Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, dicembre 16, 2019

In tourneé: Philip Glass e Powaqqatsi

Curiosa emozione, quella di Powaqqatsi: ti aggredisce, inesorabile, fin dalle prime immagini: e fin dalle prime immagini obbliga a un dubbio tagliente: bisogna difendersi o concedersi? Lasciare che quello spettacolo anomalo si beva cuore, cervello e tutto quanto o arroccarsi nel sospetto e schivare l’astuta impostura?
Per chi non l’ha visto e sentito, Powaqqatsi è uno spettacolo senza nome costruito dall’unione di un film di un’ora e mezza girato da Godfrey Reggio e di una suite musicale di un’ora e mezzo scritta da Philip Glass. I due elementi, quello visivo e quello sonoro, procedono come i due binari di un’unica ferrovia (una ferrovia per dove, questo è il problema). Powaqqatsi è parente di Koyaanisqatsi, nel senso che è la seconda tappa di una trilogia di cui è in fase di gestazione la terza e conclusiva parte. Rispetto a Koyaanisqatsi, presenta una parte cinematografica più curata, più "patinata", più ricca e più incisiva. La musica di Glass resta sempre quella, con intromissioni etniche su cui gli specialisti potrebbero essere più precisi. L’impressione è che il baricentro dell’emozione si sposti più sulle suggestioni visive, lasciando qualche passo indietro le invenzioni musicali.
Nel film non c'è una sola parola: solo immagini. E' stato girato in mezzo mondo: Egitto, India, Nepal, Hong Kong, Kenya, Perù, Brasile, ecc. Per riassumere la sua ambizione in una formuletta che può parere sproporzionata ma non lo è: è un film che racconta l’Uomo. Fa sorridere, ma è così. Il bello è che ci riesce. In un gran calderone di immagini in cui razze, culture e volti di mezzo mondo si mescolano nel profilo di un unico immenso villaggio globale, Reggio annota i gesti fondamentali dell’umano e il respiro del suo esistere (e resistere). Non c’è una vera e propria storia, ma le immagini sembrano raccogliersi intorno ad alcune "stazioni" fondamentali: il lavoro, la festa, il cibo, la preghiera. Questa regressione alla ricerca dei fondamenti, delle radici, dei gesti elementari e originali dell’umano e l’aspetto più significativo dell’operazione. C’è qualcosa, in quest’ambizione a pronunciare la sacralità dei fondamenti, che ricorda l’armonica sapienza di civiltà non più possibili. E' ormai lecito pensare che faccia parte del corredo destinale della modernità l’impossibilità di pronunciare, tout court, le parole originarie, i termini totem della creazione. La modernità pronuncia se stessa, e ciò significa che dà nome, soprattutto, alla lontananza dalle origini e dai fondamenti: la lingua della modernità è la lingua dell’esilio. Quando si affaccia la pretesa di cancellare questa distanza destinale dalle proprie radici per rispolverare la purezza dei nomi originari, immediato affiora il sospetto dell’impostura: e si profila il fascismo degli slogan a buon prezzo e della falsa autenticità.
Nel caso del film di Reggio, il sospetto è aggravato dagli strumenti con cui l’opera insegue la propria ambizione: cioè con tutto l'armamentario della più ruffiana seduzione cinematografica. Esempio: il film si apre con le miniere d’oro a cielo aperto del Brasile: veri formicai umani dove centinaia di lavoranti spremono da montagne di fango una ricchezza che mai sarà la loro. Condizioni di lavoro animalesche, facce derubate di qualsiasi espressione, vite senza più storia. Non esistono quasi attrezzi di lavoro: il rapporto con la terra è quasi senza mediazioni: un duello primitivo, con in gioco la sopravvivenza. E', davvero, la pronuncia di una categoria primordiale, il lavoro, nella sua forma più elementare e originaria.
