Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, ottobre 19, 2005

Sergiu Celibidache: la tenacia e l'intransigenza di un mistico della musica

Per il direttore rumeno Sergiu Celibidache l'arte è una disciplina dello spirito da coltivare con rigore.

"Volevo fare la musica, non le note o delle immagini musicali, come gli altri. La musica non sono le note". Col senno di poi Sergiu Celibidache riguarda con tenerezza e con nostalgia agli entusiasmi giovanili, ne stigmatizza le intemperanze. Si stanno rievocando i primi anni di una carriera leggendaria. Poco più che trentenne, mentre era a Berlino in pieno perfezionamento con Hansi Tissen, venne chiamato alla Filarmonica in sostituzione di Furtwängler. Dal 1945 al 1952, guidò questa orchestra straordinaria; sette anni speciali che gli consentirono di affrontare un vastissimo repertorio e di rivelarsi come uno dei direttori più interessanti della nuova generazione. E nel Dopoguerra Celibidache, con l'aria da dandy, la gestualità singolarissima, gli atteggiamenti imprevedibili e il far musica turbante era il naturale e unico "concorrente" di Herbert von Karajan (di quattro anni più anziano). Ripassare la cronologia della Filarmonica di Berlino è istruttivo: rientra Furtwängler nel 1952, per tre anni, poi arriva (la famosa tournée statunitense che lo impose rocambolescamente al podio già più ambito del mondo) il trentasettenne austriaco Karajan, oggi incamminato verso i festeggiamenti dei trent'anni di sodalizio continuato con i berlinesi. In un certo senso Celibidache rappresenta l'anello di congiunzione storica tra la generazione degli interpreti ottocenteschi "umanistici" e quella moderna, senza offesa, "industriale". Un anello che appunto possiede dei padri il bisogno filosofico e la disciplina intellettuale, dei nostri giorni la sensibilità musicale sottilissima e capace di sintesi interpretative fulminanti su un repertorio molto vasto. Ma la "mitica" figura di Celibidache - poiché non ha voluto piegarsi all'industria discografica la sua lezione va inseguita direttamente o ricostruita attraverso testimonianze di spettatori e dei numerosissimi allievi aveva un cammino lunghissimo davanti a sé: a una svolta professionale straordinaria il direttore-Celibidache aveva ancora tutto da imparare.
Lo ricorda senza pudori: "Dopo sette anni di Filarmonica il mio insegnante alla fine di un concerto mi disse "che cretino, sei! Credi di essere un direttore invece non sai ancora niente. Pretendi di far musica senza averne dominato la forma organica". Aveva ragione. In quel periodo facevo molte bestialità, ero a cavallo di tutti gli effetti possibili, fisiologici, fonici e strumentali: andavo per il pubblico ma ero un dilettante come musicista direttore d'orchestra. Ho dovuto ricominciare da capo. Studiare la musica, la forma dei pezzi partendo da partiture molto semplici e brevi: Ouvertures di Telemann, Bach, qualche Sinfonia di Haydn. Una sorta di iniziazione alle questioni, poi divenute essenziali, della Fenomenologia musicale, cioè alla problematica che s'intreccia tra la struttura e la forma, tra lo "spessore" delle partiture e le esigenze naturali che devono regolare l'esecuzione. Per usare un esempio banale l'applicazione della fenomenologia all'esecuzione assomiglia al lavoro a mosaico: più sono i frammenti, più l'analisi sul complesso da ricostruire sarà minuta, più lunga e bisognosa di concentrazione. Ma, come quando si incolla un vaso andato in mille pezzi, il prodotto del restauro dovrà essere identico all'originale (sempre che si siano ricuperati tutti i frammenti... ), malgrado le differenze nel tempo impiegato a rimetterlo in sesto. Ciò significa entrare nella struttura intima della musica, riscoprirne le ragioni dall'interno: solo dopo un lungo approccio di questo genere si possono affrontare i problemi successivi. Un mondo per me nuovissimo, dominato con, applicazione, proprio quando m'ero illuso di essere già musicista. Dopo due anni di apprendistato con le piccole forme quasi per caso mi sono trovato a dirigere la Settima Sinfonia di Bruckner: per la prima volta ho avvertito un diverso dominio sulla forma musicale. Così a 42 anni, finalmente sono stato in grado di comprendere quanto come direttore posso toccare della musica e cosa non sono in grado di modificare, perché in realtà non è modificabile in nessun caso".
