Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, giugno 14, 2008

Morricone: il compositore dell'empireo

La pittura, la letteratura, il cinema, la musica sono forme artistiche che illuminano la vita degli uomini facendo in modo che la dea della fantasia accompagni l'umanità, in letizia, sul cammino dei propri giorni. Tanto deve l'umanità a coloro che dedicano la vita all'arte perché, grazie a loro, la storia possa ricordarsi del passaggio dell'uomo non solo per le battaglie, i condottieri e le armi usate nelle guerre ma, soprattutto, per la capacità di una frase oppure di una melodia capace di congelare il tempo, di fermare il mondo. Fosse solo il nostro mondo interiore e null'altro. Per questo ringraziamo Ennio Morricone. Per essere stato uno di coloro che hanno fermato il tempo. A lui avremmo voluto chiedere tante cose, fargli mille domande ma, purtroppo, non ci è stato possibile. Così abbiamo pensato di costruire un'intervista fatta di domande e di risposte "inesistenti". Abbiamo cercato di costruire il nostro film e la nostra colonna sonora, senza irriverenza ma con grande passione e stima per questo Maestro che il mondo ci invidia...

L'appuntamento è per il primo pomeriggio, il Maestro non è solito fare il riposino romano ma, al contrario, è sempre un vulcano di idee ed iniziative. Entrare in casa sua è come immergersi in una sacrario ed, al contempo, nella storia della cultura del nostro Paese. Diciamo cultura a ragion veduta perchè il cinema, la musica, le arti figurative sono cultura di alto livello, sono il mezzo più immediato per arrivare ad avvicinarsi ai giovani (e non solo).
Ennio Morricone ha raggiunto l'apice della sua carriera con l'Oscar che è stato assegnato quest'anno, ma da molti anni, ormai, l'Oscar se l'era già guadagnato grazie alla sua capacità di entrare negli animi degli appassionati di cinema che, anche grazie alle sue musiche, hanno saputo e potuto apprezzare tanti e tanti film che, nel corso di quasi cinquanta anni hanno attraversato la cinematografia nazionale ed internazionale rendendo Morricone un'icona della musica internazionale accanto a Nino Rota (solo per citare il primo compositore di colonne sonore che ci viene alla mente). Romano fino al midollo, ma del mondo altrettanto profondamente, Ennio Morricone è un musicista che ha saputo penetrare nelle storie cinematografiche che ha musicato con la consapevolezza che la musica è un medium formidabile per rendere migliore un film già bello, per rendere accettabile un film così-e-così, per non affossare completamente un film palesemente brutto...

È quasi una premonizione, ma il primo film per il quale venne composta una colonna sonora parla dell’America (“Alla conquista dell’America”, di Sergio Giordani, film TV del 1961). Come mai?
Non è semplice dare una risposta. Io allora ero un giovane compositore che non aveva esperienza in questo settore. Avevo lavorato in altri ambiti ma quello della composizione di una colonna sonora mi era sconosciuto. Fui contattato dalla segreteria della Rai e mi chiesero di preparare una colonna sonora a tema. Il film lo vidi molto di corsa ma avevo nella mente delle idee che potevano accompagnare le immagini, un bel bianco e nero che rivedrei volentieri, e le note mi scivolarono leggere dalla mente al pentagramma. Fu un compito facile da portare a termine ed, al contempo, un’esperienza forte ed indelebile. Poi l’America, con le sue tematiche e le dinamiche assolute la incontrai ancora…

Subito dopo, o quasi in contemporanea, il primo vero, grande impegno artistico a seguire le immagini; “Il federale”, di Luciano Salce.
Non fu un impegno facile. La guerra era finita da soli quindici anni e quello di Giuliano Salce era uno dei primi film sul periodo bellico, sul fascismo messo un po’ alla berlina, sui vizi ed i difetti del popolo italiano. Era un film politico ma anche ricco di sberleffi nei confronti del potere politico che aveva cercato di plasmare un certo modello di italiano ma che, inevitabilmente, per chi sapeva cogliere le sfumature, si rifletteva sul mondo politico dell’epoca. Era importante, quindi, lavorare utilizzare melodie che enfatizzassero la dimensione dell’attivismo e della speranza fascista ma, all’insieme, che ne ridicolizzasse, quali fossero macchiette, le attitudini più ridondanti dell’epica del ventennio. Quella fu una buona esperienza, che mi aiutò a mettere a fuoco un metodo di lavoro. Ricordo, per altro, che quando uscì il film andai a vederlo in un cinema del centro e dai commenti durante e dopo la proiezione ne trassi il convincimento che sarebbe stato un film dalla vita lunga. Ed al regista, che ne era certo fin da subito, bisogna rendere ancora oggi merito.