Reggio complica però le cose scegliendo un linguaggio cinematografico altamente spettacolare: la fotografia è degna di Storaro, le inquadrature sono d’effetto, tutto è sciolto in un sacrale ralenti. Anche a voler dimenticare provvisoriamente le suggestioni della musica di Glass, resta un impianto rappresentativo che senza pudore insegue un preciso obiettivo: un’acuminata spettacolarità. E qui si apre la forbice del dubbio.
Lo smantellamento delle certezze borghesi ottocentesche ha, dalle avanguardie in poi, creato un luogo comune che è assurto a precetto: la parola che denuncia, la parola che smaschera e demistifica, dev’essere una parola scarna, austera, indigente. Tagliente perché sottile ed elementare. L’avara spettacolarità è diventata sigillo dell’autenticità, contrapposto a qualsiasi retorica d’effetto, sigillo dell’inautentico. Si potrebbe discutere a lungo se un simile precetto sia giusto o sbagliato: ma il punto non è ormai più questo.
Probabilmente quel precetto oggi è, più che giusto o sbagliato, decaduto. E' un precetto che appartiene al patrimonio genetico del novecento europeo e che oggi è rimesso in discussione dalla cultura americana. E' una cultura, quella, che intrattiene un rapporto con la spettacolarità completamente diverso: non sa demonizzarla, e anzi la sceglie come condizione della propria espressione. Per dirla senza mezzi termini: la cultura americana ha dimostrato che la spettacolarità non è, a priori, l’inautentico: ma che può essere veicolo e forma dell’autenticità. Da La folla di Vidor a Andy Wahrol è tracciata una linea che mescola le carte e non consente più di fermarsi all’equazione che vuole la demistificazione inesorabilmente vestita col saio.
La resistenza dell’intellettuale europeo a questa diversa prospettiva è riassunta bene nella trovata lessicale con cui l’esorcizza: un’americanata. Ma non è nell’astuzia di un’etichetta d’effetto che si ammutolisce quel che lì è pronunciato: cioè la maturata capacità di assorbire il potere mistificatorio della spettacolarità e di volgerlo al servizio della parola che saggia l’autentico. Di fronte a questa capacità la cultura europea vacilla: perché ancora non le appartiene pienamente e perché il timore di abdicare al proprio compito di vigilanza sulla menzogna è reale e giustificato. E' con un simile vacillamento che gioca Powaqqatsi: come il gatto col topo. Di fronte alle patinate immagini di un mondo ritratto con occhio arcaico e sacrale, la coscienza critica dell’Europa che pensa se ne sta lì a misurare l’efficacia straordinaria di tutto quello e la sua inesorabile puzza di Hollywood.
Al gioco partecipa, puntualmente, la musica di Glass. Anch’essa si fa forte di una impudica spettacolarità, anch’essa allestisce una regressione verso l’elementare che riesce ad avere il sapore di una nuova innocenza. Lascia per strada l’afasia della musica contemporanea e ritrova un’efficace comunicatività. Potrebbe sembrare, in effetti, una nuova frontiera. Ma ancora una volta sorge il dubbio, ineliminabile, che si tratti semplicemente di una "nuova banalità". Il confine fra la confezione astuta e un reale pensiero musicale rivoluzionario è, purtroppo, molto sottile. Così la si ascolta, quella
musica, e la reazione è ancora sempre quella: un’ostinata resistenza a concederlesi.
Si esce da Powaqqatsi senza sapere se si è stati incastrati in una mistificatoria fantasmagoria o se si è toccato con mano ciò che d’ora in poi potrebbe essere il linguaggio, senza cilici, di un’intelligenza nuova. Devo dire che non aiuta a propendere per l’ottimismo il riconoscere, all’uscita, il più schietto entusiasmo sui volti dei presenzialisti più ottusi e degli abbonati all’ultima moda, qualunque essa sia. E se incroci uno sguardo che sai intelligente viene istintivo scambiarsi la complicità di un sereno scetticismo. Anche questo, qualcosa, vorrà pur dire.
Alessandro Baricco
("Musica Viva", n. 6, Giugno 1991, Anno XV)

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