Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, dicembre 07, 2005

Bach e Borciani: L'arte della fuga (I)

Puntualità giornalistica vorrebbe che aprissimo questa pagina di musica parlando dell'Andrea Chénier di Umberto Giordano, opera che venerdì sera ha dato il via alla stagione dell'Arena di Verona. Vorrebbe che parlassimo della bacchetta di Gelmetti, delle voci di Carreras, di Bruson e della Caballè , dei costumi, della regia e scenografia di Attilio Colonnello, quindi dei fremiti guizzati nella folla all'ingresso di "Sua grandezza la Miseria". Poi di altro, che non è il caso di specificare.
Ma questa settimana ci siamo concessi una pausa. Per vari motivi che, sommati, ci sono parsi degni di nota. E del fatto ci scusiamo ricordando il nome del musicista a cui abbiamo dedicato attenzione: Johann Sebastian Bach. Quindi evidenziando la notizia: ha visto la luce da pochi giorni una nuova interpretazione dell'Arte della fuga, l'ultima opera del sommo Kantor, che i cataloghi riportano con la sigla BWV 1080. Infine ricordando la particolarità: si tratta di un'edizione a tiratura limitata, incisa dalla Fonit Cetra per l'Associazione Sergio Dragoni (ha sede in Milano in via S. Antonio 12, e istituisce borse di studio e premi per i giovani musicisti). Pochi gli album "tirati" e contenenti i due Lp: 500 per la ricordata associazione e 1200 per la Società del Quartetto di Milano.
La notizia - che non abbiamo ancora snocciolato totalmente - non sarebbe di primaria importanza se la trascrizione non fosse stata fatta per quartetto d'archi da Paolo Borciani. Si tratta di un lavoro che il violinista del Quartetto Italiano ha redatto come un testamento poi l'ha eseguito affiancato da Elisa Pegreffi e dei giovani Tommaso Poggi e Luca Simoncini. Ovvero da un altro violino, da una viola e da un violoncello. La registrazione è avvenuta il 3 maggio 1985 alla Sala Piatti in Bergamo. Poco dopo Borciani moriva.
L'Arte della fuga di Bach è una di quelle opere che basterebbero da sole a qualificare un millennio. Rimasta incompiuta per la morte del maestro, senza indicazioni per l'esecuzione, senza un titolo (Die Kunst der Fuge è posticcio), essa si spegne con la notazione musicale tedesca "B.A.C.H.", cioè con le note Si bemolle, La, Do, Si. E' il terzo tema dell'ultima fuga. Il nome del musicista appare nella battuta 194 alla battuta 234 lo sviluppo della fuga cede il posto al silenzio.
Sentendo l'esecuzione, siete tentati di inseguire il movimento mentalmente vi immaginate la fuga a 4 temi che si rivolta in ciascuno delle quattro parti, chiudendo un'opera difficile, ermetica. Un'opera che pare concepita per allenare lo spirito agli abissi dell'eterno, lontano da ogni sentimento didattico. Ma il tema, poi, non lo sentite spegnersi dolcemente. Una linea sonora cade di colpo. La Morte parla così.
Che cos'è dunque Die Kunst der Fuge? Hauptmann nel 1841 la definiva dotata di "freddezza grandiosa" Spitta nel suo monumentale lavoro su Bach parla dello svolgersi di queste note come della "calma solenne della notte invernale" Basso nella seconda parte di Frau Musika ritiene che essa sia "prima di tutto il manifesto dell'ars subtilior, della musica che assottigliandosi, riducendosi all'essenziale e all'indispensabile mirando al delicato e all'intimo, si fa silenzio, si organizza in una forma talmente pura che il suono pare inafferrabile, ineffabile..." (ed. Edt, p.719). Ma questa arte è forse qualcosa di più.
In essa la scrittura si spoglia da ogni elemento che possa significare la gioia fonica dei sensi, da tutto ciò che lega le note e la nostra carne a questa terra. L'esposizione dei motivi immerge l'ascoltatore in un labirinto sempre piu' ardito, lo getta da vette ed egli non riesce a toccare un fondo, lo disperde nei deliqui di un linguaggio totale. Le singole voci, cioè le parti strumentali, intervengono una dopo l'altra disegnando il tema nel momento stesso in cui la precedente ha finito di intonarlo. E così la voce iniziale viene ripresa, ma a sua volta procede oltre qualcuno le risponde mentre essa va altrove. Alle domande in Do incalzano risposte in Sol, ma il gioco non cessa. Entra una terza voce, che riprende il tema quindi una quarta, che prosegue poi vi sembra di sentirne una quinta, che continua ad aprire brecce e cunicoli nel labirinto dove ormai l'ascoltatore, se non ha particolari calli e astuzie, si è gia' smarrito.
Bach, come nota il Ghislanzoni nella sua Storia della fuga, "intese mostrare tutte le possibilità di trasformazione e di sviluppo in 15 fughe". Con Die Kunst der Fuge il Kantor lasciò il più aristocratico dei testamenti, confessandosi con un enigma che gli altri non potevano capire. Prova ne è che l'opera, quando venne messa in vendita a 5 talleri, dopo la sua morte, andò praticamente invenduta. Friedrich Wilhelm Marpurg, uno dei più noti e apprezzati teorici del tempo, tentò con una prefazione di diffondere la somma partitura. Il prezzo venne abbassato a 4 talleri, ma dopo quattro anni e mezzo - correva il settembre 1756 - se ne erano vendute soltanto trenta copie. Con i talleri ricavati non si riuscì neppure a pagare la spesa per le lastre di rame occorrenti per le incisioni (chi volesse approfondire il triste andamento, puo' consultare a p.683 i Dokumente zum Nachwirken J.S. Bach, 1750-1800, editi nel 1972 quali terza parte dei Bach-Documente).
Ma torniamo a Borciani. Questa trascrizione e la successiva esecuzione confermano il suo grande talento e il magistero di cui fu capace. Dai quattro strumenti ad arco nasce un'Arte della Fuga che ci invita alla più intima delle meditazioni. Forse questa interpretazione non farà fremere al pari di quella di Hermann Scherchen, nè possiamo considerarla ascetica come quella tentata al clavicembalo da Leonhardt, ma è certo che da esse non prenderemo più congedo. Rimarrà, risolta con un quartetto (impensabile al tempo di Bach), accanto alle letture migliori di questo frammento dell'assoluto, di questo labirinto simile ad un cosmo, dove le note aprono continuamente voragini, che l'anima percorre accecandosi con suoni e messaggi.
Julius Schlosser ricorda in un suo studio del 1929 dedicato a Leon Battista Alberti, Ein Kunsterproblem der Renaissance, che questo artista definiva le proporzioni dell'architettura con l'espressione "tutta quella musica". Potremmo rovesciare la concezione: questo testamento di Borciani svela "tutta quella architettura" che Bach ha scolpito nelle note. Peccato che manchi il tocco finale del Kantor.
Peccato che la Morte frequenti sempre i supremi colloqui che le anime rare tentano con il tutto.

di Armando Torno (Il Sole 24 Ore, 06/07/1986)

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