Già, Luciano Salce, per il quale nei due anni successivi Lei compose altre tre colonne sonore.
Si, ma non solo con Salce, che ricordo con grande simpatia, perché l’altrettanto bravo Camillo Mastrocinque mi commissionò due colonne sonore per altrettanti suoi film. Erano due straordinari animali da regia. Entrambi consci delle proprie capacità, ma anche disillusi dal fatto che non sempre i produttori riuscivano a comprendere le motivazioni ideali o solo di costume che si celavano dietro i loro progetti. Basti pensare alla vena ironica e satirica che vi era dietro la concezione artistica di Salce, la sua corrosività e come invece Mastrocinque riuscisse spesso a mascherare con la farsa e la commedia tematiche di particolare spessore. La mia musica doveva assecondare lo spirito che il film nascondeva nelle sue pieghe, con i suoni doveva enfatizzare quegli aspetti che la parola non doveva/poteva manifestare in maniera chiara ed inequivocabile. Ero un po’ un ventriloquo e mi piaceva questo ruolo. Con grande piacere e passione mi immergevo nel lavoro con la speranza di riuscire a trasmettere la giusta sintassi sonora a quella che le immagini diffondevano allo spettatore.

Consolidato quindi il ruolo di compositore di colonne sonore, arriva il momento del grande salto con Sergio Leone...
No, non è così facile ed immediato il ragionamento perché se è vero che il 1964 è l’anno dell’incontro con Sergio Leone ed il ritorno, se così si può dire, al tema dell’America, della frontiera, dei suoi limiti ed eccessi è anche opportuno ricordare che quello è l’anno di una colonna sonora particolare come particolare fu il film di Bernardo Bertolucci, “Prima della rivoluzione”, con un travaglio interiore, umano e politico che doveva emergere anche grazie alle musiche della colonna sonora. Ricordo quel lavoro come molto faticoso, non tanto per il tempo speso a produrre idee e suoni ma per l’impegno intellettuale che dovetti porre. Bertolucci non è mai stato facile da assecondare perché troppo ricco è il suo bagaglio culturale e quando lavori con per personaggi simili non devi mai accontentarti della prima idea o delle prime stesure. Ma quello è anche l’anno di un film leggero ed allegro come “In ginocchio da te” (con Gianni Morandi) che mi fece entrare in un mondo cinematografico-musicale ricco di immediatezza, frizzante, allegro e pieno di speranze. Ma tornando a Sergio Leone, mi piace ricordare la sua grande capacità di comunicazione; mi rese consapevole che con “Per un pugno di dollari” intendeva sovvertire le regole stilistiche ed ideologiche del film western. A me del concetto ideologico non importava un granché, ma quando vidi le immagini del film, il taglio delle inquadrature, i primi piani invadenti e non formali, compresi che era in atto una rivoluzione stilistica forte, piena, matura; e quell’americano, alto e con gli occhi penetranti, Clint Eastwood, sarebbe stata la testa d’ariete per sfondare nell’immaginario cinematografico degli spettatori del nostro Paese. All’epoca le sale cinematografiche erano strapiene ed un film che andava bene era il viatico per una carriera. Io mi misi davvero d’impegno per creare una colonna sonora che fosse il giusto compendio per le immagini e che le accompagnasse in una sorta di viaggio iniziatico verso un futuro magari ignoto ma, certamente artisticamente degno d’essere sfidato. Nacque così quel piccolo gioiello, ancora oggi credo attendibile, che fu la colonna sonora di "Per un pugno di dollari". Un film cui sono, ovviamente, straordinariamente affezionato e dal quale faccio fatica a staccarmi anche per ragioni elettive nei confronti del compianto Sergio Leone.

