Toblach (Sudtirolo) - Italia |
Si è fatto di già cenno del gigantismo architettonico che connota, nel suo insieme, la Sinfonia mahleriana. Ove si eccettuino la Prima e la Quarta, uniche fra le nove cui il musicista dette completezza ad aver dimensioni e durata pressoché analoghe a quelle dei coetanei prodotti sinfonici del tempo, le altre del gruppo mostrano una visibile dilatazione degli spazi e dei tempi, articolandosi talora in un numero di movimenti superiore ai quattro canonici della convenzione: cinque nella Seconda, nella Quinta e nella Settima, sei addirittura nella mastodontica Terza; e quattro di esse (Seconda, Terza, Quarta e Ottava) accoglieranno, addirittura, la voce umana, vuoi in senso corale, vuoi come intervento solistico. V'è ancor qui da apporre qualche non irrisoria chiosa: se il concetto di "durata" è ormai palesemente da mettere in rapporto con il mutato ambito psicologico del wagnerismo, per cui alla lunghissima Sinfonia di Mahler viene commesso il paradosso (già in parte bruckneriano) di fungere da veicolo della immobilità anziché del decorso narrativo, lo stesso potenziamento della sonorità risponde, nei suoi esempi più felici, a un’esigenza del tutto opposta a quella del gigantismo: quanto più Mahler "alza la voce", tanto più vi si manifesta esautorato il principio fonico di potenza e un’ombra di insicurezza si fa strada fra gli ingranaggi maestosi di quei movimenti.
L'incrudirsi della sproporzione, cioè di quella enorme dilatazione dei tessuti sinfonici, è dovuta in realtà al dubbio che quella sproporzione costituisca davvero la via alla salvezza. E l'apparente intensificarsi del criterio di forma-sonata è solo confutazione, impiego all’incontrario, uso di un eccesso per scopi difettivi; almeno in questo Mahler si palesa il vero continuatore di quella "linea austriaca" della Sinfonia che venne propugnata da Paul Bekker.
Gigantismo, eclettismo stilistico, per cui al "progressivo" Mahler è dato di ricordare certe luminose iridescenze del più classico dei romantici, Mendelssohn, rappresentano i poli di un’unica faccia, attraverso cui alla Sinfonia è fatto carico di "essere il mondo e contenere tutto". Non può negarsi che a ciò Mahler venisse spronato, non soltanto dalle ragioni ideologico-stilistiche che si son più volte riferite, ma anche da un ovvio, mai pienamente ammesso ma stringente dato di fatto: l’essere egli, oltre che l’importante musicista che si è in ritardo riconosciuto, anche il sommo direttore d’orchestra cui fu invece concessa subito gloria. La frequentazione diuturna di un vasto repertorio d’immagini, sinfoniche e teatrali (la presenza di Mahler a capo della Staatsoper Viennese fu uno dei capitoli più avvincenti della storia culturale austriaca) costituì senza dubbio una via dischiusa sull’eclettismo, cosi come la manipolazione e l'estensione dei processi compositivi fu in parte anche la logica risultanza di un ferreo virtuosismo d’orchestratore forgiato alla fucina dell’interprete oltre che del soggetto compositivo.
Gigantismo, eclettismo stilistico, per cui al "progressivo" Mahler è dato di ricordare certe luminose iridescenze del più classico dei romantici, Mendelssohn, rappresentano i poli di un’unica faccia, attraverso cui alla Sinfonia è fatto carico di "essere il mondo e contenere tutto". Non può negarsi che a ciò Mahler venisse spronato, non soltanto dalle ragioni ideologico-stilistiche che si son più volte riferite, ma anche da un ovvio, mai pienamente ammesso ma stringente dato di fatto: l’essere egli, oltre che l’importante musicista che si è in ritardo riconosciuto, anche il sommo direttore d’orchestra cui fu invece concessa subito gloria. La frequentazione diuturna di un vasto repertorio d’immagini, sinfoniche e teatrali (la presenza di Mahler a capo della Staatsoper Viennese fu uno dei capitoli più avvincenti della storia culturale austriaca) costituì senza dubbio una via dischiusa sull’eclettismo, cosi come la manipolazione e l'estensione dei processi compositivi fu in parte anche la logica risultanza di un ferreo virtuosismo d’orchestratore forgiato alla fucina dell’interprete oltre che del soggetto compositivo.
