Il cinema può usare la musica in due modi: come commento musicale di sottofondo nella colonna sonora (a volte raffinatissima e strettamente coordinata all'immagine; vedi l'inevitabile esempio di Prokofiev per Alexander Nevskij) e come argomento. Nel secondo caso è praticamente indispensabile includere anche il primo, perché la musica come argomento risulta parecchio insipida se non c'è niente da ascoltare; e non certo in un film si fanno comparire pagine di partitura, nemmeno nei paesi dove si può far partecipare il pubblico alla parte musicale di uno spettacolo semplicemente dandogli all'ingresso una pagina di musica da leggere; in Italia, poi, sarebbe una barzelletta.
Quale argomento, la musica può entrare nel film o come biografia più o meno romanzata di un musicista, o come episodio musicale in una vicenda qualunque; e può succedere che il brano, la composizione musicale che si ascolta in quell'episodio diventi anche il motivo base di tutto il sottofondo-commento: così, mi pare, era in Breve incontro, con il Secondo Concerto di Rachmaninov suonato da Eileen Joyce. A parte il suo carattere emotivo, questa composizione non aveva niente a che fare con la vicenda del film. Ne aveva parecchio, invece, in un altro film, dove si vedeva Arthur Rubinstein suonarla: e i due film aggiunsero alla celebrità del Secondo Concerto anche una popolarità non molto nobile e abbastanza tipica. Quella, per intenderci, che affligge Schubert e la sua Sinfonia in si minore, meglio nota come Incompiuta, da quando circolò il film Angeli senza paradiso. E poiché là dentro, dandosi l'aria di raccontare la vita di Franz Schubert, si faceva intendere non so più che sciagurato movente amoroso come causa della incompiutezza, le conseguenze furono due:
a) la gente credette che quella fosse l'ultima sinfonia di Schubert e che fosse rimasta "incompiuta" alla sua morte precoce;
b) oltre all'Ave Maria, diventò popolare anche l'Incompiuta: o meglio, quel motivo cantabile che nel primo tempo della Sinfonia stessa funge da 'seconda idea', in mi maggiore; popolare non molto diversamente da come intende Adorno, nel descrivere l'ascolto basato sui motivi e i motivetti, che secondo lui costituirebbe il feticizzante "consumo" della musica nella nostra società, incoraggiato dai direttori e dai concertisti che ai «motivi» darebbero troppo rilievo.
Ma non è ora il caso di discutere sul generalizzare adorniano; torniamo invece al cinema. Il discorso che ho fatto fin qui non è, come può sembrare, una divagazione in superficie: ricorda, invece, come nel cinema (e al cinema) i rapporti fra la musica e il pubblico, che qui è prima di tutto pubblico cinematografico, finiscano per essere anche rapporti di diffusione, anche quando gli autori del film abbiano altri scopi. Un elzeviro di Michele Prisco prende spunto proprio dal film che più ci interessa, Morte a Venezia, ed è mosso soprattutto da codesto fatto della diffusione e, in particolare, dal livello al quale avviene: «in ogni caso molto volgarizzata, nonostante tutta la nobiltà dell'operazione, alla massa inerte degli spettatori disseminati nel buio delle varie sale anche ai patiti di Rita Pavone e Celentano»...
Per non rischiar di deformare il senso del discorso di Prisco, dovrei riprodurre gran parte del suo elzeviro: ma porterei via spazio e rischierei di uscir dal seminato; avvertirò che lo scrittore esprime inquietudini e sensazioni sue personali, si preoccupa che il discorso possa essere «a suo modo classista, o forse, peggio, razzista»; e raccomando a chi creda di giudicarlo, di andarselo a leggere tutto. A me interessa ora che Prisco, di tutto quanto contiene il film Morte a Venezia, si preoccupi solamente della musica e dell'effetto che produrrà non tanto vedere raffigurato nel protagonista del film un musicista, non tanto sapere adombrata in questa figura quella di Gustav Mahler, ma ascoltare la musica di Mahler nella colonna sonora. Tralascerò presto la sua reazione personale (è, dice, «un patito della musica di Mahler, e il suo è un singolare moto di gelosia: la gelosia di chi vede un sentimento privato o un ricordo personale o un bene prezioso tutto suo messo in pubblico...») ma questa ci ha portato quasi senz'accorgercene dentro all'argomento: cioè a quanto di musica, e quanto di Mahler ci sia in Morte a Venezia, film di Luchino Visconti.