Ma questo film non divenne una sorta di caratterizzazione del suo stile, una piccola-grande gabbia artistica?
Certamente mi resi conto del rischio perché quando il successo bussa alla tua porta hai solo la possibilità di chiedere a te stesso se, perseguendo un filone, un criterio, stai facendo la cosa migliore oppure stai creando le premesse per un tran tran artistico. L’anno successivo, infatti, questo dubbio mi colse quando accettati di scrivere il commento sonoro a due film western, di matrice italiana e girati da Duccio Tessari: “Il ritorno di Ringo” e “Una pistola per Ringo”. Questi due film, che prendevano spunto dal precedente modello leoniano, mi fecero riflettere circa il mio coinvolgimento in quel genere di struttura filmica. E sulle tracce di questa riflessione mi portai nuovamente sulle piste di Sergio Leone che con “Per qualche dollaro in più” proseguiva il ‘suo’ discorso western ed, insieme, seguivo percorsi sonori più “cerebrali” lavorando alla colonna sonora di un grande film quale è, ancora oggi, “I pugni in tasca”, di Marco Bellocchio. Un film che mi esaurì dal punto di vista concettuale ma che ringrazio ancora oggi perché mi dette l’opportunità di esplorare il mondo interiore di una realtà assolutamente sconosciuta qual’era il mondo giovanile della metà degli anni ’60. Questo impegno, comunque, non riuscì a distogliermi dal comporre la colonna sonora di un altro film scanzonato come “Non son degno di te”, sempre con Gianni Morandi.

Certo non deve essere stato facile saltare da una tematica all’altra, cercando di non perdere il filo del metodo e del messaggio che è sotteso in ogni film, tanto che mi rimane difficile pensare a come Lei abbia potuto affrontare il lavoro che l’ha caratterizzata nel 1966.
Lei ha toccato un punto davvero delicato ed ancora oggi oggetto di mie profonde riflessioni perché non è stato davvero facile lavorare alla conclusione della trilogia western di Leone qual è stato il film “Il buono, il brutto, il cattivo”, un film che ricordo con grande affetto soprattutto per quanto riguarda la faccia truce di un buono quel’era Ely Walach. Per quel film avevo tutto pronto, ogni idea era collocata al posto giusto, tutto era perfettamente in linea con il tema del film. Ma quando vidi le immagini scorrere sullo schermo per la verifica delle mie idee musicali, mi accorsi che avevo sbagliato tutto e che Leone aveva dato altri indirizzi, orientamenti, versatilità alle idee che mi aveva precedentemente espresso. Quindi mi rimisi all’opera e composi d’un fiato tutta la colonna sonora. Un’impresa epica oggi che ci sono tutti gli ausili tecnologici che ben conosciamo, figuratevi quarant’anni fa…! Ma quello fu anche l’anno di due film, a mio parere, memorabili. Il primo è “La Battaglia di Algeri”, di Gillo Pontecorvo. Un film straordinario, sotto tutti gli aspetti e la cui musica mi venne di getto quasi fosse accompagnata da una sorta di daimon interiore che me la suggeriva. E come dimenticare quando vidi, per la prima volta, le immagini di quel bianco e nero ricco di sfumature, colmo di solarità e di antri bui e pieni di tensione. Fu un lavoro intenso che ricordo ancora oggi come uno dei momenti più importanti della mia vita artistica. Quasi a fare da contraltare a questo film colmo di epica, lavorai ad “Uccellacci e uccellini”, di Pier Paolo Pasolini. Un film complesso, che mi impegnò in maniera particolare anche perché venni come bloccato dalla presenza di Totò, inaspettato attore di un film che, a mio avviso, non rendeva merito alle sue caratteristiche. Fu, comunque, anch’essa un’esperienza importante e formativa nei confronti di temi magari ostici ma, ugualmente, parte attiva del cinema di quegli anni, militante, come qualcuno lo chiamava.

