Con puntuale regolarità, ogni tanto salta fuori qualche bell'ingegno a prendersela con l'opera in musica. Questa volta il turno è stato di Sandro Veronesi, giovinotto scrittore di belle speranze, svezzato come è d’uso nei corridoi delle case editrici e dei giornali. Il titolo dell’articolessa, apparsa su "L’Unità", recitava, manco a dirlo, "Accuso il melodramma: non è cultura". "Accuso": sentilo un po’, questo Zola in formato tascabile. "Ma davvero le purce hanno la tosse", direbbe Belli. Gli argomenti erano i soliti, vecchi di secoli e ignari della propria scontata decrepitezza; ed è stato sin troppo facile imbastire, secondo l’andazzo corrente, un dibattito scomodando Gramsci Bontempelli Baldini D’Amico ed altri spiriti magni. Dalla polemica, in sé abbastanza penosa, sono emersi tutti gli angoletti porchi di quell`ignoranza atavica per le cose d’arte (musica non solo, ma anche pittura, scultura, architettura) che l’intellettuale italiano di tipo medio si porta addosso da sempre, insieme con la biancheria intima. Non è mancato chi ha sentenziato che l’opera è "un genere sul quale si può ironizzare, specie ora che è morto"; che in essa sarà forse da salvare la musica, ma i libretti, Dio santo, sono "degni delle avventure del Signor Bonaventura sul Corriere dei Piccoli" (dove non si sa se più deplorare la mancanza del riguardo dovuto a Busenello Da Ponte Romani Giacosa, o a Sergio Tofano, autore dei deliziosi ottonari del "Corrierino" di buona memoria). Nessuno, poi, al quale sia passato per la testa che melodramma è una parola che, buttata lì con fatua insipienza, vale tutto e niente: una notte nella quale tutti i gatti, da Monteverdi a Mozart, da Wagner a Musorgskij, da Leoncavallo a Stravinskij, diventano grigi.
Ma una considerazione si fa strada, tra queste periodiche cicalate pro e contro l’opera in musica, propinateci con implacabile monotonia di contenuti da gente per la quale tre secoli di riflessioni sull’argomento sono evidentemente passati come acqua fresca. L’esperienza personale mi ha insegnato che i migliori fruitori del melodramma, e più in generale della musica, non sono i cultori delle discipline umanistiche, ma gli uomini di scienza, gli economisti, qualche volta i politici. I discorsi più intelligenti ed informati sulla musica te li senti fare dal fisico, dal biologo, dal chimico, dal medico, anche dallo storico e dal filologo. Meno bene vanno le cose col filosofo, che spesso muove da postulati estetici e astrazioni teoretiche con scarso o nullo riferimento alla realtà sonora; ancora peggio col letterato, imbevuto di preconcetti extramusicali; a rotta di collo col sociologo, che nonostante Adorno rimane il peggior frequentatore delle sale da concerto (se pur le frequenta).
Con l’uomo di scienza è tutt’altra cosa. Indipendentemente dalle conoscenze tecniche, il suo parlare di musica è innanzi tutto un parlare sano, immune affatto dalla chiacchiera e dalla fumisteria; è un parlare lucido e concreto, che presuppone la capacità intellettuale di reagire intuitivamente sulla viva realtà dell’arte dei suoni come da dietro un microscopio, percependone l’organizzazione, la dinamica e le leggi intrinseche e cavandone deduttivamente delle conclusioni. E' il parlare umile e colloquiale di chi di regola si dichiara (anche se i fatti gli daranno torto) profano di musica, crede di non avere altre frecce al proprio arco tranne una certa nativa sensibilità e non calza mai il coturno del savant, come Verdi chiamava i Dottor Balanzoni del suo tempo. Senza contare che questi uomini di scienza spesso sono dei pozzi di San Patrizio in fatto d’informazione e documentazione musicale a livello internazionale, possiedono biblioteche e discoteche degne di un dipartimento musicologico, sono in agguato col loro registratore a tutti gli appuntamenti che contano. Da parte sua, tra un mugugno e una bacchettata ai govemanti inetti e mariuoli, l’economista e politico Bruno Visentini si lascia andare talora a giudizi musicali che non passerebbero mai per la testa a certi sovrintendenti dei nostri enti lirici. Come il Sole del Copernico leopardiano rivisitai tempi in cui si chiamava Febo e prevedeva il futuro; così la Musica in mano ai filosofi naturali (come già venivano chiamati gli scienziati) riscopre le proprie radici di scienza esatta, quando era annoverata tra le arti del Quadrivio, in ottima compagnia con l’Aritmentica, la Geometria e l’Astronomia. E in quanto scienza, "per la memoria di quella mia virtù antica", gratifica tuttora i suoi fedeli di favori privilegiati.
Giovanni Carlo Ballola
("Musica e Dossier", Anno VIII, Numero 60, Marzo/Aprile 1993)
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