Fra i casi accennati all'inizio, Morte a Venezia è cosiffatto: la musica ne è argomento, sia perché il protagonista è (per volere di Visconti) un musicista, sia perché questi più volte nel corso del film argomenta sulla musica; però la colonna sonora riproduce soprattutto composizioni che la vicenda attribuisce a quel musicista, ma che non vengono eseguite in quelle parti del film durante le quali si ascoltano, salvo brevissimi istanti: diventano «commento musicale», insomma (e come tali rischiano quel che Prisco teme). Ma è chiaro che non è tutto qui. E potremmo dire che i contenuti musicali e i riferimenti alla musica anche come riferimenti a un dato musicista variano a seconda dell'ascoltatore. Tant'è vero che, a livello di informazione giornalistica, Morte a Venezia ha sollevato due curiosità: se veramente Mahler fosse un tipo come l'Aschenbach del film, e se tutta la musica che c'è nella colonna sonora fosse sua.
Anche qualcuno che pur sapeva come nel racconto di Thomas Mann La morte a Venezia (Der Tod in Venedig) il protagonista fosse non musicista ma scrittore, pensa che tra quella figura e quella effettiva e vissuta di Mahler ci sia poca differenza, o che bastasse un niente a trasformar l'uno nell'altro: un niente che poteva essere anche soltanto la scena in flashback del funeralino della bambina (com'è noto, Mahler perdette veramente una delle due piccole figlie).
In sostanza, la domanda può diventare: perché e fino a che punto c'è Mahler nel film Morte a Venezia di Luchino Visconti, tratto da La morte a Venezia di Thomas Mann?
A «perché Mahler» sia Visconti che i suoi esegeti ufficiali rispondono con una spiegazione che Antonio Banfi avrebbe ascritto alla 'fenomenologia della cultura': e nel riferirmi al filosofo italiano non posso fare a meno di notare come il suo nome e il suo pensiero 'leghino' con il nodo di intenzioni e di 'Weltanschauung' che collega Thomas Mann a Mahler, se è vero che in Georg Simmel (uno degli ispiratori più fecondi del Banfi) si può trovare definito il «tempo psicologico» di Mahler: così avverte Luigi Rognoni, che del resto, come allievo di Banfi, era specialmente preparato a cogliere rifrazioni del pensiero simmeliano. E lo stesso Thomas Mann, pedina 'primaria' nel gioco fenomenologico che ci interessa, cita Simmel proprio a proposito di Venezia, vista (pare evidente) pensando a Der Tod in Venedig, e a proposito di un aggettivo che sembra essere l'insegna di Morte a Venezia e che si attaglia anche alla musica di Mahler (ma non soltanto alla sua): «ambigua». «...e la città ambigua nel pomeriggio. Ambigua è davvero l'aggettivo più modesto che le si possa attribuire (glie l'ha dato Simmel), ma le si addice stupendamente...»
Dicevo dunque che Visconti e i suoi esegeti spiegano la scelta mahleriana con l'effettivo legame fra certe altre scelte precedenti di Visconti, in particolare di quella manniana (fin da Mario e il mago come balletto); appunto i percorsi della 'fenomenologia della cultura' approderebbero, dopo quella partenza, ancora a Mahler non essendo stato abbandonato Mann; per Morte a Venezia lo stesso Mann, sappiamo, aveva richiamato Mahler, più o meno a ragione nel suo Der Tod in Venedig. Visconti poi, sollecitato da Micciché, ammette che ci siano delle «coincidenze nominalistiche fatti che mi sono accaduti di frequente, forse istintivi...», cioè un personaggio del suo precedente film La caduta degli dèi che si chiama anche lui Aschenbach come il protagonista di Der Tod in Venedig e di Morte a Venezia, e addirittura il Franz di Senso che si chiamava Mahler (e così volle Visconti: nel racconto di Camillo Boito il tenente si chiama Remigio Ruz). Aggiunge, però Visconti: «Ma in Senso c'era la musica di Bruckner, che fu maestro di Mahler, e dunque... il riferimento specifico mahleriano non era né isolato né casuale». Come «riferimento specifico», mi sembra un po' troppo vicino alla faccenda delle «coincidenze nominalistiche», cioè non sembra andar oltre la superficie di un richiamo psicologico, anche se affiorante da conoscenze e da una cultura molto più sostanziose.