Tanto che l’anno successivo si trovò nuovamente a lavorare con Bellocchio…
È vero, fu in occasione del film “La Cina è vicina”, un film estremamente politicizzato che parlava al mondo studentesco ed operaio delle grandi città cercando di trovare similitudini tra il mondo arcaico-contadino cinese e la realtà proletaria italiana, quasi a volere cercare e trovare le radici comuni al fine di riprodurre in Italia lo stile ideologico della rivoluzione culturale. Anche in questo caso non fu un lavoro facile da svolgere e per calarmi all’interno della struttura ideologica dell’argomento decisi di partecipare ad alcune manifestazioni di quello che era il Partito Comunista marxista-leninista, sezione italiana che a Milano e Roma aveva parecchi aderenti. A ripensare oggi tutti quei ragazzi sicuri e decisi verso la rivoluzione proletaria, sotto la guida degli insegnamenti del Presidente Mao, come gridavano nei cortei mi viene da sorridere circa la caducità delle cose e su come sia possibile credere in un ideale e farsi strumentalizzare. E ve lo dice uno nato in piena era fascista…il 1967, comunque, fu anche il tempo per un film di transizione ma molto particolare per i tempi. La trascrizione cinematografica di “Diabolik”, del capace Mario Bava, un autore poco apprezzato ma dal grande talento purtroppo non sfruttato nella maniera adeguata per le sue capacità di regista.

Sergio Leone aveva in mente un film epico sul west e la mandò a chiamare. Correva l’anno 1968…
Era proprio il 1968 ed eravamo tutti un po’ scossi per quello che stava avvenendo, per questo rimasi un po’ perplesso quando Sergio mi chiese di comporre la colonna sonora di un ennesimo film western. Ma il mio fu, e me ne accorsi subito, un giudizio viziato dalla conoscenza parziale di Leone che, invece, in “C’era una volta il west”, aveva posto indicazioni nette e chiare circa la direzione verso cui la società si stava incamminando. In questo film, infatti, era racchiusa la nostalgia per un tempo andato ed, al contempo, la difficoltà ad incamminarsi verso un percorso che sostituisse gli orizzonti precedenti. Era il ’68 di Leone, quello, con l’idea di cancellare il patrimonio precedente per rimescolare tutte le carte presenti sul tavolo della società. Una volta afferrato il concetto e lo spirito principe del film fu semplice comporre la colonna sonora perché ogni immagine ed ogni passaggio sonoro erano figli di un medesimo presupposto. Così come lo era anche un film come “Teorema” che Pasolini mi sottopose ancora in versione abbozzata e che mi colpì per la sua essenzialità, per il suo andare diretto verso l’obbiettivo. Molto ideologico, forse, come quasi tutto il cinema pasoliniano ma esercizio importante per la mia crescita artistica.

Abbiamo citato spesso Leone, Pasolini, Bellocchio. Ma ricordo che lei ha lavorato molto anche con Giuliano Montaldo.
Con Montaldo abbiamo creato un ottimo sodalizio artistico perché lui, come me, è uno che va diretto sull’obbiettivo. Inquadra bene il problema e ne persegue la soluzione con metrica attenzione, con teutonica applicazione. Con lui ricordo di avere lavorato a film di grande spessore artistico-culturale quali, ad esempio, “Gli intoccabili”, “Sacco e Vanzetti”, “Giordano Bruno”, “Gli occhiali d’oro”, “L’Agnese va a morire”, per citare i più importanti. Ed il ricordo si poggia anche sugli aspetti di difficoltà che ho incontrato nel portare la musica al livello ottimale delle immagini affinché la passione e l’emozione delle storie raccontate venisse amplificata delle melodie. Basti pensare all’epica racchiusa in una storia come quella di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti oppure il dramma interiore di uno scrittore come Maselli, protagonista de “Gli occhiali d’oro”. E come interpretare gli ardori di Giordano Bruno, il suo tormento interiore diviso tra fede e ragione? Non da ultimo ricordo con grande emozione la storia di questa ragazza partigiana, Agnese, dei suoi dubbi, delle sue angosce, delle sue paure, delle sue intime speranze per un mondo migliore, del suo sacrificio. Non è facile, non è per niente facile interpretare, attraverso la musica, storie così diversificate ed emotivamente coinvolgenti. Questa è la difficoltà più grande per un musicista di colonne sonore. Indagare l’animo umano, entrare nei personaggi, scandagliarne le personalità, farle entrare nel corpo emotivo dello spettatore. Una cosa è musicare la natura, l’alba, un tramonto, altro, ben altro è musicare un silenzio, il pianto, la speranza, la paura, il sorriso, la morte. Come fai a musicare il dramma e la paura che pervade l’animo di due immigrati, anarchici, se non ti immergi nel loro mondo, se non pensi alla vergogna dell’essere additati al mondo come spregevoli assassini pur sapendo, in cuor proprio, d’essere innocenti?

