Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, dicembre 22, 2024

Concerti 2024


Domenica, 14 gennaio 2024
Bologna, Auditorium Manzoni, ore 17,30
Anton Bruckner 
Sinfonia n. 5 in Si bemolle maggiore, WAB 105 (Cahis 7)
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Direzione: Oksana Lyniv

Domenica, 4 febbraio 2024
Bologna, Auditorium Manzoni, ore 17,30
Gustav Mahler
Sinfonia n. 2 in Do minore "Resurrezione"
Julia Grüter, soprano
Monika Bohinec: mezzosoprano
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Gea Garatti Ansini, maestro del coro
Direzione: Oksana Lyniv

Domenica, 11 febbraio 2024
Carpi, Teatro Comunale, ore 17,00
Folias & Canarios - Dall'antico al Nuovo Mondo
- Diego Ortiz: Recercadas sobra Tenores
- Anonimo (Euskal Herria): Aurtxo Txikia Negarrez
- Anonimo (Catalogna): El Testament d'Amèlia / La Filadora
- Gaspar Sanz: Jacaras & Chansons
- Pedro Guerrero: Moresca
- Anonimo: Greensleeves to a Ground
- Tradizionale di Tixtla: Improvvisazione Guaracha
- Antonio Martin y Col: Diferencias sobre las Folias
- Santiago de Murcia: Fandango (Arpa & Chitarra)
- The Lancashire Pipes: A Pointe or Preludium / The Lancashire Pipes / The Pigges of Rumsey / Kate of Bardie - A Toy
- Francisco Correa de Arauxo: Glosas sobre "Todo el mundo en general"
- Anonimo: Improvvisazione Canarios
- Antonio Valente: Improvvisazione  Gallarda napolitana / Jarabe loco
HESPERION XXI
- Xavier Diaz-Latorre, chitarra
- Andrew Lawrence-King, arpa barocca spagnola
- David Nayorai, percussioni
- Jordi Savall, viola da gamba e direzione

Domenica, 3 marzo 2024
Modena, Hangar Rosso Tiepido, ore 17,00
Edvard Grieg
- Prima Suite del "Peer Gynt" Op. 46 (1888) - Versione per pianoforte a 4 mani dell'autore
Gustav Mahler
Sinfonia n. 7 in Mi minore (1904-06) - Trascrizione di A. Casella per pianoforte a 4 mani
Alberto Miodini & Pierpaolo Maurizzi: pianoforte
Concerto organizzato dagli AMICI DELLA MUSICA DI MODENA MARIO PEDRAZZI

Sabato, 6 aprile 2024
Carpi, Teatro Comunale, ore 20,30
Johann Sebastian Bach
Passio Secundum Joannem
(nel trecentesimo della prima esecuzione: Lipsia, 7 Aprile 1724)
Sergio Foresti, Jesus
Carlo Putelli, Evangelista
Lucia Casagrande Raffi, soprano
Lucia Napoli, mezzosoprano
Roberto Manuel Zangari, tenore
Federico Benetti, basso
ACCADEMIA HERMANS
CORO DA CAMERA CANTICUM NOVUM
Fabio Ciofini, direttore

Giovedì, 18 aprile 2024
Modena, Teatro Comunale, ore 20,30
Wolfgang Amadeus Mozart
Concerto per pianoforte e orchestra n. 9 in mi bemolle maggiore, K. 277 "Jeunehomme"
Anton Bruckner
- Sinfonia n. 3 in re minore "Wagner-Symphonie"
STUTTGART PHILHARMONIC ORCHESTRA
Nareh Arghamanyan, pianoforte
Jan Willem de Vrienddirettore

Sabato, 20 aprile 2024
Modena, Hangar Rosso Tiepido, ore 20,30
Thomas. Adès (1971) - 
Court Studies from "The Tempest"
Mark-Anthony Turnage (1960) - Five Processionals
Giorgio Colombo Taccani (1961) - Acquaforte (nuova versione, prima esecuzione assoluta)
Franco Donatoni (1927-2000) - Ciglio 3, per violino e pianoforte
Carlo Boccadoro (1963) - Le Sette Stelle (esecuzione di 5 delle 7)
SENTIERI SELVAGGI
- Mirco Ghirardini, clarinetto
- Piercarlo Sacco, violino
- Aya Shimura, violoncello
- Andrea Rebaudengo, pianoforte

Mercoledì, 29 maggio 2024
Cremona, Chiesa di San Marcellino, ore 21,00
Claudio Monteverdi - Vespro della Beata Vergine
Sanctissimae Virgini missa senis vocibus ad ecclesiarum choros ac vespere pluribus decantandae cum nonnullis sacris concentibus ad sacella sive principum cubicula accomodata opera a Claudio Monteverde nuper effecta av beatiss. Paulo V pont. max. consecrata, Venezia 1610
Direzione: Ottavio Dantone
ACCADEMIA BIZANTINA - CORO GHISLIERI

Giovedì, 13 giugno 2024
Bologna, Auditorium Manzoni, ore 20,00
Richard Wagner
Das Rheingold - (L'oro del Reno)
(esecuzione in forma di concerto)
Thomas Johannes Mayer, