Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, maggio 14, 2007

L'Antigone di Ivan Fedele

Le "prime assolute" di opere liriche in Italia sono diventate avvenimenti rari. Colpa senz'altro di teatri che non hanno il coraggio di osare, ma anche dei compositori che fanno fatica a rinnovare quella formula del «recitar cantando» che continua a catturarci attraverso le opere del passato. Il soggetto scelto per l'inaugurazione - il 24 aprile di un Maggio Musicale tutto incentrato sul mito è Antigone: l'eroina sofoclea che ha già ispirato una ventina di opere, prevalentemente del secondo Settecento (da Galuppi a Winter) e del primo Novecento (da Honegger a Orff). Il compositore è Ivan Fedele, che a cinquantaquattro anni ha scritto ora la sua prima vera opera (se si esclude il dramma musicale giovanile in un atto, Ipermnestra) con il collaboratore letterario di sempre, Giuliano Corti (che ha partecipato anche lui all'intervista che segue). Un debutto un po' tardivo per un musicista di doti singolari, da sempre dedito alla ricerca d'avanguardia, che esprime già da tempo un'autentica vocazione drammatica anche nella sua musica non-teatrale e che mostra qui una rara consapevolezza del proprio operato. Lo spettacolo beneficerà fra l'altro di una messa in scena ingegnosa firmata da Mario Martone e Sergio Tramonti e di un compagnia di rilievo capeggiata da Monica Bacelli (Antigone) e Roberto Abbondanza (Creonte) e diretta dal compositore svizzero Michel Tabachnik.
Per i compositori d'avanguardia del dopo-guerra scrivere un'opera non era una faccenda semplice. Fino a che punto questa difficoltà si avverte ancora oggi?
La volontà dei compositori della scuola di Darmstadt di disgregare la forma attraverso il serialismo integrale li ha portati a respingere tutte le forme più tipiche del periodo romantico, e le difficoltà che ebbero a riavvicinarsi all'opera si manifestavano anche nella terminologia: si parlava spesso di «non-opera» o al massimo di teatro musicale. Gli stessi libretti tendevano a essere estremamente densi e poco teatrali, e i personaggi spesso rimanevano immobili in scena. C'è stata però in seguito una graduale ricostruzione dei linguaggi; si è riconosciuto l'importanza di una gerarchia, di un'organizzazione del materiale comprensibile nel tempo e capace di far passare un'emozione. Basti pensare a Rituel, scritto da Boulez nel 1975 in memoria di Maderna, dove una quarta eccedente si ripete e si rifrange in tutto il pezzo. Una cosa del genere sarebbe stata inconcepibile per un compositore come Boulez solo dieci anni prima. In anni più recenti poi sono state scritte delle opere di grande efficacia teatrale dai compositori più aperti alla sperimentazione linguistica. Penso per esempio a Das Mädchen mit den Schwefelhölzern di Lachenmann, un vero capolavoro, oppure alle Trois Soeurs di Peter Eótvós, un'opera meravigliosa in cui tre controtenori svolgono i ruoli delle tre sorelle di Checov: un esempio di come il linguaggio della contemporaneità possa essere utilizzato con piena maturità espressiva.
L'impiego delle voci nelle opere contemporanee è rimasto però piuttosto uniforme...
In effetti c'è stato per molto tempo un ricorso a un declamato generico che giustifica la presenza di attori vocalizzanti sulla scena ma che non si assume nessuna responsabilità di tipo stilistico. E una specie di rifugio grigio nel quale si nasconde il compositore che non vuole ammettere di scrivere un'opera. Fui molto colpito quando ascoltai per la prima volta Outis di Berio, un'opera in cui il protagonista canta una vera e propria aria fatta di note piuttosto lunghe che seguono una direttrice ora discendente ora ascendente. Un'altra esperienza per me affascinante è stata la rappresentazione di GO-gol di Michael Levinas il figlio del filosofo alla Filature di Mulhouse una decina d'anni fa. Al personaggio veniva associato una linea cromatica ripetuta molte volte che ti rimaneva in testa anche dopo l'uscita dal teatro. Interessante da questo punto di vista è pure Medeamaterial di Dusapin, incisa con l'orchestra barocca di Herreweghe.
Come deve rapportarsi con il passato il compositore contemporaneo?
A differenza dei nostri «padri» musicali, che avevano una visione positivistica della musica e della storia della musica, per cui ogni novità tendeva a cancellare i filoni precedenti o alternativi, oggi dobbiamo cercare una sintesi più alta. Che secondo me si può trovare in una visione «geologica» della storia. Il compositore è seduto su un terreno nel quale si trovano tutte le stratificazioni del passato. Egli diventa così contemporaneo - se pensiamo a un punto verticale dove spazio e tempo si unificano - anche della storia, con il quale instaura appunto un rapporto di profondità. Io posso penetrare nella storia e tirare fuori dal terreno sottostante il contrappunto del Cinquecento, il quale all'aria della contemporaneità si ossida, si sbriciola, quindi assume un nuovo senso. Questo secondo me significa avere un rapporto sano con la storia. Non a caso la crescita in alto di una pianta è proporzionale alla fertilità del terreno e alla profondità delle radici.

