Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, ottobre 21, 2023

Elias Canetti: Trofei

    Ero già stato qualche volta alla Hohe Warte, ma in forma privata e solo per incontrare Anna, che veniva ad accogliermi di persona da una porta secondaria. Quando finalmente decise di presentarmi a sua madre, la curiosità era reciproca, ma per motivi molto diversi: Alma Mahler non sapeva niente di preciso sul mio conto, si fidava poco della conoscenza che sua figlia aveva degli uomini e voleva sincerarsi che io fossi innocuo; quanto a me, sapevo che tutta Vienna parlava di lei nei termini più pungenti.
    Attraversai un cortile interno - ricoperto di piastrelle tra le quali l'erba aveva il permesso di crescere con calcolata naturalezza - e fui ammesso in una sorta di sancta sanctorum dove mi aspettava “mammina”. Era una donna piuttosto alta, straripante da tutte le parti, fornita di un sorriso dolciastro e di occhi chiari, spalancati, vitrei. Dalle sue prime parole sembrava che mi aspettasse da un pezzo, perché ne sentiva tante sul conto di tutti. «Annerl mi ha raccontato» disse subito, e fin dall'inizio fece apparire piccola piccola sua  figlia. Non voleva che ci fossero dubbi, neanche per un momento: chi contava era lei, in casa e fuori.
    Si sedette, e uno sguardo confidenziale fece intendere che bisognava prendere posto proprio accanto a lei. Obbedii con riluttanza, perché dopo il primo sguardo che le avevo dato, ero inorridito. Dappertutto si parlava della bellezza di Alma Mahler, si raccontava che era stata la più bella ragazza di Vienna e che aveva fatto una tale impressione su Mahler, molto più anziano di lei, da indurlo a chiedere la sua mano e a sposarla. La fama della sua bellezza si tramandava ormai da più di trent'anni, ma adesso Alma Mahler era lì in piedi e si sedette pesantemente: una persona in stato d'ebbrezza, molto più vecchia della sua età, circondata da tutti i trofei che aveva raccolto.
    La stanza in cui riceveva era infatti sistemata in modo che il visitatore avesse a portata di mano i pezzi più importanti di tutta una carriera: non c'era nulla  che potesse sfuggire alla vista, la stessa Alma era il cicerone di quel museo privato. A meno di due metri da lei si trovava la vetrina in cui era esposta la partitura della Decima sinfonia di Mahler, rimasta incompiuta. L'ospite era invitato a osservarla, si alzava, si avvicinava e leggeva le disperate invocazioni del malato - era la sua ultima opera - alla moglie: «Almina, mia amata Almina!» e altre simili. La partitura era aperta su quelle pagine terribilmente intime. Doveva essere un mezzo collaudato per far colpo sui visitatori. Io lessi quelle parole tracciate dalla mano di un moribondo e guardai la donna alla quale erano dirette. Per lei, ventitré anni dopo, era come se fossero state appena scritte. Chi osservava quel cimelio era tenuto a dedicarle uno sguardo di ammirazione, uno sguardo cui lei aveva diritto per l'omaggio che il moribondo le aveva reso nelle ore dell'agonia; e lei era così sicura dell'effetto di quelle parole estreme che il suo sorriso insensato si allargava in un ghigno e con quel ghigno accoglieva l'omaggio. Non avvertì nulla dell'orrore e del disgusto che avevo negli occhi. Io non sorridevo, ma lei interpretò erroneamente la mia espressione seria come un segno della devozione dovuta a un genio morente; e poiché tutto avveniva in quella specie di cappella votiva che Alma aveva eretto alla propria felicità, anche la devozione le apparteneva.
