguitò, ad eseguire Bach in chiave romantica, per un conscio e inconscio desiderio di appropriazione. Così facendo si dimenticava che l'effettiva posizione anti-illuminista di Bach (rifiuto del pianoforte e dello stile galante) era da attribuirsi al ritorno verso l'antico e non a un preconizzare futuri svolgimenti; tuttavia il significato complessivo della figura bachiana resta proprio quello di essersi opposto con un uso iperbolico dell'ordine distributivo (stile geometrico e costruzione a segmenti) alla razionalizzazione del mondo e della vita in formule, voluto dall'epoca dei lumi (teoria degli affetti nonché enciclopedismo). In definitiva il cardine del legame che si strinse fra Bach e l'idealismo potrebbe essere simboleggiato dal seguente motto: la realtà non si classifica, si crea. E infatti Bach creò dal nulla una realtà che oserei definire con appropriate parole gaddiane: «nobile di una sua strutturante accettazione, veracemente spaziatasi nei modi scalenoedrici ditrigonali della sua classe, premeditata da Dio».
Alla luce delle considerazioni finora addotte, è possibile iniziare un sintetico excursus attraverso le più importanti interpretazioni bachiane da Schvveitzer a oggi. Dico subito che per interpretazioni «più importanti» intendo quelle che, tramite diffusione discografica, hanno creato uno stile e un'epoca; in altre parole un punto di riferimento interpretativo. Il concerto è un fatto troppo effimero per essere fermato nel trascorrere degli eventi: può portare gloria e prestigio, ma ciò che resta sono i dischi come testimonianza.
Vi sono, ad esempio, insigni organisti come i due svizzeri Hans Vollenweider e Eduard Muller o il tedesco Victor Lukas o ancora il giovane e validissimo rumeno Michael Radulescu, che non hanno particolarmente diffuso la loro attività discografica e pertanto restano nell'Olimpo degli interpreti, senza però usufruire di quel potente «braccio secolare» del mondo musicale che è il disco.
Albert Schweitzer fu l'interprete che portò a coronamento l'assimilazione romantica di Bach. Per quanto egli raccomandasse la scelta dell'organo a trazione meccanica (più ricco di sfumature rispetto a quello elettrico estilisticamente adeguato per la polifonia bachiana), le sue letture furono sempre improntate ad una lenta cantabilità non disgiunta da un senso titanico del costrutto polifonico. Ne deriva pertanto, specie nei Preludi e Fughe, una certa mancanza di agilità nelle singole voci ed una espressività d'insieme piuttosto incombente, priva di vera pulsazione ritmica. Tale inconveniente si riscontra assai meno nei corali, dove l'ispirazione mistica consente a Schweitzer di svolgere un'intensa cantabilità, sorretta dall'uso sapiente del fraseggio. Appare allora chiaro l'intento di trasporre in suoni l'idea luterana del dolore e dell'abbandono in Dio del credente: il tutto viene circonfuso da un esasperato lirismo romantico, che tende a trasformare la sfaccettata struttura melodica bachiana in una «melodia infinita» non lontana dalla più autentica e legittima poetica wagneriana. A riprova di ciò, nel famoso libro di Schweitzer su Bach («Il musicista poeta») troviamo un capitolo in cui si raffrontano le caratteristiche espressive di Bach con quelle di Wagner: evidentemente la totalità. del mondo bachiano non può non richiamare per analogia l'anelito al totale presente in Wagner. Tuttavia quando ascoltiamo Schweitzer non bisogna dimenticare la sua origine alsaziana, che implicitamente ci ricorda la sua formazione culturale franco-germanica: infatti le peculiarità del suo stile sono il frutto di questa fusione ambientale. Dalla Francia gli pervenne la consuetudine per certe sonorità dolci e introspettive; dalla Germania il senso lirico-teologico dell'opera bachiana.