Queimada” è un altro grande film per il quale lei ha dato il suo contributo musicale. Che cosa ricorda di quel lavoro?
Fondamentalmente il periodo in cui è stato girato. Era il 1969 ed in Italia eravamo in pieno autunno caldo ed anche la cinematografia risentiva di quanto accadeva nel mondo circostante. Marlon Brando era una sfinge impenetrabile, carismatico, eccentrico. Un monumento di incredibile coinvolgimento emotivo. Gillo Pontecorvo assemblò un film molto originale e, per certi versi, strano nello scandire la storia. Ma, alla fine il risultato fu qualcosa che sta a metà tra l’epica, la politica ed l’indagine del profondo. Nel comporre la colonna sonora del film ho potuto immergermi in territori precedentemente inesplorati e la morale più importante l’ho ottenuta dal caos che si fa ordine, nelle immagini che raccontano accompagnate della musica che ne regola e scandisce i tempi.

Un salto veloce alla scrittura cinematografica di Dario Argento ed ai suoi film più famosi, “L’uccello dalle piume di cristallo”, “Il gatto a nove code” e “Quattro mosche di velluto grigio”.
Dario Argento è stato per un certo periodo assistente di regia di Sergio Leone ed è in quella veste che l’ho conosciuto, poi decise di mettersi in proprio a dirigere film ma, onestamente, non avrei mai creduto che diventasse il re del film thriller made in Italy, prima e dell’orrore poi. Ma lui aveva talento e quando mi propose di musicare le immagini del suo primo film lo ringraziai perché mi dava l’occasione di potere dimostrare a me stesso che ero in grado di produrre una colonna sonora di particolare tensione, di riuscire a “far paura” con le note musicali. Ci sono riuscito? Beh, reclami non ne ho mai ricevuti e, quindi, immagino che il risultato sia stato ottenuto. Anche se non mi fa piacere pensare che la mia musica sia stata fonte di inquietudine, ma l’arte chiede anche questo.

L’ultimo film di natura western che ha girato con Sergio Leone è del 1971, ed è “Giù la testa”. Cosa ricorda di questo film?
Sergio mi raccontava che si sentiva ormai stanco per girare film lunghi ed all’aperto. Aveva bisogno di maggiore riflessione, di luoghi chiusi in cui poter esprimere una scrittura maggiormente densa, intensa, potente. Non più epica ma ragionamento, lentezza al posto di immagini rapide ed annichilenti. “Giù la testa” rappresenta la fine del mito della frontiera e, davvero, ogni punto di riferimento è saltato. Allora l’idea di fondo era quella di creare una sorta di musica epica, una sinfonia in chiave western che raccogliesse la malinconia, il dolore per il tempo che è trascorso, la difficoltà di incontrare il futuro senza un adeguato supporto che indirizzasse la visione verso un tempo ed un mondo nuovo. Questo era il ragionamento che mi guidò nel musicare le immagini di quel grande film che prendeva lo spunto ideale dalla lezione che andava impartendo, sul tema western, Sam Peckimpha.

Vorrei tornare un momento a parlare di Pasolini perché Lei ha musicato anche altri suoi film quali, ad esempio “Il Decamerone”, “I racconti di Canterbury”, “Il fiore delle mille e una notte”, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”.
Temi differenti, quasi antitetici verrebbe da dire, che lasciano un po’ straniati…me ne rendo conto ed infatti non credo di dire nulla di strano quando affermo che ho fatto molta fatica a conciliare musiche aperte, piene di sensualità e gioia per il godimento del corpo come la trilogia delle storie tratte dai romanzieri con quella durissima, nera, necrofila di “Salò”, liberamente tratta dalle storie del Marchese De Sade. “Salò” è stato un film in cui ho davvero fatto fatica a trattenere la repulsione, non tanto per le immagini del film in sé ma per la violenza di cui era intriso e, di riflesso, di cui è intrisa la nostra società. Pasolini, lo sappiamo, era un poeta obliquo, che vedeva il reale ed il futuro in una maniera specialissima e non sempre accettabile. Ma le sue visioni, purtroppo, erano centrate e la storia di questi anni, con il degrado della civile convivenza, ci ha insegnato che la visione che aveva era, purtroppo, corretta.