    Ma era venuto il momento del quadro che stava appeso alla parete proprio di fronte a lei, un ritratto di Alma, dipinto pochi anni dopo le ultime parole del compositore. L'avevo notato subito, mi era rimasto negli occhi da quando ero entrato; aveva un che di feroce, di minaccioso, e la partitura aperta mi aveva talmente sbigottito che lo sguardo mi si confuse e il quadro mi apparve come il ritratto dell'assassina del compositore. Non ebbi il tempo di respingere questo pensiero perché Alma Mahler si alzò, fece tre passi verso la parete e, stando davanti a me e indicando il quadro, disse: «E questa sono io, dipinta da Kokoschka come una Lucrezia Borgia». Era un'opera del periodo migliore di Kokoschka. Alma Mahler alzò subito un muro tra sé e il pittore, che era ancora vivo e attivo, aggiungendo compassionevolmente: «Poveretto, non ha fatto molta strada!». Kokoschka aveva ormai abbandonato la Germania, dove era all'indice come «artista degenerato», ed era andato a Praga per fare il ritratto al presidente Masaryk. Ero così stupito per quell'osservazione sprezzante che non potei trattenere una domanda: «In che senso non ha fatto molta strada?». «Ma si, adesso è a Praga, non è che un povero emigrante. Non ha più dipinto niente di buono»; e con uno sguardo alla Lucrezia Borgia aggiunse: «Allora sì che era bravo. Questo quadro fa paura a tutti». Anch'io avevo avuto paura, ma adesso ne avevo ancora di più nell'apprendere che il pittore non aveva fatto molta strada. Il suo apice lo aveva toccato con le varie raffigurazioni della sua Lucrezia Borgia, e adesso, poveretto, era solo un fallito, perché non piaceva ai nuovi padroni della Germania, e il fatto che il presidente Masaryk posasse per lui contava poco o niente.
    Ma la vedova non accordò troppo tempo al secondo trofeo perché pensava già al terzo, che non era presente nel sacrario e che desiderava mostrarmi. Batté le sue mani adipose e gridò: «Ma dove si è nascosta la mia Mutz?».
    Dopo pochi istanti una gazzella entrò in punta di piedi nella stanza, un'esile creatura bruna, travestita da ragazzina, incontaminata dalle meraviglie in mezzo alle quali si trovava, così innocente da apparire più giovane dei sedici anni che poteva avere. Più che bellezza, irradiava intorno a sé timidezza, come una gazzella angelica venuta dal cielo, non dall'arca. Io balzai in piedi per impedirle di entrare in quell'antro dei vizi o almeno per risparmiarle la vista dell'avvelenatrice appesa alla parete, ma costei, che non smentiva mai il suo personaggio, aveva già preso inesorabilmente la parola:
    «Bella, eh? Le presento Manon, figlia mia e di Gropius. Non ce n'è un'altra come lei. Tu, Annerl, non la invidi, vero?... Che male c'è ad avere una bella sorella? Buon sangue non mente. Lei ha mai visto Gropius? Alto, bello. Proprio quello che si dice un vero ariano. L'unico uomo fatto su misura per me dal punto di vista razziale. Tutti gli altri che si sono innamorati di me erano piccoli ebrei, come Mahler. Io vado  bene per gli uni e per gli altri. Adesso puoi andare, Mutz. Ancora un momento. Sali un po' a vedere se c'è Franzl. Se sta scrivendo, non lo disturbare. Ma se non è occupato, digli di scendere».
    Manon, il terzo trofeo, scivolò via dalla stanza, incontaminata com'era venuta, l'incarico affidatole non sembrava esserle di peso. Provai un grande sollievo al pensiero che nulla potesse toccarla, che sarebbe rimasta sempre com'era adesso, che non sarebbe mai diventata come sua madre, come il viso velenoso del quadro o la vecchia donna disfatta sul divano con i suoi occhi vitrei.
    (Non sapevo in che modo orribile avrei avuto ragione. A distanza di un anno l'agile gazzella era una povera paralitica e veniva portata in giro sulla carrozzella, accompagnata dal chiacchierio di sua madre, ancora lo stesso chiacchierio. Dopo un altro anno era morta. Alban Berg dedicò la sua ultima opera « Alla memoria di un angelo »).