Il principio di mutazione della tecnica del narrare e al fondamento di quello che si usa definire 1’epilogo tragico di Mahler sinfonista: introdotto, secondo le categorie critiche ufficiali, dall’anomalo caso dell’Ottava Sinfonia per soli, coro e orchestra, esso si concreta nella fioritura della Nona in re minore e in quel traumatico torso che e l’Andante-Adagio in fa diesis minore, primo e unico movimento completato in partitura, nel 1910, di quella che avrebbe dovuto essere la Decima e di cui la vicina morte dell’autore a Vienna vietò il completamento, Si ricorrerà ancora alla monografia di Adorno per acquisir meglio il senso di quella tecnica. Osservò infatti lo scrittore tedesco che i temi mahleriani "non vengono modificati attraverso uno sviluppo continuo" e, insomma, che il musicista "sfugge al principio di 'tema' inteso come un fattore posto in maniera ben distinta e poi soggetto a modifiche. Si può paragonare piuttosto il nucleo della sua musica a ciò che viene raccontato per tradizione orale: ogni volta che si ripete si modifica un poco".
Questa prassi narrativa, secondo cui i gruppi motivici, non che rigenerarsi in base alla teoria dialettica del sonatismo, si limitano invece a permanente trasformazione, e assimilabile a quella donde stavano per nascere, più o meno in contemporanea, le digressioni psicologiche della grande narrativa europea: dissolti i contorni reali delle unità di struttura, perennemente variabili e proliferanti al punto di distruggersi in quanto unita per rifluire in un tutto indistinto e pur lucidissimo, tali canoni procedurali si ritrovano a fondamento del lascito ultimo mahleriano. Lascito che si amerebbe far partire, contro una tradizione consolidata, non dall’Ottava ma da quell'enigmatica Settima di norma giudicata l’ultimo tassello del Mahler alle prese con il rinnovato quesito dell’architettu1a classica. La surreale, complessa effigie di questa Sinfonia pare, insomma, gettare segnali non così univoci; e intanto perché Mahler vi avalla un ritorno in forze alla tematica delle Wunderhornsymphonien. L'esperienza giovanile si decanta, come vista attraverso un binocolo rovesciato, e viene a precisazione, forse per la prima volta in modo così radicale, come l’ultimo sinfonismo del musicista si giuochi sulla definizione di due basilari coordinate: quelle del timbro e della polifonia, uniche vere sonde emesse da un autore dal cuore gonfio di memorie verso l’atarassia della Musica Nuova.
Questa prassi narrativa, secondo cui i gruppi motivici, non che rigenerarsi in base alla teoria dialettica del sonatismo, si limitano invece a permanente trasformazione, e assimilabile a quella donde stavano per nascere, più o meno in contemporanea, le digressioni psicologiche della grande narrativa europea: dissolti i contorni reali delle unità di struttura, perennemente variabili e proliferanti al punto di distruggersi in quanto unita per rifluire in un tutto indistinto e pur lucidissimo, tali canoni procedurali si ritrovano a fondamento del lascito ultimo mahleriano. Lascito che si amerebbe far partire, contro una tradizione consolidata, non dall’Ottava ma da quell'enigmatica Settima di norma giudicata l’ultimo tassello del Mahler alle prese con il rinnovato quesito dell’architettu1a classica. La surreale, complessa effigie di questa Sinfonia pare, insomma, gettare segnali non così univoci; e intanto perché Mahler vi avalla un ritorno in forze alla tematica delle Wunderhornsymphonien. L'esperienza giovanile si decanta, come vista attraverso un binocolo rovesciato, e viene a precisazione, forse per la prima volta in modo così radicale, come l’ultimo sinfonismo del musicista si giuochi sulla definizione di due basilari coordinate: quelle del timbro e della polifonia, uniche vere sonde emesse da un autore dal cuore gonfio di memorie verso l’atarassia della Musica Nuova.