Assai diverso è il Bach di Marcel Dupré, che fu rappresentante tipico della scuola romantica francese. Innanzitutto, da vero francese, notiamo in lui un eccesso di sonorità nasali unitamente a una legatissima impostazione di carattere sinfonico, che induce a stabilire il seguente raffronto con Schweitzer: se quest'ultimo può essere definito un interprete di formazione romantico-idealista, Dupré accentuò ancor più la componente sentimentale giungendo a darci una lettura bachiana alquanto greve e retorica, nonché confermando le scarse possibilità di intesa fra la cultura francese e un decantato dello spirito tedesco quale è appunto Bach (anche in seguito, come vedremo, gli organisti francesi non hanno mai eccelso nell'eseguire l'opera del Kantor, con la sola eccezione di Litaize).
Con Wanda Landowska risorge il clavicembalo, in verità ancora ben lontano dalla precisione filologica dei nostri giorni. In effetti il cembalo della Landowska non si è ancora del tutto affrancato dalla mentalità pianistica, di cui, in un certo senso costituisce una sublimazione. Tuttavia i meriti di questa insigne pioniera si inquadrano perfettamente in quel tipo di predilezione per l'oggettività storica, che è parte non indifferente dello storicismo idealista. Si comincia finalmente a capire che la poetica bachiana pur non essendo il frutto di premesse squisitamente cerebrali, necessita di un tramite espressivo «chiaro e distinto» come il cembalo, strumento ragionatore per eccellenza.
Tornando all'organo, sono i due maggiori allievi di Straube, Fritz Heitmann, e Anton Nowakowkj, che per primi attuano un parziale ritorno alla prassi esecutiva barocca, secondo l'indirizzo dato loro dal maestro e indirettamente da Max Reger. I tratti fondamentali del loro stile rispondono ad una esigenza di maggior rigore geometrico, di più accentuato senso architettonico non privo dell'indispensabile trasporto lirico: per la prima volta si realizza una lettura bachiana in cui oggettività strutturale e abbandono poetico coesistono. Sarà a tal punto il binomio vincente di tutta la storia interpretativa del nostro secolo, che solo i furori filologici di oggi (ennesimo tentacolo dell'eredità positivista) tentano di sopraffarlo. In realtà con Heitmann e Nowakowskj si esce per la prima volta dal clima romantico e involuto delle precedenti interpretazioni, il fraseggio comincia ad avere il giusto rilievo e la chiarezza polifonica acquista un nitido contorno: in altre parole siamo di fronte a un Bach autentico, che non disdegna l'esperienza romantica per cui è passato, ma della quale conserva un lontano ricordo. Non si presume di ricostruire fotograficamente, con le alchimie da laboratorio, il Bach del 1728, bensì viene trasposto in suoni il significato complessivo del suo messaggio (questo sì in modo oggettivo) coscienti di non poter evitare del tutto le acquisizioni storiche intercorse fra il tempo di Bach e il nostro.
Con Fernando Germani, principale diffusore dell'opera bachiana in Italia, nonché studioso insigne, si resta più vicini allo stile legato della tradizione romantica, pur senza ritornare alla esasperante lentezza di un Dupré. Anzi, nel caso di Germani, lo stile legato proviene da una inclinazione virtuosistica, che inficia la chiarezza del dettato per il desiderio di offrirne un'immagine aerea, vaporosa. E' una tentazione contro cui bisogna guardarsi nell'eseguire Bach: la trasparenza del suo linguaggio, al contrario, viene data proprio dal minutissimo cesello geometrico.
