Fabio Bonizzoni |
Nato nel 1965, Fabio Bonizzoni imbocca un percorso formativo non convenzionale presso la benemerita Civica Scuola di Musica della sua Milano; passa poi al Conservatorio di Trieste dove consegue il diploma in organo, indi a quello di Castelfranco Veneto, diplomandosi con lode in clavicembalo sotto la guida di Patrizia Marisaldi. A quel tempo il perfezionamento dei giovani barocchisti italiani batteva obbligatoriamente la strada del nord: Svizzera, Olanda o Gran Bretagna. Bonizzoni scelse il Koninklijk Conservatorium dell'Aja, e là si assicurò il singolare primato di unico allievo di Ton Koopman tanto nell'organo barocco quanto nel clavicembalo solista. Dal 2006 vi è ritornato, ma questa volta come professore; altre cattedre ricopre presso il Conservatorio di Trapani e quello della Svizzera Italiana a Lugano.
In qualche modo è la storia di tutta una generazione musicale decolonizzata, senza più traccia di quei complessi d'inferiorità che si traducevano in umoristiche forme di snobismo quando un ensemble nostrano dedito a eseguire musiche di Gabrieli o di Monteverdi faticava a trovare scritture in patria senza prima nobilitarsi con qualche appellativo di fantasia tipo «Capella Magna Krautheim». Nel 1995 accadeva invece che, per eseguire a Martmengo (Bergamo) una messa a quattro voci di Johann Kaspar Kerll, nascesse La Risonanza; con Bonizzoni erano i soci fondatori Vanni Moretto e Fabio Foresti.
Ottobre 2011: sono passati solo tre lustri e durante una serata di gala al Dorchester Hotel di Londra il gruppo si vede consegnare un Gramophone Award per il settimo e ultimo volume de «Le Cantate Italiane di Händel», un progetto dell'etichetta madrilena Glossa che conta già qualche tentativo d'imitazione, e che nel frattempo aveva ricevuto svariati primi premi e nominatíons dalla giuria dello Stanley Sadie Handel Recording Prize.
Maestro Bonizzoni, il mutare delle mode interpretative nel giro degli ultimi tre-quattro decenni non suggerisce forse un'eterna tensione fra l'elemento soggettivo e quello oggettivo? Anche nella musica antica, naturalmente. La soggettività non è certo un'invenzione romantica perché già ne parlava Baldesar Castiglione a proposito dei grandi cantori del suo tempo: il primo Cinquecento.
Ognuno di noi suona e canta secondo la propria natura, e questo è l'elemento soggettivo ineliminabile dall'atto interpretativo, oggi come nel Cinquecento e anche prima. Per me l'oggettività consiste nell'accentuare l'espressione degli affetti secondo l'intenzione decifrabile del compositore, e ciò rm risulta tanto più facile quanto più grande è la musica, il che vuol dire tanto più è capace di esplicitare da sé, o quasi, una chiave di lettura coerente e interessante.
Quali requisiti cerca nelle voci che devono partecipare alle Sue produzioni?
Anzitutto la bellezza del timbro e del colore, poi l'appropriatezza stilistica rispetto al programma, al «personaggio» di volta in volta tragico o buffo; un fattore che non vale solo per l'opera o per l'oratorio, ma anche per molta musica vocale da camera. Prediligo ovviamente i cantanti versatili, che però devono possedere una personalità vocale molto ben caratterizzata.
Qualche esempio?
Fra i soprani Roberta Invernizzi e Yetzabel Arias Fernández, fra i contralti Martin Oro e Romina Basso. Per loro non occorrono aggettivi, credo. Fra i tenori, ruolo critico nel repertorio barocco per estensione e agilità mirabolanti: Cyril Auvity e Krystian Adam. E fra i bassi: Sergio Foresti e Furio Zanasi, naturalmente; poi Thomas Bauer (una forza della natura anche nella vita) e Lisandro Abadie, che il primo luglio scorso ha cantato a Saint-Michel-en-Thiérache, dove La Risonanza è ensemble en rèsidence, il ruolo händeliano di Polifemo, notoriamente inaccessibile ai comuni mortali.
Mi è accaduto di ascoltare certi giovani sopranini ultramontani dalla precisa intonazione e benforniti di agilità, ma asettici nel colore; quel tipo di voce che qualcuno chiama Kirchensopran. Abbastanza impropriamente del resto come se in tanta musica liturgica e devozionale, sia cattolica sia protestante, mancasse l'elemento emotivo quando non addirittura drammatico. Peggio ancora quando si pretende di utilizzarli in repertorii come le Cantate da camera di Händel o di Scarlatti. Dopo due o tre arie ad encefalogramma emotivo piatto, o magari pervase da capo afondo di un pathos generico sempre uguale, non Le scatta irresistibile lo sbadiglio?