    In una delle stanze superiori, sotto il tetto, c'era il leggio al quale Franz Werfel scriveva stando in piedi. Una volta Anna mi aveva mostrato quella stanza durante una delle mie visite. Sua madre non poteva sapere che avevo già conosciuto Werfel a un concerto al quale avevo accompagnato Anna. Quella sera Anna era seduta tra me e lui, e per tutto il tempo mi sentii addosso un grande occhio sporgente. Werfel si era girato tutto verso destra per vedermi meglio, e quasi allo stesso modo il mio occhio sinistro si era girato verso sinistra per osservare meglio l'espressione del suo occhio. Così i due occhi fissi l'uno nell'altro s'incontrarono, batterono dapprima in ritirata sentendosi colti in flagrante, ma alla fine, poiché non era più possibile dissimulare quel vicendevole interesse, ritornarono al loro posto di vedetta.
    Io non so che musica fu eseguita. Se fossi stato Werfel avrei pensato prima di tutto al concerto, ma io non ero un tenore come lui, ero stregato da Anna e nient'altro. Lei non si vergognava di me, sebbene i miei pantaloni sportivi non fossero l'ideale per un concerto, e del resto avevo saputo solo all'ultimo momento che c'era un biglietto libero e che potevo accompagnarla. Anna era seduta alla mia sinistra, e mentre fissavo su di lei uno sguardo che credevo furtivo, mi imbattevo nell'occhio da batrace di Werfel. Mi venne in mente che la sua bocca somigliava a quella di una carpa e che il suo grande occhio sporgente vi si adattava a meraviglia. Ben presto il mio occhio sinistro si comportò esattamente come il suo occhio destro. Era il nostro primo incontro, e fu un duetto con accompagnamento musicale tra due occhi che - separati da Anna - non potevano accorciare la distanza tra loro. Gli occhi di lei, la cosa più bella che avesse, occhi che nessuno poteva dimenticare dopo averli avuti addosso una volta, rimasero esclusi dal gioco; ed era una grottesca deformazione della realtà se si pensa quanto erano insulsi, privi di qualsiasi irradiazione, gli occhi di Werfel e i miei.
    Ma poiché dovevamo seguire il concerto in silenzio, furono escluse dal gioco anche le parole, proprio le parole che Werfel sapeva maneggiare da maestro, con patetica eloquenza. (Pierino Boccadifuoco è il nome che gli ha affibbiato il più grande dei suoi contemporanei, Musil). Di solito avevo anch'io la lingua pronta - almeno con Anna - ma tutt'e due stavamo zitti, ligi alla disciplina del concerto; e già in quel primo incontro era forse deciso il futuro dei nostri rapporti, l'ostilità di Werfel e la mia antipatia, l'inimicizia che doveva indurre Werfel ai più rozzi interventi nella mia vita.
    Adesso però sono ancora seduto vicino ad Alma, in mezzo ai suoi trofei, e lei, ignara di quell'incontro al concerto, ha appena mandato il terzo trofeo a cercare il quarto - il suo nome è Franzl - perché venga giù, se per caso non sta scrivendo. A quanto sembra, stava proprio scrivendo, perché non si fece vedere, e per me fu meglio cosi, perché ero sotto l'impressione sconvolgente della vedova straripante e dei suoi primi trofei. Ero fermo a questa impressione, volevo conservarla integra dentro di me, e c'era il pericolo che i discorsi retorici di Werfel potessero alterarla in qualche modo. Le cose comunque andarono così, e io non saprei dire come me ne venni via, come mi congedai da Alma: nel ricordo io sono ancora seduto accanto all'Immortale e la sento in eterno parlare di «piccoli ebrei come Mahler».
Elias Canetti
(tratto da "Il gioco degli occhi", Adelphi, 1985; Traduzione di Gilberto Forti)

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