E alla perfetta, a tutt'oggi insuperata, realizzazione del cesello bachiano (non disgiunta da un'intensa espressività lirica e religiosa) si perviene tra la fine degni anni '50 e la fine dei '60 per merito precipuo di questa grande triade di interpreti: Helmut Walcha, Walter Kraft e Michael Schneider, che potrebbero essere definiti come i depositari delle verità bachiane del nostro secolo. Già la loro provenienza indica il clima di piena ortodossia bachiana in cui ci veniamo a trovare: Kraft è di Lubecca, Walcha di Lipsia e Schneider di Weimar. Esistono tuttavia alcune differenze fra i tre stili. Mentre il nordico Kraft sottolinea in modo quasi glaciale la costruzione plastica del Kantor con una stupefacente ma tutt'altro che inespressiva esattezza di contorni, Walcha e Schneider propendono verso un'epressività leggermente più morbida, che però non intacca minimamente l'imperturbabile gioco dell'architettura bachiana e la sua armonia distributiva. D'altro canto il denominatore comune ai tre interpreti può essere identificato con il perfetto equilibrio fra le due componenti primarie del pensiero di Bach (rigoglio formale e ispirazione religiosa), mentre domina nella loro lettura il senso austero, ostinato e quasi drammatico della fede luterana, elemento che resta il cardine psicologico su cui ruota il mondo di Bach. Dal punto di vista meramente tecnico, il criterio esecutivo che questi tre «grandi» affermano una volta per tutte è quello del fraseggio staccato, nitido, proteso ad evidenziare la costruzione a segmenti del linguaggio bachiano.
Anche per quanto concerne il cembalo Walcha è riuscito a portare una testimonianza fondamentale: egli è l'unico ad aver tradotto in pratica la concezione organistica del clavicembalo bachiano, così lontano nella sua costruzione polifonica, dal cembalo di un Rameau o di un Haendel, per non dire di uno Scarlatti. Tale concetto è stato ormai assodato per la gran parte del repertorio cembalistico di Bach, ma soltanto Walcha (forse perché organista) è stato capace di metterlo in pratica: la sua incisione del Clavicembalo Ben Temperato ne è un esempio miracoloso. Pur senza rinunciare a continue delicatezze espressive, egli non cessa mai di evidenziare il severo gioco polifonico che sorregge il tutto.
A tanto non sono giunti né l'estroso e suggestivo Kirkpatrick (troppo esuberante, eccede in coloratura come spesso gli anglosassoni), né la precisa Algrimm (un po' spigolosa e talvolta quasi telegrafica), né la bravissima Ruzickova (leggermente troppo languida, anche se molto raffinata). Gustav Leonhardt merita un cenno a parte: la sua natura fiamminga ci offre interpretazioni suggestive e affascinanti anche se probabilmente non ortodosse dal punto di vista bachiano. Ad esempio egli abusa del rubato, che viene a sconnettere la complessa stratificazione della polifonia di Bach; tuttavia le sonorità turgide e misteriose che sa trarre dai suoi clavicembali antichi ci conducono nella dimensione esoterica e sognante che pure faceva parte del mondo seicentesco. La sua lettura delle Variazioni Goldberg è al di sopra di ogni aggettivazione.
Fra gli organisti di maggior spicco cronologicamente posteriori a Walcha (ovvero più giovani) troviamo l'austriaco Anton Heiller, che sovrappone alla chiarezza di fraseggio una certa cantabilità alquanto espansiva, intenta soprattutto a trasmettere la devozione religiosa della musica di Bach. Importante è pure la lettura di Gaston Litaize, il quale, pur essendo francese, riesce a contenere al minimo le caratteristiche della sua scuola (non idonea ad una esemplare lettura bachiana) e a offrirci un Bach potente, intenso, ma allo stesso tempo chiaro e toccante. Assolutamente fuori stile si trovano invece i due decantati francesi Marie Claire Alain e Michel Chapuis la prima immette una «verve» eccessiva nel trasmetterci i pensieri del Kantor (per non parlare delle registrazioni), il secondo alterna brani interessanti e talvolta validissimi ad altri sconcertanti per l'impensabile velocità, e tale inconstanza ci induce a sospettare che egli non abbia ben assimilato il significato culturale di Bach.
Invece di grandissimo interprete possiamo parlare riferendoci a Wilhelm Krumbach, le cui letture raggiungono vertici elevatissimi per profondità speculativa, senso poetico, chiarezza di fraseggio e mirabile registrazione: una vera summa della tradizione esecutiva tedesca, l'erede designato a raccogliere la «leadership» dell'ormai vecchio Walcha. Nel repertorio dei corali in particolare Krumbach ci offre dei bagliori forse mai raggiunti prima d'oggi in quanto egli sa sovrapporre all'euritmia geometrica una religiosità intensa.