Come avviene in quest'opera-editto il recupero del "preesistente"? Già nell’allucinato attacco del primo movimento notiamo che gli strumenti sono impiegati secondo un canone di differenziazione timbrica affatto personale, ignoto alla convenzione: legni al confine delle possibilità acustiche (com’era accaduto nel celebre incipit della Prima), con flauti e oboi procedenti per larghi intervalli; violini e viole tenuti su registri gravi, sin che non risuona nel più totale grigiore il morbido, allusivo disegno melodico del corno. D’altronde è indubbio che in nessuna Sinfonia come nella Settima le connotazioni contrappuntistiche si prospettino in dimensione tanto straniante: estraneo per l’intera vita al concetto di contrappunto scolastico, Mahler sfiora qui, nella pluralità di voci intersecantisi e riproducentisi, il principio figurativo di collage; e il gigantesco Rondò conclusivo, nella trionfalistica tonalità di do maggiore, non assicura più nessun trionfo. Anzi, pare fondarsi sull’intellettualistico recupero del significato arcaico di "rondo": canto da intonare à la ronde, iterazione meccanicistica dello stesso canto. Considerare, come Hans Redlich ha fatto, quest'ultimo tempo della Settima puro e semplice "studio virtuosistico di tecnica orchestrale", equivale a non tener in conto, a tacer d’altro, il tipo di materia tematica su cui Mahler ha chiamato tale tecnica ad esercitarsi: il più disperatamente triviale che mai forse gli sia uscito dalla penna. Ma triviale proprio nel senso etimologico del termine: ritorno alla incontaminata ingenuità del Trivium, della canzone da intonare allo spartiterra tra boschi pervasi di silenti rumori e maleodoranti strade suburbane. Ritorno, insomma, al Wunderhorn, ormai compromesso in stampa popolare, in cartone colorato del cantastorie.
Non sembri, alla fine, contraddittorio che il sinfonismo mahleriano, forgiatosi a un linguaggio di assai relativa modernità, finisca con l’additare egualmente le vie di una possibile marcia in avanti, risolutoria a suo modo dei problemi della forma. Le ragioni e le aspirazioni più antitetiche, ancora e per sempre, si mescolano nel Mahler degli approdi finali; già che, essendo vero che la sua musica imprende al ripristino di mondi messi al bando dalla borghesia, è del pari vero che tali mondi conoscono il loro risvolto in una sterilizzazione, s’altre mai di matrice colta, tale da reinserire il reprobo eversore nei ranghi che, soli, gli competono, quelli della classicità. L'atteggiamento di Mahler, lo si ribadisca per definitiva chiarezza, è in palese contrasto con qualsivoglia rivalsa del nazionalpopolare; 1’antinomia lampante tra appelli epici della fiaba di natura e raffinatezza della strumentazione, inconciliabile con la "musica dei mercati e delle fiere", la spoliazione dei gigantismi sino a una grafia di complessità quasi cameristica (si pensi alle strepitose misure terminali dell’Andante comodo della Nona) sono, in sostanza, il solvente mediante cui Mahler scioglie i nodi del rapporto storia-individualità e lo consegna al braccio secolare dell’Oggettivo.
Nel Mahler delle ultime opere il rovello straordinariamente nuovo del timbro e del contrappunto, è volto alla glorificazione di Memoria e Bellezza: fuga dal mondo di segno mirabilmente "decadente", per rintanarsi in quell’"altro mondo" che stava nel cuore del musicista e che ha più di un contatto con la celebre "rilkiana terribilità del bello" di cui disse Lukàcs, Dalla meditazione del Lied von der Erde alle rarefazioni dolorose della Nona e alle foglie secche dell’incompiuta Decima, memoria e bellezza si danno la mano contro ogni soluzione immediata, poiché in questa musica non si vuol più distruggere né costruire, ma solo accumulare e additare. Se Mahler recupera, analizza, ripropone, ravviva, epicizza una sconfinata esperienza del sepolto e del caduco, ciò è proprio in quanto in lui non domina la mira del riformatore quanto quella del fuggiasco; raccogliere per rammentare, con il massimo della pieta e, insieme, dell’indifferenza. Si vede, dunque, che questa bellezza, in pari misura atarassica e dolente, non ha nulla in comune con il "popolare" e con il "banale", pur da ambedue le categorie nascendo.