C’è stato anche il periodo, negli anni ’70, del film di denuncia che film come “La proprietà non è più un furto”, “Todo modo” e “La classe operaia va in paradiso”, di Petri, “L’istruttoria è chiusa, dimentichi”, di Damiano Damiani, “Ogro”, di Pontecorvo, “Corleone”, di Squittieri, “Forza Italia”, di Faenza.
L’attraversamento degli anni ’70 è stato un periodo complicato per il nostro Paese e, come dicevamo, il cinema ha cercato di raccogliere le istanze che la società mostrava. In Italia abbiamo avuto la fortuna di avere registi acuti, accorti, intelligenti, colti, che hanno fotografato l’attimo cercando di invitare il pubblico alla riflessione. Qualche volta con gli occhiali dell’ideologia, altre volte utilizzando l’arma dell’ironia, altre volte ancora usando il metodo storiografico. Qualunque sia stato il risultato, è da apprezzare il tentativo. La musica per questi film, quindi, si è sviluppata tenendo conto sia della trama specifica che del contesto socio-politico in cui ci trovavamo. In “Todo modo” il clima era cupo, in “La classe operaia…” era necessario trovare ambiti di speranza mentre in “Corleone” dovevano convivere sia la parte viva del territorio, l’ambito naturale e selvaggio che la parte aspra, dura, violenta del metodo mafioso. In ogni caso in questi film era necessario porre la giusta enfasi alla realtà che veniva raccontata. Una realtà dura che mostrava delle fotografie relative a quel preciso momento storico. Erano lavori “istantanei” che raccontavano ciò che era possibile verificare nel proprio quotidiano, andando a lavorare, leggendo il giornale. Anni, duri, anzi durissimi, le cui ripercussioni si sono dilatate nel tempo.

Però, al contempo, era il 1976, Lei lavorava con Bertolucci per quel grande affresco sociale e politico che è “Novecento”.
Quel film è stato un parto doloroso, non tanto per la difficoltà nella scrittura, nella composizione, nell’orchestrazione ma in quanto rappresentava il tempo passato della cultura contadina, delle lotte dei lavoratori mal pagati ed affamati, della durezza dello scontro sociale, del prologo del fascismo, della fine del sogno socialista. Per me “Novecento” ha rappresentato un’immersione nella memoria, un ritornare a pensare la nostra Storia non come una serie di eventi senza connessione, quasi un puzzle da mettere insieme in maniera coerente, bensì un percorso unitario ben preciso, un itinerario storico che tanto bene hanno saputo raccontarci gli scrittori di fine Ottocento e del Novecento. In questo film Bertolucci ha creato il suo personale percorso storico ed il mio contributo è stato quello di assecondarne la coerenza storiografica e la visionarietà sociale. Sono contento di questo film e del mio lavoro e quanto vedo il quadro Quarto Stato, di Pellizza da Volpedo, mi ritrovo idealmente all’interno di quel gruppo di popolani desiderosi di raggiungere il futuro in piena dignità.

Bertolucci è stato uno dei registi più prestigiosi con i quali ha lavorato e che Le hanno dato la possibilità di lavorare su temi molto differenti tra loro.
Non posso che condividere questa osservazione perché questa è una parte della genialità dei grandi registi che non si accontentano di incassare il frutto di un filone o di un tema che ha dato riconoscimenti artistici ed, ovviamente, economici. Partendo dal ragionamento sull’epica presente in “Novecento” non posso non ricordare l’evidente dissonanza/lontananza da un film come questo presente nella tematica di fondo di un film come “La luna”. Un lavoro, questo, a mio avviso molto claustrofobico che mi costrinse ad un lavoro molto intenso, poco epico ma, e mi scuso per il gioco di parole, molto edipico...