La rievocazione, lunga, ci serve per capire molte cose su Celibidache. Buona parte dell'intervista è infatti stata occupata dalle questioni relative all'applicazione di queste teorie all'esecuzione. Non siamo di fronte a quesiti accessori e soltanto teorici perché l'applicazione pratica si avverte benissimo all'ascolto e proprio nel concerto napoletano di pochi mesi fa (vedi Musica Viva di novembre) la nostra attenzione di spettatori era stata istintivamente sollecitata in quella direzione. D'altra parte il mondo di Celibidache è esclusivamente questo. Nella sua giornata non c'è spazio per comunicare all'esterno impressioni personali che non siano paradossali ma perfettamente giustificate in relazione al concetto mistico e missionario del suo far musica. Poi c'è l'intransigenza proverbiale, la tenacia assurda con cui difende posizioni musicali e professionali, partiture e autori tutti. Poi ancora gli effetti di tale intransigenza: i leggendari litigi con l'orchestra - ma "non ho mai insultato un professore d'orchestra: ho solamente difeso sempre con veemenza i miei punti di vista", precisa - le prese di posizione assecondate da stupende imposture (quando era direttore stabile a Bologna fece il diavolo a quattro per lo spostamento del camerino del direttore al primo piano, prima sostenendo che quello al piano-palcoscenico era stato il camerino di Wagner, poi facendosi montare sul fondo del palcoscenico una specie di cabina di vimini in cui tignosamente andava a cambiarsi), l'aura dell'eccentrico da accontentare per ogni buon conto (per raggiungere un ricevimento dopo il concerto napoletano aveva preteso una macchina presidenziale: in ritardo per l'appuntamento, causa la cordialissima intervista realizzata grazie anche alla cortesia di Duilio Courir, è andato con decisione verso il Mercedes enorme e vuoto fatto venire dal San Carlo, sedendosi però... accanto all'autista). Celibidache a quattrocchi è di tutt'altra pasta. Un po' appesantito, dagli anni ma sempre fascinoso e imperiosissimo nello sguardo che trapassa dal mistico al sornione, il direttore rumeno sa benissimo di essere nella storia, ma sembra intenzionato a dimostrarlo con atteggiamenti meno appariscenti di una volta. Le risposte sono pacate, le provocazioni assorbite con eleganza, i giudizi taglienti ma dati come scontati (quelli sui colleghi, naturalmente), ma resta la dimensione imprendibile dello studioso pertinace, del teorico implacabile, del musicista puro che accanitamente cerca la verità e disprezza chi non condivide la strada scelta da lui per arrivarci. Come disprezza la mediocrità, la routine, l'abitudine, la semplice professionalità in un mestiere del genere. Tutto ciò risulta saldato nella conversazione affabile ma piena di punte, in cui vengono disinvoltamente mescolati luoghi comuni e originali verità, elucubrazioni filosofico-musicali e giudizi al limite della querela, appassionate difese professionali e nazionali - "noi italiani..." ha continuato a dire, soprattutto quando l'analisi della nostra situazione musicale era più impietosa - e concezioni assolutistiche della direzione d'orchestra. Qui abbiamo cercato di radunare tutto, senza tradire l'ordine sparso degli argomenti affrontati, ma ci rimane il cruccio di non avere a disposizione per questa stesura un carattere tipografico particolare, corsivo beffardo da usare per molte frasi ironiche o gustosamente provocatorie immesse nel discorso. Ma il rischio era di dover far comporre tutte le risposte col medesimo carattere, variando appena il corpo, a seconda se il sasso gettato nello stagno era innocente o un ciottolo di quelli sagomati che non sbagliano bersaglio quando sono lanciati dalla mano giusta. "Sono sempre stato agitato, con la voglia di sapere e di mettere grande intensità in tutto", ribatte a chi gli chiede se è cambiato qualcosa in questi ultimi anni di lavoro. Allora, riprendiamo da capo con l'importante apprendistato degli anni berlinesi.
Qual è stato l'incontro determinante in quel periodo?