Ma poco più in là leggo ancora, dichiarato da Visconti: «vi è infine da aggiungere che già per La caduta degli dèi avevo intenzione di usare la musica di Mahler»... . Non lo fece soltanto perché i produttori gli assegnarono un compositore loro per i commenti musicali. E qui si deve notare, intanto, che, per quanto si voglia considerare continuo il circuito delle idee viscontiane, La caduta degli dèi sembra essere considerato, anche da Visconti, il più lontano da Mann; e che dunque ci sarebbe stata in Visconti, non inconscia come nei «nominalismi», non vaga come nel richiamo attraverso Bruckner, una recente 'voglia di Mahler': e. si badi, non al livello di argomento, ma - come per la Settima di Bruckner in Senso - al livello più modesto del commento musicale. Dunque si direbbe che si siano incontrati due fenomeni: da una parte il circuito di idee, ('fenomenologia della cultura') dall'altro il cosiddetto boom mahleriano che sta prendendo ormai tutte le caratteristiche di una moda. A questa moda, mancava ancora il contributo di una colonna sonora cinematografica; persa l'occasione della Caduta, Visconti vi ha provveduto puntualmente adesso con Morte a Venezia. Intendiamoci, non credo che Visconti avesse bisogno di essere investito da una moda mahleriana per usare Mahler; però non penso sia vergognoso per nessuno aver ricevuto, magari inconsciamente, una sollecitazione anche da quella parte.
Prima di proseguire, però, devo giustificare l'etichetta di «moda» a proposito di Mahler. Potrà sembrare strano che lo dica proprio io: una ventina d'anni fa, quando da noi quasi tutti quelli che non ignoravano Mahler continuavano a ripetere i luoghi comuni accreditati da certi manuali (epigono wagneriano, musica da direttore d'orchestra e via dicendo) mettendolo nel mazzo dei prolissi e noiosi assieme a Bruckner, il sottoscritto era fra i pochissimi che cercavano di far capire al prossimo come tutto questo fosse perlomeno inesatto. Naturalmente, non ho affatto cambiato idea; so anche come «repetita juvant», e quanto abbiano giovato alla diffusione di Mahler le incisioni integrali su dischi con nomi prestigiosi come quello di Bernstein; mi rendo conto anche come la nostra epoca sia più adatta a cogliere il senso di una musica piena -di 'arrières-pensées' quale è quella di Mahler; però mi sembrano un po' strani gli entusiasmi di tanta gente, che fino a cinque minuti fa non andava molto oltre la canzonetta e adesso delira per sinfonie da centoventi minuti, una volta giudicate barbosissime (e se anch'io fossi «geloso» come Prisco?...).
A questo punto, conviene dare per conosciuti tutti i nessi esistenti fra Der Tod in Venedig di Mann e Mahler: cioè, riassumendo, che Mann dichiaratamente (vedi le sue lettere) si riferì a Mahler morto da poco per il protagonista di Der Tod in Venedig sebbene ne avesse fatto uno scrittore (11), non certo per somiglianze biografiche, ma, se mai, per assonanze di contenuti artistici; che il musicista Leverkühn, protagonista di Doktor Faustus (libro scritto molti anni dopo da Mann) adombra, sì, Schoenberg, ma al tempo stesso, vagamente, anche Mahler, e in certo modo riprende idealmente il tema di Der Tod in Venedig. E conviene passare a un breve esame di ciò che riguarda la musica in generale e Mahler in particolare nel film Morte a Venezia. Intendo 'musica' in senso larghissimo: storia, biografia, composizioni, esecuzioni, riferimenti di ogni sorta.
Prima di tutto: il protagonista di Morte a Venezia, Gustav von Aschenbach, è o non è, in realtà, Gustav Mahler?
Cominciamo con la somiglianza fisica. Nel film l'attore Dirk Bogarde è truccato in modo da somigliare vagamente allo stesso Thomas Mann, con i baffetti e gli occhiali; ma cerca di somigliare anche a Mahler, soprattutto per la fronte e l'attaccatura dei capelli. Dovrebbe trattarsi del Mahler anziano; questo, però, portava occhiali ma non aveva più i baffi, che aveva portato invece da giovane; inoltre, da giovane il suo naso non si era ancora incurvato, mentre era molto ricurvo verso il basso negli ultimi anni.