Può dare un esempio dell'influenza del passato nella Sua produzione?
Quando decisi di scrivere un Concerto per pianoforte e orchestra, ho riflettuto sulla fenomenologia del Concerto classico, che ha alla sua base il principio fisico semplicissimo dell'eco; della botta e risposta. Lo stesso principio che informa il canone, la fuga. E siccome l'eco è un fenomeno di risonanza, ho riflettuto su come si potesse sfruttare altri tipi di risonanza all'interno di un Concerto per solista e orchestra. E ho pensato che l'orchestra potesse diventare un luogo, un ambiente nel quale la parte solistica venga proiettata come quando si lancia un sasso nello stagno e si diradano dei cerchi. Cerchi che sono provocati dal sasso ma che non hanno niente a che fare con la forma del sasso. Per esempio se il solista esegue degli arpeggi, l'orchestra fa degli accenti su questi arpeggi; così si crea una vera coesione tra solo e tutti senza che l'orchestra ripeta alcunché della parte solistica.
Quando ha deciso di scrivere un'opera?
Ci stavo pensando da tempo quando, tre anni fa, dopo un concerto dell'Ensemble Intercontemporain a Firenze nel quale venne eseguita Ali di cantor, una mia composizione per trenta musicisti dislocati nello spazio scenico in maniera simmetrica, l'allora sovrintendente del Maggio Musicale Giorgio Van Straten mi telefonò e - dopo aver lodato la forza drammaturgica di quella composizione orchestrale - mi chiese se avevo mai pensato di scrivere un'opera. Gli risposi che riflettevo da mesi, insieme a Giuliano Corti - autore di molti testi da me musicati - su tematiche possibili, e che eravamo particolarmente attratti dall'idea di affrontare un soggetto mitologico con protagonista femminile. Fra l'altro con Giuliano avevamo già realizzato per la radio venti quadri di cinque minuti ciascuno ispirati ai miti di coppia nella Grecia antica: quadri affidati a due recitanti e a una musica elettronica. Van Straten era entusiasta di quest'idea, in quanto aveva già pensato a un festival dedicato in qualche maniera al mito.
Perché poi la scelta di Antigone?
Perché come tanti personaggi creati in quel periodo d'oro dell'antica Grecia, Antigone continua a rapportarsi a noi, soprattutto nella sua rivendicazione delle ragioni del cuore, in opposizione a quelle del potere. E' veramente un personaggio poliedrico: può essere vista non solo come eroina che combatte contro il potere ma anche come espressione di pietas. Ci sono volute però sette stesure del libretto per arrivare al testo estremamente asciutto che cercavo.
Qual è il rapporto tra il libretto e la tragedia di Sofocle?
Abbiamo conservato l'impianto di base di Sofocle, ripartendo dal testo greco e ricostruendo la storia delle traduzioni - non solo in italiano ma anche in francese e in inglese - cercando di trovare le parole essenziali che permettano di liberare il significato originale. In un certo senso, più si toglie e più si riesce ad esprimere. Man mano che il libretto prende corpo, io mi faccio un'idea musicale. Prendo molti appunti, già comincio nella mia testa a caratterizzare i personaggi. Immaginavo di essere seduto in scena e di vederli muovere intorno a me. Dovevo controllare da vicino il movimento e mi sono sempre posto la domanda: perché devo mettere in musica quest'azione?
Come caratterizza chi sta in scena?
Attraverso il profilo melodico, l'articolazione ritmica, le scelte intervallari e il contesto armonico. Per Creonte uso due o tre stilemi che si ripeteranno in forma compressa o dilatata per tutta l'opera. Alla fine dell'opera la sua stentorietà viene meno: c'è una transizione tra il canto e il parlato che dà l'idea di un personaggio che va verso la follia, una follia che si esprime pure attraverso la disintegrazione del testo. Emone - il fidanzato di Antigone e figlio di Creonte - ha una linea simile di quella del padre, ma compressa: una linea che ci comunica il loro legame di famiglia al di là di ciò che esprimono le parole. Tiresia - che ho affidato a un controtenore - si esprime in maniera completamente diversa, per sottolineare il carattere particolare del suo vaticinio. Quando fa i presagi di sventura, lo fa dilatando o comprimendo il testo, per renderlo il più oscuro possibile. Il controtenore è l'unico cantante la cui voce viene sottoposta a una vera e propria elaborazione elettronica. Porterà un sensore al polso che manderà degli impulsi al computer che trasformeranno i gesti del personaggio in modulazioni vocali. Così la voce sarà doppiamente straniata. Tutte le altre voci saranno poi sonorizzate per uscire un po' dalla retorica operistica classica e per permettere anche le sfumature del sussurrato senza avere problemi di proiezione nella sala. Antigone è un mezzosoprano, mentre la sorella Ismene è un soprano. All'inizio, quando sono unite nel compiangere il fratello, cantano insieme. Si esprimono in duale: si tratta di una forma personale tipica della grammatica greca: «noi due». Nella poesia essa esprime una relazione intima di scambio e di condivisione. Quando però le scelte delle due sorelle divergono, non cantano più insieme e anche le linee musicali si distinguono più nettamente.