Ma sarebbe forse più opportuno precisare: nulla in comune essa ha con il popolare e con il banale di cui hanno dissertato a lungo, e con pari inutilità, agiografi progressisti e detrattori reazionari del verbo di Mahler (e s’intendano gli aggettivi nel senso più virgolettato possibile). Vale a dire, che ogni tentativo di volgerla ancora nelle ipotesi della cosiddetta trivialità demistificante, care ai collezionisti di crisi asburgiche, va denunciato a tal punto come a sua volta mistificatorio. Parleremo allora, semmai, di semplicità; ma tenendo ben fermo che siamo qui nell’identica prospettiva del "semplice" di cui, ad esempio, s’ingemmano pagine capitali della musica quali il primo tempo della Sonata op.110 o la Marcia del Quartetto in fa maggiore di Beethoven. Quel "semplice" che, al pari del volo delle procellarie, prelude direttamente alle tempeste.
Non sembri, alla fine, contraddittorio che il sinfonismo mahleriano, forgiatosi a un linguaggio di assai relativa modernità, finisca con l’additare egualmente le vie di una possibile marcia in avanti, risolutoria a suo modo dei problemi della forma. Le ragioni e le aspirazioni più antitetiche, ancora e per sempre, si mescolano nel Mahler degli approdi finali; già che, essendo vero che la sua musica imprende al ripristino di mondi messi al bando dalla borghesia, è del pari vero che tali mondi conoscono il loro risvolto in una sterilizzazione, s’altre mai di matrice colta, tale da reinserire il reprobo eversore nei ranghi che, soli, gli competono, quelli della classicità. L'atteggiamento di Mahler, lo si ribadisca per definitiva chiarezza, è in palese contrasto con qualsivoglia rivalsa del nazionalpopolare; 1’antinomia lampante tra appelli epici della fiaba di natura e raffinatezza della strumentazione, inconciliabile con la "musica dei mercati e delle fiere", la spoliazione dei gigantismi sino a una grafia di complessità quasi cameristica (si pensi alle strepitose misure terminali dell’Andante comodo della Nona) sono, in sostanza, il solvente mediante cui Mahler scioglie i nodi del rapporto storia-individualità e lo consegna al braccio secolare dell’Oggettivo.
Nel Mahler delle ultime opere il rovello straordinariamente nuovo del timbro e del contrappunto, è volto alla glorificazione di Memoria e Bellezza: fuga dal mondo di segno mirabilmente "decadente", per rintanarsi in quell’"altro mondo" che stava nel cuore del musicista e che ha più di un contatto con la celebre "rilkiana terribilità del bello" di cui disse Lukàcs, Dalla meditazione del Lied von der Erde alle rarefazioni dolorose della Nona e alle foglie secche dell’incompiuta Decima, memoria e bellezza si danno la mano contro ogni soluzione immediata, poiché in questa musica non si vuol più distruggere né costruire, ma solo accumulare e additare. Se Mahler recupera, analizza, ripropone, ravviva, epicizza una sconfinata esperienza del sepolto e del caduco, ciò è proprio in quanto in lui non domina la mira del riformatore quanto quella del fuggiasco; raccogliere per rammentare, con il massimo della pieta e, insieme, dell’indifferenza. Si vede, dunque, che questa bellezza, in pari misura atarassica e dolente, non ha nulla in comune con il "popolare" e con il "banale", pur da ambedue le categorie nascendo.
Ma sarebbe forse più opportuno precisare: nulla in comune essa ha con il popolare e con il banale di cui hanno dissertato a lungo, e con pari inutilità, agiografi progressisti e detrattori reazionari del verbo di Mahler (e s’intendano gli aggettivi nel senso più virgolettato possibile). Vale a dire, che ogni tentativo di volgerla ancora nelle ipotesi della cosiddetta trivialità demistificante, care ai collezionisti di crisi asburgiche, va denunciato a tal punto come a sua volta mistificatorio. Parleremo allora, semmai, di semplicità; ma tenendo ben fermo che siamo qui nell’identica prospettiva del "semplice" di cui, ad esempio, s’ingemmano pagine capitali della musica quali il primo tempo della Sonata op.110 o la Marcia del Quartetto in fa maggiore di Beethoven. Quel "semplice" che, al pari del volo delle procellarie, prelude direttamente alle tempeste.
Aldo Nicastro (da "Come ascoltare le sinfonie di Mahler", Mursia, 1998)