"Senza dubbio quello con Victor de Sabata. Quando venne a dirigere Tristan und Isolde nel 1938, ero molto giovane. Ma ricordo l'impressione enorme delle prime prove e le ore lunghissime passate nei gabinetti, nascosto con la partitura, per poter non essere cacciato dalle prove. La concezione sua del suono può essere accostata soltanto a quella di Arturo Benedetti Michelangeli: ma aveva altre qualità straordinarie, la ricchezza paralizzante del far musica, l'intelligenza di tecnico e pensatore sopraffino. E poi, a differenza di Furtwängler, era anche un direttore completo".
Dopo Berlino ha avuto ancora incontri con lui?
"Molti. Uno alla Scala lo ricordo con affetto speciale. Per il piano di prove di un concerto avevamo discusso lungamente: le ore richieste gli sembravano eccessive in rapporto al pezzo ch'era in repertorio all'orchestra. Quando però mi seguì lavorare, nella prima prova di concertazione, ebbe la squisitezza di dirmi che soltanto allora aveva capito quanto il mio progetto di prove era adeguato alle intenzioni".
Prima ha detto "a differenza di Furtwängler...". Cosa esattamente voleva dire?
"Che il mitizzato Furtwängler, musicista enorme, era un pessimo direttore. Non aveva gesto, espressività fisica e poche idee precise al momento di concertare, tanto che talvolta realizzava letture incredibilmente insensate. Ricordo un'esecuzione della Nona Sinfonia di Schubert, credo nel 1948; alla fine salutandolo non resistetti alla tentazione di sbottare: "caro maestro, a proposito dell'ultimo tempo, le devo confessare di non aver capito nulla". "Nemmeno io", rispose subito; eppure dall'aspetto puramente formale non c'erano ragioni apparenti per eccepire.
E' che Furtwängler aveva capito un principio fondamentale, l'importanza del tempo in relazione al suono. Questa coscienza gli consentiva di portare il fatto musicale in una dimensione d'obiettività".
Quindi malgrado il giudizio sul direttore, Furtwängler ha avuto una certa influenza sul suo modo di pensare la musica?
"Gli devo moltissime cose. Proprio nell'ambito del pensiero musicale, delle concezioni perfezionate di Fenomenologia musicale. Furtwängler aveva perfettamente capito - forse intuito spontaneamente, per un magico istinto musicale - che il problema principale dell'esecuzione moderna, cui ho dedicato tanto studio, era di trovare il modo di equilibrare la "pressione verticale" (data dalla densità strumentale e armonica della partitura) e la fluidità "orizzontale" in modo da rendere intrinsecamente giusto il tempo".
Il celebre "tempo di Celibidache"...
"Non è una mia invenzione, tutti possono possederlo. E' un'entità che non dipende dal metronomo ma dalla qualità e dal tipo degli elementi musicali in gioco, da condensare. E' un catalizzatore di fenomeni".
Dunque un tempo che non esiste come definizione di misura?
"Non è nemmeno una realtà fisica. E' condizione mentale che permette di ordinare gli elementi del discorso musicale; quindi non si può neppure decidere a priori, scientificamente. Cosa significa croma-uguale-sessanta oppure Allegro? Nei minuetti delle Sinfonie di Haydn ci sono sei diverse indicazioni di Allegro e magari l'esecuzione per tutti sarà identica perché uguale la struttura musicale. La modalità di unificare le espressioni determina il tempo: più sono gli elementi da ridurre, come nei tempi conclusivi delle sinfonie di Bruckner, più naturalmente disteso sarà il tempo. Ma non esistono regole, in musica non c'è nulla di statico. Nemmeno nell'uomo. S'è mai sentito di pulsazioni cardiache uguali?"
Ma il tempo avrà relazioni con lo spazio?
"Cos'è lo spazio? La musica non è fatta di impressioni musicali che si succedono ma la sua espansione consegue al valore armonico inteso in senso architettonico spaziale, palpitante all'analisi fenomenologica. Questa molteplicità di tensioni, affidate all'azione riduttrice del tempo sono lo spazio. Una dimensione indefinibile ma operante, che il più grande genio della storia della musica, Frescobaldi (Bach è stato un continuatore) aveva già chiaramente applicato. Ho avuto la fortuna di scoprirlo".
Quanto a molteplicità di tensione anche Bruckner non scherza.
"Bruckner è stato uno sperimentatore totale. Ha scoperto ad esempio la triangolazione sinfonica che sostituisce la struttura classica basata sull'opposizione dei temi".
Torniamo ai parametri musicali. Cos'è il suono?
"Se il suono è qualcosa, il direttore è un cretino. Il suono è uno strumento, un veicolo che ci serve per attirare la musica: è anche uno specchio del proprio mondo emotivo, ma non è questo che deve interessare. Non è di natura intellettuale come non lo è la sostanza del suono cercata. La musica non è suono anche se il suono può diventare musica, a patto che venga considerato come un'esca per la musica stessa".