Storia e storie si intersecano, si connettono, si avvicinano, si allontanano senza sosta in questo film. Ma ve ne sono altri che vivono la medesima realtà e mi riferisco a lavori come “C’era una volta in America” (1984), di Leone, “The Mission” (1986) di Joffè, “Gli intoccabili” (1987) di De Palma, “The Days of heaven” (1978) di Malick.
Certamente c’è la Storia, quella grande di “Novecento” e di “The Mission”, ad esempio, ma anche le piccole storie che creano la Storia. “C’era una volta in America” è l’affresco finale su un mondo ormai trasformato che, e mi spiace dirlo, è ancora insuperato e nonostante “Gangs” di Scorsese abbia cercato di comprendere il momento storico precedente, la visione di Leone sull’America del secolo scorso è stata straordinanriamente intensa e poetica, malinconia ed aspra, struggente e dolorosa. Sergio Leone ha creato un affresco memorabile e malinconico di un mondo in via di estinzione ed ora estinto, La mia musica era al completo servizio della storia, delle immagini, della cromaticità degli esterni e degli interni. Ogni nota doveva essere ascoltata come un compendio alle parole ed alla fotografia e sono contento che la colonna sonora sia apprezzata anche da artisti del mondo del rock. Questo mi rende felice perchè significa che questa musica è stata capace di superare barriera di età e di fruibilità dell’ascolto musicale. “The Mission”, invece, l’ho vissuto molto più di istinto nel senso che la musica era non compendio ma protagonista ed il suo compito era, ed è, quello di indirizzare lo spirito dello spettatore verso lidi emotivi che lo facessero parteggiare, subito, per i più deboli. Dovevo creare un suono che si legasse fortemente e decisamente alla storia perchè attraverso il ricordo della melodia ritornasse alla mente la tematica del film. “Gli intoccabili” era una storia nera che però aveva una morale da fare risaltare alla fine del film. E questa morale l’ho costruita musicalmente grazie al ricordo delle emozioni provate quando vidi per la prima volta film come “Piccolo Cesare” oppure “Scarface”. Musica diretta, forte ed efficace che arrivava spedita al cuore. Per “The days of heaven” mi sono ritrovato immerso nella natura, come per “The Mission”, ma in un contesto nuovo pur essendo un film western. Terence Malick ha fatto solo tre film in oltre 30 anni di carriera ma la sua scrittura cinematografica è difficile, complessa, interiore, di varie letture. Mentre credi di avere capito il film, una nuova visione ti spiazza e ti riporta al principio della storia e da lì ricomincia ad immaginare una nuova filosofia di accompagnamento musicale, nuove possibilità sonore. Anche con lui l’impegno è stato duro ma non dimenticherò il suo saper guardare verso il cielo raccogliendo nel suo viso la luminosità di una giornata senza nuvole, quando il cielo è color cobalto. Irripetibile...

Dopo tutti questi film importanti dal punto di vista del messaggio e della produzione arrivano due film leggeri come “Un sacco bello” (1980) e “Bianco, rosso e Verdone” (1981) diretti da Carlo Verdone..
...per i quali posso dire di essermi davvero divertito. Carlo Verdone era agli esordi cinematografici e proponeva le sue macchiette, i suoi personaggi, le sue gags legate da un filo conduttore. Certo non è stato facile passare dalle immagini di straordinaria luminosità ed immensità stilistica di “The Mission” con gli esterni di una Roma caciarona. Ma alla fine il risultato è stato apprezzato, gradito ed assolutamente in linea con le tematiche, leggere, dei due film. E dopo tanto impegno una serena immersione nel non sense verdoniano è stato davvero un toccasana anche per la mia creatività.

Ci piacerebbe restare insieme a Lei per altre ore ancora ma non vorremmo abusare della Sua pazienza e cortesia. Vorremmo però sentire qualche Sua considerazione su "Jona che visse nella balena", di Roberto Faenza, un regista con il quale ha collaborato in varie occasioni.
Ah, ricordo “Jona che visse nella balena” come un film di grande spessore morale ed etico e non fu impresa semplice trarre le giuste note per accompagnarne le immagini. Intendiamoci, il problema non era quello di comporre una colonna sonora adeguata al film ma di fare giungere allo spettatore tutto l’orrore perpetrato dal nazismo, tutta la ferocia subita dal mondo dell’infanzia, il lutto indelebile delle famiglie distrutte, disarticolate, dissolte. Fare parlare gli adolescenti, attraverso le immagini e le musiche, del loro indelebile dolore è stata la scommessa che, insieme con Roberto, abbiamo messo in campo. Il mio compito era quello di costruire una musica che permettesse allo spettatore di entrare nella balena, nel cuore del dolore e del delirio e che, al contempo, indicasse una via d’uscita una volta che, scampati dallo sterminio, la vita potesse nuovamente essere accolta ed accettata come un dono e non come una sciagura.

