Negli ultimi mesi, il nome di Giulio Prandi è ritornato con una certa frequenza sulle nostre pagine, complice soprattutto la vittoria nella categoria “Musica corale” agli ICMA 2022 con la splendida incisione della Petite messe solennelle di Rossini (che ha appena riproposto al Festival di Stresa: e la recensione è sul nostro sito). Ma in realtà era dal febbraio 2014 che non ci intrattenevamo con il direttore d'orchestra e di coro pavese, nonché direttore artistico del Centro di Musica Antica della Fondazione Ghislieri di Pavia: l'occasione per tornare a parlare con lui viene dai prossimi concerti al Festival Mito (il 15 a Torino e il 16 a Milano), in cui accosterà due Stabat Mater, uno piuttosto raro - quello di Caldara - e l'altro celeberrimo, quello di Pergolesi.
Qual è il senso di questo accostamento?
Nicola Campogrande, direttore artistico di Mito, ama proporre concerti con lo stesso testo messo in musica da differenti compositori: l'interesse sta nel fatto che quello dello Stabat Mater è un testo potente e attuale, che è in grado di parlare a chi, pur non essendo magari religioso, ha una spiritualità. D'a1tronde il Ghislieri, con i cui complessi eseguiremo le due partiture, è un'istituzione laica, e tale sono anch'io. Ma si parla di una madre che sacrifica se stessa per il bene dell'umanità, e ne soffre in prima persona: questo è potentissimo, è una tematica universale. La partitura di Pergolesi è diventata iconica, e quindi è difficile oggi dirigerla, ma l'amo molto perché si presta - come tutte quelle celeberrime - ad essere travisata, il che non è necessariamente un male: vuol dire che si possono realizzare letture molto lontane tra loro, molto personali, che diventano un patrimonio. Ogni lettura è fi-
glia del proprio tempo, è un atto necessariamente contemporaneo.
Come descriverebbe, in poche parole, lo Stabat di Pergolesi. E quello di Caldara, invece?
Il primo è l'opera di un genio. Ma chi è, anzi chi era il genio? Colui che sa parlare meglio degli altri una lingua condivisa; l'ispirazione non è tanto nella melodia o nell'artificio armonico (il celebre incipit deriva da una formula notissima all'epoca), ma nel modo in cui viene sviluppata, negli elementi con cui si “vestono” le parole, a partire dal trillo su “Pertransivit gladius”, che sembra fermare il momento in cui la lancia entra nelle carni di Gesù. Quanto a Caldara, parliamo di una figura di primissimo piano nel panorama dell'epoca, che a Vienna adotta una strategia diversa (e ricordiamo che gli Stabat di Pergolesi e quello di Caldara sono separati da meno di un decennio; il secondo data intorno al 1725, il primo intorno al 1734): c'è l'organico della Hofkapelle, ossia archi e due tromboni, con il coro, e una successione di movimenti molto brevi, icastici nel dare un senso alle parole con strumenti immediatamente intellegibili, derivati dalla tradizione polifonica. C'è un'espressività altrettanto efficace e forte, ma nel segno di una maggiore essenzialità.
Lei lavora da lungo con i complessi del Ghislieri: come siete cambiati?
L'anno prossimo saranno vent'anni di percorso comune: e i musicisti non sono cambiati granché, le prime parti sono le stesse, così come molti dei cantanti. Forse è questa la chiave: questo tipo di musica richiede pratica, un lavoro lungo di immedesimazione e approfondimento, perché è solo in apparenza repertorio semplice, che invece attinge ad un universo di affetti, e di legami con le forme musicali, che oggi non conosciamo. Il repertorio italiano del 18° secolo, che io difendo a spada tratta, non è come altri - penso a Bach - in cui c'è tutto scritto, in cui la grande sapienza dell'autore è evidente: se mi permette il paragone, è come la cucina italiana, che con pochissimi elementi raggiunge altezze sublimi. Ma ci vuole uno studio profondo per decifrare il mondo di codici non scritti, di essenzialità; e poi ci vuole sensibilità, che si costruisce solo in anni di pratica comune, che ti porta piano piano a entrare in sintonia intima con quella musica. Io mi muovo nel mondo delle esecuzioni “storicamente informate", che però è anzitutto l'educazione a una sensibilità particolare.
Anche perché sarebbe difficile ricreare questa sensibilità quando dirige orchestre diverse da quella del Ghislieri...
lo ho una doppia vita: quella di direttore freelance e di direttore del Ghislieri. Dirigo al Carlo Felice, la Toscanini, l'orchestra dell'Arena, e i giorni di prove variano da un paio (per il Sinfonico) a una quindicina (per l'opera): in questo breve lasso di tempo devo trasmettere qualcosa. Allora subentra una sfida: fare le prove con i “sì” e non con i “no”, con le proposte e non con i divieti. Posso sommergere i professori di informazioni, ma se non subentra una certa sintonia con loro, anche parziale, è del tutto inutile parlare: io mando le parti per tempo, con una grande quantità di informazioni (non solo dinamiche e arcate, ma anche spunti interpretativi). E poi quando sono davanti a loro devo entrare in risonanza, mettermi in gioco.
Pensa di estendere il suo repertorio alla musica più tarda?
Io amo molto quello che faccio, è musica che mi affascina fin da piccolo, quando ascoltavo gli Anthems di Händel, il Requiem di Mozart e mi chiedevo dove fosse il loro equivalente italiano; poi, però, amo le sfide, e per esempio ho accettato di dirigere la Seconda Entrata dalle Indie galanti di Rameau, il 12 ottobre alla Sagra Malatestiana con la Toscanini e una messinscena molto moderna di Anagoor, così come ho accolto la proposta dell'Andromaque di Grétry a Saint-Etienne il prossimo gennaio, un'opera che è una sorta di reazione francese alla riforma gluckiana. Ma quello che, in genere, mi interessa è riflettere sulla musica come fatto non solo artistico ma anche sociale, come patrimonio culturale. Per questo andrò a Utrecht, il 4 settembre, a proporre la musica della Cappella del Duomo di Milano. Non ho fretta e non ho intenzione di fare cose senza senso.
Quali sono, allora, i prossimi impegni e i progetti discografici che la attendono?
Dopo i due concerti di Mito, il cui programma sarà riproposto anche a Jesi, ci attende un progetto vivaldiano che sarà legato anche al disco (Naive ci ha chiesto di completare la parte sacra della “Vivaldi Edition"), con il Magnificat, il Dixit Dominus e un difficile Mottetto per contralto (con Filippo Mineccia): lo faremo a Pavia, per la nuova rassegna “Preludi d'autunno“, e Ambronay. Voglio segnalare che a gennaio uscirà per Arcana un disco dedicato a Mozart a Milano, che sarà anche un concerto, lo stesso giorno, per la Società del Quartetto, nella stessa data e nello stesso luogo (la chiesa di San Marco) della prima esecuzione dell'Exsaltate, jubilate.
Nicola Cattò
("Musica", N. 339, settembre 2022)
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