Molto bene possiamo anche dire di Lionel Rogg, la cui precisione, unita a raffinatezza espressiva, è notevole e assai disinvolta. Anche l'Italia non è priva di esecutori validissimi per quanto se ne parli raramente o perlomeno senza la dovuta attenzione. Gianfranco Spinelli e Luigi Ferdinando Tagliavini emergono per rigore filologico e misura interpretativa; Achille Berruti al contrario è temperamento più intuitivo e particolarmente incline a evidenziare i legami espressivi fra il corale bachiano e la corrente del Pietismo; Giuseppe Zanaboni si distingue per il trasporto poetico delle sue interpretazioni. Fra i più giovani sono da segnalare per diversi ma altrettanto validi motivi Enzo Corti, Carlo Stella, Francesco Catena e Stefano Innocenti, interpreti che accomunano tutti notevole sensibilità espressiva a una solida e rigorosa preparazione.
Tuttavia, per concludere, è opportuno ricordare che le disquisizioni tecnico-interpretative su Bach sono utili fino a un certo punto oltre il quale divengono pleonastiche. Bach rappresenta il culmine estetico di un mondo (il '600) che credeva nei contenuti della ragione (le idee chiare e distinte di Cartesio) come tramite perfetto fra l'uomo e l'ordine divino. Ora noi, alla luce delle considerazioni fatte all'inizio di questo scritto, non crediamo più in tale verità, in quanto la ragione ci appare del tutto insufficiente a cogliere la totalità della vita (si pensi solo a cosa dice in proposito Bergson). Per questo motivo Bach resta un fenomeno irripetibile. Eseguirlo significa soprattutto capire il mondo che egli rappresenta e comprenderne il senso complessivo nel corso della storia fino a noi. In termini hegeliani diremmo che bisogna capire il mondo di Bach come «figura» (Hegel dice «Bild») del divenire dello Spirito nella fenomenologia della storia e del pensiero.
Paolo Fenoglio
("Rassegna Musicale Curci", anno XXIX n. 2, settembre 1976)
Cenni discografici
(per quanto concerne dischi reperibili sul mercato italiano)
1) Le interpretazioni bachiane di Albert Schweitzer sono state ristampate dalla CBS.
2) Di Marcel Dupré la Philips ha recentemente pubblicato alcune interpretazioni.
3) Wanda Landowska è stata riproposta dalla Victor.
4) Di Fritz Heitmann e Anton Nowakowskj sono stati recentemente pubblicati due dischi della Telefunken nella serie «Dokumente».
5) Fernando Germani è reperibile nella EMI.
6) Helmut Walcha ha inciso la sua famosa opera omnia per la Archiv.
7) Walter Kraft ha fatto altrettanto per la VOX (e si trova ancora qualcosa).
8) Di Michael Schneider è difficile trovare dischi in Italia, tuttavia ne segnalo uno nella collana economica «Europa» distribuita dalla DUCALE.
9) Il cembalo di Walcha si trova ancora nella Archiv o, per chi la trovasse, in una edizione EMI del '63, ottima.
10) Kirkpatrick ha inciso per Archiv e DGG.
11) Isolde Algrimm per la Philips (oggi si trova nella serie «Fontana»).
12) Zuzana Ruzickova per Supraphon e Erato.
13) Gustav Leonhardt per Telefunken, BASF e Philips.
14) Anton Heiller ha inciso l'opera omnia per la Philips (oggi nella «Fontana»).
15) Gaston Litaize ha realizzato alcuni dischi per la Decca francese.
16) Marie-Claire Alain per la Erato e Michel Chapuis per la Telefunken (entrambi l'opera omnia).
17) Wilhelm Krumbach per BASF e Telefunken.
18) Lionel Rogg ha inciso l'opera omnia per la ORYX inglese.
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