La somiglianza del viso di Aschenbach con quello di Mahler e un po' più accentuata nei brevi «flashback», quando appare più giovane sì, ma senza baffi. Nell'insieme, però, l'Aschenbach del film non somiglia a Mahler, anche per le proporzioni del viso, assai meno allungato.
Meno che mai la vicenda di Aschenbach ha a che fare con la biografia effettiva di Gustav Mahler; né il tono vago e quasi irreale della narrazione cinematografica può trasformare chiaramente la vicenda stessa in un simbolo, quasi che Mann e più ancora Visconti intendessero la morte precoce di Mahler (aveva cinquantun anni) come dovuta ad una specie di distruzione del fisico incapace di inseguire ideali di bellezza impossibile, fino a morirne.
Qualunque finzione letteraria diventa più diretta e definita quando sia trasferita in un film, malgrado i più sottili e raffinati presupposti espressivi e intellettuali. Qui, il fatto che più colpisce è l'improvvisa attrazione («ambigua» ma non tanto) che Aschenbach prova per il bellissimo ragazzo polacco Tadzio; fra tante contaminazioni e ambivalenze che promanano da tutto questo affaire letterario-musicale-cinematografico, si potrebbe anche credere che nella vita del vero Mahler ci fossero stati veramente episodi simili, interpretabili anche come simboli del suo travaglio artistico; e questo non è assolutamente. Mahler ebbe, sì, delle difficoltà psichiche, delle nevrosi, tant'è vero che andò anche a consultare Siegmund Freud; ma non risulta che in lui ci fosse niente di sessualmente equivoco. Nel film ci sono, è vero, alcuni episodi che non sono tratti dal racconto di Mann; e fra questi, due si riferiscono chiaramente alla vita di Mahler: i suoi giochi in campagna con la moglie e la bambina, e il funerale della piccola.
Mahler perdette effettivamente la sua primogenita che aveva solo cinque anni (la moglie Alma lo accusò di aver chiamato la sventura, poiché aveva composto poco tempo prima i Kindertotenlieder); ma questo non basta a far corrispondere Aschenbach con Mahler.
L'episodio del 'fiasco' (Aschenbach dirige una sua nuova composizione e viene fischiato) non si può riferire invece alla biografia di Mahler: i suoi veri insuccessi (due, a Budapest e a Monaco, con la Prima e la Quarta) sono del 1889 e del 1901, dunque non c'entrano col periodo finale; nel 1910 Mahler aveva diretto a Monaco 1'Ottava con i famosi mille esecutori, davanti a tremila persone, ed era stato acclamato per mezz'ora. In quell'occasione aveva conosciuto Thomas Mann. Se mai, ricorda un altro musicista immaginario, invenzione letteraria. di Romain Rolland: il protagonista di Jean-Christophe, libro che venne scritto anch'esso attorno al 1910. Visconti e lo sceneggiatore Badalucco hanno introdotto poi un personaggio che può ricordare il Serenus del Doktor Faustus: un altro musicista, un po' seguace e un po' collega, anche un po' 'doppio' secondo la poetica dei Romantici (in fondo, qualcosa
di hoffmanniano, di 'Kapellmeister' Johann Kreisler è pur rimasto, in tutti questi musicisti inventati, fino al Faustus). Quest'altro musicista, Alfried, discute più volte di musica, o meglio di estetica e di intenzioni artistiche con Aschenbach. Esempio tipico: «L'arte è la fonte più alta dell'educazione! L'artista deve essere esemplare... Un esempio di equilibrio e di univocità», afferma Aschenbach; e Alfried gli risponde: «Univocità? Ma l'arte è ambigua, sempre. E la musica è più ambigua delle arti... E' l'ambiguità elevata a sistema».
Alberto Moravia, recensendo il film su «L'espresso», ha creduto di riconoscere questi dialoghi come provenienti dal Doktor Faustus di Mann. Ma, come conferma anche Lino Micciché, in realtà essi derivano solo indirettamente («quasi soltanto ad sensum») dal materiale ideologico del Faustus, e risentono poi di altre opere manniane, non solo, ma riprendono più o meno vagamente anche scritti di Mahler; uno ripete testualmente parte di una lettera scritta da Mahler alla moglie Alma. Né a Mahler né all'Aschenbach di Mann si riferisce poi l'episodio della ragazza di piacere, ma ancora al Leverkühn del Doktor Faustus; difatti la giovane prostituta si chiama Esmeralda, come quella che 'contagia' Leverkühn; anche la nave sulla quale Aschenbach arriva a Venezia, nel film si chiama Esmeralda: nominalismo simbolico.