A questo punto mi pare ovvio affrontare il discorso sull'interpretazione.
"Cosa significa interprete? Non credo che l'interpretazione esista, esiste semmai la chiaroveggenza, l'unico modo che consenta di rilevare l'opposizione sentimentale data dalle note, variabile come momento, situazione e via dicendo. Spesso il musicista di oggi è diventato imitatore, cerca la ricostruzione della semplice morfologia della musica: la topografia di una partitura. Quella nessuno può cambiarla, non si modifica, esce da sola. E' un errore occuparsene.
L'impegno del musicista dev'essere di segno contrario: liberarsi da quella struttura primordiale ch'è la morfologia, trascendere il mondo fisico del pezzo; ricostruire la dimensione astrale partendo dal materiale primitivo. Non si può chiamare semplicemente interpretazione tutto ciò, è un processo di sublimazione dal mondo, di scoperta della quarta ottava. Pensiamo a uno Stradivari: il suo fascino sta tutto negli armonici, nell'inconfondibile trascendenza di quel timbro che accarezza la dimensione astrale. La nostra funzione dev'essere simile".
La funzione pratica del direttore d'orchestra come si può precisare?
"Deve saper scatenare le potenzialità espressive di ogni strumento, esigere la perfezione di lettura. Non posso ammettere i pressapochismi o la scarsa dedizione".
La sua intransigenza è mitica...
"Certo, sono intransigente. Me ne vanto. Lo sono prima di tutto con me stesso poi con gli altri, perché credo in quel che faccio. Ne sono certissimo. Solo una discussione acerrima e motivata potrebbe farmi cambiare idea, ma di solito non lascia spazio alle repliche. Alla polemica comunque non mi sottraggo, mi piace disputare. Lei ad esempio non mi contrasta abbastanza: questa intervista mi diverte poco."
Da questa intransigenza deriva la carriera e una certa scelta di repertorio?
"Poca carriera nel senso commerciale della parola. Ho sempre avuto orrore dei dischi, e questo era un handicap notevole. Diciamo che il mio modo di vedere il lavoro con la musica ha condizionato non le mie scelte ma la frequenza con cui queste scelte potevano essere portate in pubblico con legittimità".
Il diniego all'opera: una questione di scelta anche questa?
"L'esecuzione operistica comporta troppe imprecisioni e compromessi. Già è difficile e mai perfetto l'equilibrio di un concerto. Così ho dovuto rinunciarvi. Ma conosco e amo moltissimo il repertorio lirico, così da quando sono a Monaco mi sono battuto per realizzare esecuzioni in forma d'oratorio. L'anno scorso ho diretto Così fan tutte, nella primavera dell'85, per l'inaugurazione del nuovo auditorium della Filarmonica, ho programmato nella stessa forma un'esecuzione del Wozzeck di Berg".
Lei è sempre rimasto in disparte rispetto ai colleghi. Forse non ne condivide l'azione?
"Troppi direttori d'oggi si accontentano della topografia dei pezzi invece di cercare la musica. L'imitazione sciocca di Toscanini ha portato guasti irreparabili. Per me l'esperienza toscaniniana ha avuto poca importanza, ma ne riconosco l'obiettivo significato storico. Vedo però una schiera di cattivi discepoli".
Ma non ci saranno soltanto quelli. Herbert von Karajan, ad esempio...
"Buon direttore ma scarso musicista. Possiede una falsa idea della musica. Come la maggior parte dei bravi direttori, di quelli che vanno per la maggiore, è attento soltanto al primo stadio, alla struttura primitiva e superficiale della musica. Non s'è mai posto il problema che mi ha tormentato per anni della gerarchia dei parametri musicali, di quel che va lasciato allo stato naturale e di tutto il resto che invece va vivificato visionariamente, ricreato".
Un concetto in effetti espresso anche da Karajan, il quale a proposito della funzione del musicista "rievocatore" supponeva una sorta di prosecuzione nel tempo, di reincarnazione degli uomini d'arte. E' d'accordo?
"Io so che c'è continuità, non lo suppongo. Siamo già vissuti. Il corpo di oggi ha lo stesso valore di un vestito che si può cambiare: le esperienze non possono morire, non muoiono. Si tramandano direttamente".
Il suo misticismo non è dunque solo artistico ma filosofico?
"Credo fortemente alle presenze trascendentali, necessarie alla nostra esperienza musicale. Cerco nella meditazione filosofica e religiosa certezze alla mia concezione assolutistica della musica e dell'arte come missione, come rigore indefettibile, come disciplina dello spirito da trasferire negli strumenti espressivi scelti. Sono allievo e devoto anche di un guru indiano, Saj Baba, dal quale mi reco almeno due volte all'anno: da lui posso apprendere quando abbiamo vissuto, da dove proveniamo e come possiamo trovare la forza morale che consente di analizzare in modo profondo la propria vita e il senso dell'arte da trasmettere all'uomo".
