Si narra che Beethoven si sia così espresso coll'editore viennese Artaria in merito alla sua op. 106: «Ecco una Sonata che darà il filo da torcere ai pianisti quando sarà eseguita fra cinquant'anni». Particolari studi ci consentono di dire che nonostante siano trascorsi non 50 ma bensì 143 anni da quel lontano 1819, la profetica affermazione di Beethoven è ancora oggi abbastanza valida. Infatti la 106, uno dei più grandiosi capolavori che mente umana abbia concepito, è rarissimamente eseguita (fa paura un po' a tutti); inoltre, alcune essenziali indicazioni dell'Autore sono tuttora oggetto di discussioni, di strani compromessi, di imperdonabili arbitrii.
I punti più controversi possono ridursi: I) alla disposizione dei tempi, che tutti ritengono pacificamente risolta, e non lo è; II) alla vessata questione dell'andamento dei tempi.
Nell'edizione originale londinese (ritenuta contemporanea ma forse precedente a quella viennese) lo Scherzo figura come terzo tempo, dopo l'Adagio, com'era consuetudine, mentre nell'edizione viennese, e in tutte le altre successive, figura come secondo tempo.
Purtroppo il manoscritto non esiste. Dai copiosi abbozzi lasciatici da Beethoven, Nottebohm dedusse che lo Scherzo fu composto prima dell'Adagio, e quindi deve essere eseguito come secondo tempo. E' vero altresì che Beethoven, scrivendo il 16 aprile 1819 al suo ex alunno F. Ries, da tempo incaricato di curare l'edizione inglese, gli indicava la successione degli andamenti nell'ordine che vedremo nell'edizione viennese. Ma è altrettanto vero che tre giorni dopo, con altra lettera, Beethoven autorizzava Ries a spostare l'ordine dei tempi per cui lo Scherzo diveniva terzo anziché secondo tempo, aggiungendo: «Lascio decidere a Voi, come meglio credete». Perché questa concessione, se non vogliamo chiamarla rettifica, fatta per la edizione inglese? Deriva soltanto da costrizione di impellenti necessità economiche, ossia da premura di volere, a tutti i costi, pubblicare la propria opera anche a Londra oltre che a Vienna? Sarebbe strano per un Beethoven, tanto più che un siffatto ripiego non avrebbe potuto in qualche modo giovargli. Oppure deriva da indecisione (da «confusioni», da «errori» a cui allude l'Autore nelle citate lettere), o addirittura da resipiscenza di quanto aveva comunicato a Ries appena tre giorni prima? In definitiva, a noi manca in proposito la testimonianza precisa della volontà dell'Autore; né possiamo ritenere accettabile - seppure è esatta - la sola giustificazione cronologica dataci da Nottebohm; né abbiamo alcun dato per spiegarci la diversa disposizione dei tempi dell'edizione viennese, di Artaria, considerata successivamente come la sola vera edizione originale, e perciò imitata da tutti. Ecco perché la soluzione migliore, l'unica soluzione, dell'ordine dei tempi vorremmo che scaturisse dall'esame del contesto musicale; e a nostro avviso giudichiamo esatta l'edizione inglese, anch'essa originale, che pone lo Scherzo dopo l'Adagio. Quale drammatico contrasto, per opposizione dinamica ed espressiva, facendo seguire all'impeto focoso, travolgente del primo tempo il sublime, straziante e rassegnato pathos di cui trabocca l'Adagio! E di quanta singolare luce non si ravviva lo Scherzo eseguito dopo l'Adagio! Infine lo Scherzo - non già l'Adagio - quanto meglio si collega per affinità tonale e soprattutto per amalgama - autentica simbiosi musicale - con quel senso di stupore, di attesa, di slancio, che prelude alla grandiosa e vertiginosa Fuga, ultimo tempo! Siamo tentati di dire che quel1'estroso interludio che precede la Fuga, non ha ragione di essere se eseguito dopo 1'Adagio anziché dopo lo Scherzo: è Beethoven che ci consente un così ardito giudizio («Togliere il Largo e cominciare subito dalla Fuga»; v. lettera a Ries, del 19 aprile 1819). Ma revisori ed esecutori ostinatamente - oseremmo dire, supinamente - si attengono all'edizione viennese anziché a quella londinese, forse (nel migliore dei casi) per riverenziale rispetto di presunte più autentiche intenzioni dell'Autore. Il quale rispetto vien poi del tutto meno - irriverentemente - dinanzi alle asperrime difficoltà derivanti dagli andamenti indicati e ben definiti, per ogni singolo tempo, dallo stesso Beethoven.
E' noto che la 106 è l'unica delle 32 Sonate per pianoforte, che abbia le indicazioni metronomiche espressamente volute dall'Autore. Ebbene, queste indicazioni di andamento (intese - com'è ovvio - in senso artistico e non meccanico, e che costituiscono - è il caso di dirlo? - parte essenziale dell'opera: «Il tempo è veramente come la materia stessa della composizione», scrisse Beethoven) sono state quasi costantemente alterate, «facilitate», da revisori e da interpreti: primi fra tutti, da Bülow come revisore, da Liszt come interprete, generando per i posteri, dopo sì illustri tabù, una confusione babelica e mostruosi arbitrii. Basti dire che, in una lettera del 26 ottobre del 1876 diretta alla principessa Sayn-Wittgenstein, Liszt affermava che la durata della 106 è di «circa un'ora»: ben circa venti minuti primi in più di quanto voleva Beethoven!!!
Queste, in breve, le principali controversie su l'interpretazione dell'op. 106. Ma ben altri ostacoli, ancora più ardui, di natura espressiva, strutturale, architettonica, deve affrontare e superare l'interprete per dare vita a questa gigantesca Sonata, «l'unicamente-grande» come usava chiamarla Schumann. Ed allora anche noi, colmi di stupore ma senza alcuna riserva, potremo esclamare con Wagner: «Che cosa può mettersi a confronto di Ciò?... Nemmeno lo stesso Shakespeare può sostenerne il paragone».
Ernesto Paolone
("Rassegna Musicale Curci", anno XVII, n.1 marzo 1963)
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