Al musicista Aschenbach, il film 'presta' la musica di Mahler: precisamente, tutto l'«Adagietto» in fa maggiore (quarto e penultimo tempo della Sinfonia n. 5 in do diesis minore) il quarto tempo della Sinfonia n. 3, che è un lied per contralto su testo di Nietzsche, e l'inizio del quarto tempo (finale) della Sinfonia n. 4, che è pure un lied, Das himmlische Leben dalla raccolta Des Knaben Wunderhorn, tanto importante nella poetica di Mahler. Che si voglia «prestargliela», ad Aschenbach, questa musica, e non soltanto farne un sottofondo di commento, è evidente perché l'«Adagietto» della Quinta non solo si ascolta più volte eseguito in parte (e una volta per intero) dall'orchestra senza un riferimento diretto all'azione, ma si vede e si ascolta Alfried suonarne 1'inizio al pianoforte; ancor più direttamente, le prime battute del finale della Quarta vengono suonate ancora al pianoforte da Alfried, con questa precisa affermazione, rivolta ad Aschenbach: «...La senti, no? La riconosci, vero? E' la tua..., la tua musica!». E' da notare che il frammento di Quarta sinfonia suonato al pianoforte, nella colonna sonora del film è preso da un disco dove è incisa una esecuzione che Mahler stesso registrò col famoso apparecchio Welte-Mignon che si applicava a uno speciale pianoforte Steinway. E' un 'autenticismo' un po' obliquo, perché nel film si vede suonare Alfried, non Aschenbach.
Quanto al Lied dalla Terza Sinfonia, vien fatto ascoltare in corrispondenza alla immagine di Aschenbach che, sulla spiaggia del Lido, si mette a comporre, ispirato dalla visione di Tadzio. Evidentemente, si vuol far capire che compone quella musica. Il testo è il Canto di mezzanotte dallo Zarathustra di Nietzsche, ed è facile riferirlo alle visioni e ai tormenti di Aschenbach: «O uomo, attenzione! Che dice la profonda notte? Io dormivo! Fui svegliato da un profondo sogno. Il mondo è profondo e più profondo di quanto ricordi il giorno... Profondo è il suo dolore. Gioia, gioia più profonda di quanto il cuore sopporti».
L'«Adagietto» della Quinta sinfonia è un Mahler abbastanza diretto, senza quel gioco di 'personaggi musicali' che crea spesso nelle sue sinfonie un vero e proprio teatro di musiche basato sulle reminiscenze, sul 'Kitsch', sulle citazioni proprie e altrui.
La cosa è parsa strana, si direbbe, agli esegeti mahleriani; ed ecco che si sono affrettati a trovare almeno una autocitazione, non proprio esatta ma soltanto «identica dal punto di vista ritmico e, per così dire declamatorio», come precisa Rognoni : due battute del Lied da Rueckert Ich bin der Welt abhanden gekommen (una delle più belle pagine di Mahler, dalla lentezza intensa e come sospesa nell'aria); certo, a furia di trovare in Mahler riferimenti alle musiche sue e a quelle altrui, si rischia di vederli anche dove non ci sono. A questa stregua, si potrebbero considerare derivazioni reciproche i molti passi dove Mahler adopera un tipo di frammento melodico evidentemente a lui caro, che inizia salendo due volte di grado (due toni, o un tono e un semitono) e prosegue con un salto ascendente di terza o di quarta.
L'«Adagietto» è musica dal timbro dolce (archi e arpa), e dal sapore agrodolce: bastano a inasprirla appena alcune dissonanze di 'seconda 'minore' (do diesis alle viole, contro re bequadro ai primi violini; fa bequadro ai primi, sol bemolle ai secondi violini); ad addolcirla, tre (di numero) unissoni fra arpa e violini; a renderla struggente il movimento delle parti, rallentato il più possibile, nella chiusa.