Che tipo di equilibrio cerca di raggiungere tra voci e orchestra?
Io sono partito comunque dall'idea che ci fosse una sonorizzazione delle voci; una cosa diversa rispetto all'amplificazione. La sonorizzazione permette di applicare alla voce dei trattamenti: per esempio due personaggi possono avere dei riverberi leggeri ma diversi. Nella scrittura tuttavia sono sempre stato consapevole del fatto che sotto le voci ci saranno novanta soggetti che suonano. In orchestra c'è un utilizzo notevole del registro grave, un centro di gravità abbastanza basso. Ho lasciato l'orchestra con la briglia sciolta solo quando ci sono passaggi puramente strumentali. In altri momenti ho cercato degli effetti più sfumati, come il coro di ottoni con sordina che crea una specie di riverbero in orchestra della linea vocale. In questo senso si può parlare di un tentativo di «vocalizzare l'orchestra». Anche se poi il nucleo centrale dell'orchestra sono gli strumenti a percussione intonati - il cymbalon, il vibrafono, la marimba del registro grave, il pianoforte insieme all'arpa. Strumenti che creano un'atmosfera al contempo arcaica e contemporanea: servono a punteggiare il fraseggio vocale, a volte quasi con l'effetto del battito di un cuore. La stessa orchestra insomma diventa quasi un personaggio.
C'è qualche altro aspetto curioso nel mondo sonoro di quest'opera?
Mi sono concesso una libertà di tipo interpretativo: un coro femminile collocato in sala che rappresenta l'inconscio femminile, una specie di orchestra di voci che fa riverberare alcune note di Antigone nella sala. Desidero in questo modo evidenziare la presenza di un'altra «scena», quella del pubblico che ascolta. Per me del resto la dimensione spaziale della musica è molto importante. E l'allestimento di Mario Martone valorizzerà benissimo quest'aspetto della drammaturgia musicale, sfruttando la profondità del palcoscenico del Teatro Comunale. La mia riflessione sulla spazializzazione della musica parte dalla constatazione che quando due strumentisti seduti uno accanto all'altro in orchestra si scambiano una frase melodica, chi ascolta avverte soltanto un cambio di timbro, mentre quando gli stessi strumentisti sono seduti a una certa distanza l'ascoltatore percepisce il passaggio nello spazio. E se questi spazi si moltiplicano si crea una vera e propria drammatizzazione della musica stessa. Ho fatto i primi esperimenti di questo genere in Duo en résonance e in Richiamo, entrambi composti negli anni novanta, e ho scritto pure un saggio sull'argomento in francese intitolato «Ecrire pour e par l'espace» (scrivere per e attraverso lo spazio).
Ha dei luoghi prediletti per la composizione?
Ho una cucina grande, e appena posso scrivo lì quando sono a casa a Milano. E' un luogo molto familiare. Ma in realtà posso comporre dappertutto. Quando faccio dei lunghi viaggi in treno di sei, sette ore - mi metto lì tranquillo e comincio a schizzare delle cose. Antigone poi l'ho scritta in parte a Gallipoli, dove mia madre ha una casa, davanti al Mar Ionio, e in parte a Strasburgo, in un ambiente mitteleuropeo completamente diverso. Poi in treno e in vari altri luoghi.
Quali invece gli orari congeniali per la scrittura?
Da questo punto di vista ho cambiato moltissimo nel corso degli anni. In passato facevo anche le due, le tre di notte. Adesso dormo di notte e lavoro benissimo la mattina, anche se ho un metabolismo lento, come pure nel primo pomeriggio. E' come se avessi bisogno della luce per essere creativo. Mentre la sera è il momento in cui rifletto, leggo, guardo delle cose. Non si riesce del resto a immaginare musica per ventiquattro ore di seguito. Componendo Antigone non mi sono limitato inizialmente alla semplice linea vocale e a uno spunto di accompagnamento; ho iniziato a strumentare quasi subito.
Come avviene l'ispirazione?
Un'idea può presentarsi come un flash, ma il lavoro di comporre è quello di renderla. L'idea iniziale non resta infatti sempre la stessa. Non riesco a capire quei colleghi che mi fanno vedere un foglietto e mi dicono: «questo è il mio pezzo per orchestra». Come se lo schizzo contenesse tutto e la fase di realizzazione non contasse nulla. Per me invece il tempo può cambiare tutto e deve essere usato in modo creativo. Mentre scrivo una scena dell'opera, già sto pensano a come sarà la scena successiva. Per il personaggio di Tiresia - ad esempio - una parte che ho scritto alla fine, avevo delle idee chiarissime fin dall'inizio.
Ora che l'opera sta per essere messa in scena, che sensazioni ha?
Sono personalmente veramente soddisfatto del lavoro che ho fatto. Scrivere quest'opera mi ha dato molta felicità. Nello stesso tempo riconosco di non avere una conoscenza approfondita di come si fa teatro concretamente: le prove saranno per me un'occasione di apprendimento, e le seguirò con grande umiltà.

di Stephen Hastings (Musica, n.185, aprile 2007)

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