Quando scelgo una voce voglio soprattutto esserne commosso. Se parliamo di musica vocale in stile italiano ciò che conta è la capacità di modulare le passioni e le minime sfumature del testo variando l'accento anche su una singola nota. Per questo i madrelingua italiani, o almeno neolatini, godono di un vantaggio pressoché incolmabile. Le poche eccezioni, ottenute grazie a lunghi anni di totale immersione, non fanno che confermare la regola. E per gli strumenti l'ideale rinascimentale e barocco, espresso in formulazioni teoriche innumerevoli, resta il maggior avvicinamento possibile alla voce umana.
E tutti i tormentoni di prassi esecutiva agitati dai musicologí, tipo presenza selettiva o totale assenza di vibrato, realizzazione di cadenze e bassi continui, organico ristretto alle parti reali oppure allargato?
Sono certo importanti, ma sempre subordinati alla finalità di esprimere gli affetti. Le tecniche si possono raffinare con l'esercizio ma è sbagliato farne un dogma. Cerco di coltivare nei miei interpreti la capacità di operare una scelta grazie a un processo di «spontaneità guidata». Per quanto io ritenga importante partire da buone edizioni critiche e confrontarmi con le indicazioni contenute nei documenti storici, anche le ricostruzioni più dettagliate presentano sempre un certo margine d'indeterminazione che va colmato attraverso la pratica. Per esempio: due anni fa a un certo punto ho preso una strada diversa da quella indicatami da uno dei musicologi che avevo consultato; alla fine questo stesso musicologo era al concerto e mi ha detto che le mie scelte, che lui aveva ritenuto improbabili, all'atto pratico funzionavano benissimo e forse avevo ragione io. Quindi, ecco, questo è il mio scambio con gli studiosi: più che uno scontro frontale, cercare sempre di scambiare le vedute e le esperienze.
Dopo la recente antologia di arie vivaldiane con la Invernizzi, recensita con cinque stelle sulle pagine di Musica, cosa possiamo ancora attenderci entro l'anno in corso?
Aci, Galatea e Polifemo di Händel, appunto, poi La Senna festeggiante di Vivaldi (con Yetzabel, Oro e Foresti). Chiuderanno una miniserie dedicata alla serenata barocca che si era aperta nel 2011 con le due serenate A Filli di Alessandro Scarlatti.
L'etichetta sarà sempre Glossa?
Sì, con loro ho trovato un'ottima intesa che si è tradotta in un esclusiva di fatto.
Con la chiusura dei sette premiatissimi volumi di Cantate, e ora con questo Aci napoletano del 1708, è giunto al termine il suo viaggio nella giovanile produzione italiana di Händel? O possiamo attenderci qualche ritorno difiamma? Nel catalogo dei titoli imperdibíli Le manca ad esempio, se non erro, l'oratorio La Risurrezione.
Per ora non sono in grado di anticipare titoli, ma è certo che Händel non lo abbandonerò. Intanto Roberta e io abbiamo in preparazione un'antologia di sue arie operistiche, poi si vedrà.
E come solista cosa presenta nella Sua «collezione autunno-inverno»?
Un ritorno all'antico; più precisamente: al Cristoforo Colombo della tastiera.
Lei vuol certo alludere all'amato Frescobaldi. Ci dica tutto.
Sto registrando in questi giorni la quasi integrale del Primo e Secondo Líbro delle Toccate, dividendomi fra l'organo della basilica mantovana di Santa Barbara e un bel cembalo rinascimentale, copia da Stefanini.
Però di recente Lei ha azzardato anche qualche sconfinamento in direzione del moderno. L'ascolteremo presto in repertori piii frequentati dall'ascoltatore mainstream?
Mai dire mai, mi ripeto quando ascolto Mozart e Beethoven. Nel 2011 mi ha molto stimolato l'esperienza di dirigere alla Scala il balletto L'altro Casanova, un brillante pastiche con musiche di Vivaldi e Albinoni, ma anche di Malipiero e Schnittke. Preferisco pensare in termini di nuove rotte da esplorare e non di sconfinamenti, perché la grande musica, come l'Oceano, non conosce confini.
intervista di Carlo Vitali ("Musica", n.240, ottobre 201)
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