Posso capire la «gelosia» di Prisco, nel vedere il cartello fatale («da questa sinfonia è tratto il celebre Adagietto del film Morte a Venezia»), accanto ai dischi della Quinta nelle vetrine dei «negozi discografici». E qui è il momento di accennare all'esecuzione delle musiche di Mahler nella colonna sonora del film, con l'orchestra dell'Accademia di Santa Cecilia diretta da Franco Mannino: una interpretazione veramente bella, intensa, soprattutto nell'«Adagietto». In genere ci sono due criteri per interpretarlo: uno intende «Adagietto» come «non molto adagio» e tiene un tempo più scorrevole: vedi Bruno Walter o Barbirolli; l'altro, intende «Adagietto» come «Adagio breve» e «piccolo» (anche secondo l'organico orchestrale), e rispetta il «Sehr Langsam» scritto in partitura: vedi ad esempio Bernstein, e nel nostro caso Mannino. Nel Lied della Terza canta con voce calda il contralto Lucretia West.
Nei titoli 'di coda' del film si legge semplicemente: «Musiche di Gustav Mahler dalla III e V Sinfonia»; così si è rischiato di far prendere per Mahler anche qualche altra composizione che fa capolino nella colonna sonora; c'è la Bagatella «per Elisa», strimpellata con un dito da Tadzio e poi a due mani da Esmeralda: troppo celebre perché non si sappia che è di Beethoven; ci sono operette e valzer viennesi, suonati con stanchezza ammalata da una orchestrina; ma c'è anche una nenia cantata da Mascia Predit senza accompagnamento: sulle prime può parere una canzone polacca, invece non soltanto è russa, ma è di Mussorgskij. Ebbene, c'è stato il rischio che qualcuno la prendesse per Mahler, anche quella (e anche nell'elzeviro di Prisco c'è il rischio di capire che lui la creda di Mahler).
Qualche aspetto secondario, adesso; e qualche appunto che l'occhio del musicista suggerisce, quasi pignoleria dettata dalla deformazione professionale. Per esempio: si vedono Aschenbach e Alfried lavorare al pianoforte, tenendone il coperchio tutto sollevato, come se stessero dando un concerto; ma i musicisti di solito (vorrei dire di regola) quando compongono al pianoforte tengono il coperchio abbassato; direi che in genere non scoperchiano mai la coda, e per lo più tengono tutto chiuso, posando il leggio sopra il coperchio. Poi, ci sarebbe da divertirsi a indagare presso gli archivi delle fabbriche per sapere se già nel 1910 fossero in circolazione pianoforti a coda con gambe e cetra lisce e quadrate; è possibile, perché si tratta di elementi liberty; però uno dei vari pianoforti che si vedono nel film sembra veramente un po' troppo recente: soprattutto per quel leggio pieno e squadrato, invece che sagomato e traforato. Pignolerie, certo; ma proprio un ambientatore minuzioso e raffinato come Luchino Visconti fa venir voglia di sottilizzare.
Molti si chiedono se non sarebbe stato più netto lasciare che Aschenbach rimanesse scrittore, com'era nel racconto di Mann. Visconti obietta che è più adatto al cinema presentare un musicista, perché la musica si può far ascoltare, mentre non è altrettanto agevole far 'leggere' brani letterari. E' vero; ed è anche vero che sarebbe praticamente impossibile far ricorrere le eventuali citazioni letterarie come Visconti ha fatto con l'«Adagietto», trasformato in motivo conduttore del commento musicale, e al tempo stesso in «citazione creativa». Poi, c'erano i complicati motivi ideali, i circuiti di idee, le intenzioni nascoste, le anticipazioni in Thomas Mann, da Der Tod in Venedig al Doktor Faustus, per cui il musicista, Mahler o non Mahler, aveva covato a lungo sotto la cenere. Ma riunire e far emergere alla luce questi motivi sotterranei è sempre una operazione molto delicata. Una massima teatrale antica, classica, raccomandava di non mostrare mai in scena i morti. Qui il «morto» è invece una cosa viva e instabile, «ambigua», la musica. Mettendo in chiaro quel che in Mann era in cifra, Visconti ha realizzato un film raffinato e (stando anche al giudizio di chi se ne intende) cinematograficamente molto alto. Tuttavia il musicista, davanti a quell'Aschenbach-Mahler-non-Mahler, si trova un tantino a disagio.
Ma i musicisti, lo sanno tutti, sono dei rompiscatole; figuriamoci quando, da ragazzi hanno studiato anche un po' di filosofia.
Alfredo Mandelli
("Rassegna Musicale Curci", anno XXIV n. 2, giugno 1971)
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