C'è molta utopia in tutto ciò.
"E' il nostro mondo, fatto così. Utopia è forse la non-coscienza della dispersione fatale destinata a molti sforzi. Ma il nostro compito non deve cambiare, se soltanto una parte del mondo, del pubblico, è in grado di percepire quest'opera di apostolato etico".
In questo impegno che parte ha l'insegnamento?
"Insegnare è un mio dovere, non potrei fare diversamente. Ma insegnare non significa soltanto comunicare ai giovani la capacità di affinare le qualità analitiche applicate alla musica: vuol dire far capire la necessità di stare insieme, l'utilità della discussione e della teoria applicata alla direzione d'orchestra, instillare il rispetto e la devozione per il far musica..."
I suoi corsi infatti si descrivono come singolarmente organizzati.
"Sono aperti a qualsiasi giovane che voglia imparare. Non mi interessano i soldi, né le gratificazioni di scuola tant'è che molti musicisti che hanno lavorato per anni con me posso dirlo ora, tranquillamente sono rimasti pessimi direttori e lavorano nel mondo musicale solo perché raccomandati o per altre ragioni clientelari. I corsi non hanno durate prescritte né programmi prefabbricati. Stiamo come in una grande famiglia, si passano insieme i momenti liberi, si approfondisce la teoria, la fenomenologia musicale; la pratica viene dopo, ha la sua importanza enorme. Ma se l'individuazione degli elementi musicali del discorso è fatta con coscienza, le fasi successive vengono compaginate naturalmente. Si fanno allora prove con gruppi da camera, con le piccole forme, con partiture che esprimano chiaramente e con nitore i nessi biologici esistenti tra accordi e tensione musicale. Importante fin dall'inizio è far emergere la necessità di studiare non superficialmente l'armonia e il contrappunto. Perché la gerarchia delle strutture musicali sia rispettata pienamente al momento dell'esecuzione".
Non ha mai pensato di fissare i suoi insegnamenti in qualche manuale?
"Me l'hanno chiesto molte volte. Ma non è possibile scrivere di queste cose. Sono concetti che autonomamente non esistono, come il tempo non hanno caratteristiche fisiche: ogni cosa va verificata sulla pratica musicale".
Da qualche anno ha abbandonato definitivamente l'Italia. Come direttore, come docente. Come mai?
"Le orchestre italiane sono diventate cattive, la situazione musicale in genere peggiora anno dopo anno. Ci sono meno talenti di casa e i teatri prendono di tutto: vedo direttori che fanno carriera e non sanno il mestiere. Gli italiani sono i più musicali, ma i più ignoranti. I conservatori poi non fanno che peggiorare il quadro: come potranno insegnare musica con coscienza gli stessi professori d'orchestra che sono imprecisi, poco professionali e menefreghisti?
Così si smarriscono le pure qualità italiane. Una volta si veniva da noi per imparare il canto, oggi si va in America dove ci sono le scuole migliori e la naturale tendenza alla virtuosità e all'emulazione ha fatto concentrare i migliori insegnanti. E il vibrato all'italiana, elettrico e inconfondibile? Per ascoltare qualcosa di simile dobbiamo aspettare gli israeliani delle nuove generazioni. Noi continuiamo a fidarci della storia che sta alle nostre spalle, basandoci sull'incredibile capacità di "replica" che ci viene naturale. E' un bel peccato".
Però lei persevera nel dire, quasi inconsapevolmente, "noi italiani". Vuol dire che qualcosa di buono ce la riconosce.
"Amo in fondo tutto degli italiani. In musica la duttilità assoluta. Ma il mio ricordo è legato anche alla gente, al modo di comunicare con gli altri. Nelle cose semplici: la cordialità e familiarità del personale di teatro non ha confronti. In altre nazioni, in Germania dove lavoro da anni, ti rispettano come figura, senza preoccuparsi dell'uomo. Io invece credo alla necessità di trovare contatti anche su questa dimensione. In Italia non mi sono mai mancati. Per questa ragione non vorrei tornare a lavorare in Italia come musicista. Ma come didatta, a tenere dei corsi, subito".
Angelo Foletto
(Musica Viva, Anno VIII n.1, gennaio 1984)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

E' un grande, un grandissimo!!!
Grazie per questa bella intervista.
Louis

gian paolo ha detto...

Splendida intervista al più grande !

johntrevor ha detto...

Grazie per questo prezioso ricordo-riferimento. Lo cercavo da tempo. Un caro augurio, Ivano Chiarotti