Una domanda sul Suo lavoro con Giuseppe Tornatore, per il quale ha prodotto le colonne sonore di tre interessanti film quali il poetico “Nuovo Cinema Paradiso” (1988), il sognante “L’uomo delle stelle” (1995) ed il malinconico “La leggenda del pianista sull’oceano” (1998). Come giudica la nuova cinematografia italiana, Lei che ha accompagnato quaranta anni di cinema?
Non la giudico: la osservo e cerco di coglierne i più profondi mutamenti, di stile, di recitazione, di tematiche, di metodo, di forma, di esperienze, di contaminazioni. Il cinema che ho conosciuto io è finito da lungo tempo. Ora è tempo dei poeti e dei businessman, non ci sono mediazioni. Ogni tanto sorge una mosca bianca che si esprime con un bel film e poi scompare. Quello che latita è la continuità nei progetti, il senso di una cinematografia compiuta, i sogni che diventano realtà. O, almeno, la speranza che lo diventino. Il lavoro che ho avuto il piacere di esprimere con Giuseppe Tornatore è stato illuminante per dare più significato al discorso che sto facendo. In ”Nuovo Cinema Paradiso” ho cercato di esprimere un mondo perduto ed i sogni che il cinema ha posto nel cuore di un bambino, che rappresenta tutti gli adulti prima di conoscere il baco della disillusione. “L’uomo delle stelle” mi ha impegnato nel cercare di esprimere l’imbroglio che è nascosto nei sogni, che spesso non percepiamo, nonostante le apparenze. Ho colorato immagini interiormente in bianco e nero che, con la musica, prendeva vita e colori. Invece “La leggenda del pianista sull’oceano” è stata l’occasione di esprimere ciò che sentivo nel profondo: la tensione interiore del musicista che si apre al pubblico ma, al contempo, rimane prigioniero di se stesso. E non sempre l’immagine, il concetto di prigionia ha un’accezione negativa...

Maestro, un’ultima domanda prima di salutarla. Quali i suoi progetti futuri?
Innanzitutto dirò di ciò che non farò. Certamente il secondo atto de ”Gli intoccabili” che De Palma avrebbe voluto affidarmi. L’impegno è però troppo gravoso e non me la sono sentita. Credo che, dato il rapporto che ci lega, il buon Brian capirà…Lavorerò, invece, ancora con l’amico Montaldo ad un film che dal titolo “San Pietroburgo”, che racconterà degli ultimi giorni della vita di Dostoevskji. Mi intrigava la possibilità di mettere la poesia della musica al servizio di chi ha utilizzato la poesia nelle parole e per poter descrivere il mondo russo in un periodo cruciale per la storia di quel Paese e dell’Europa intera. E poi vorrei riposarmi un po’… Forse.

Guardiamo l’orologio. Ci rendiamo conto d’avere perso il senso del tempo e ci congediamo non senza avere avuto un capogiro nello scorgere una parete piena di foto che lo vedono insieme a tutti i possibili Vip della terra, attuali e passati. Quante domande vorremmo ancora fargli, quante sensazioni che ci giungono da quelle immagini...Ci immergiamo nell’anti-crepuscolo romano: l’aria è tiepida ed i pensieri si accavallano tra loro. Abbiamo ascoltato la storia di uno scorcio di tempo e d’Italia che abbiamo vissuto ma, forse, mai capito fino in fondo. Abbiamo cominciato questa storia con la citazione di un film TV; la concludiamo con la citazione di un altro film TV: “Cefalonia” del 2005, dove le immagini dell’epica sono avvolte in una musica che trasuda sangue e dolore, ma anche pietà e speranza...

di Rosario Pantaleo ("L'isola che non c'era", anno XII, n.40, maggio/luglio 2007)

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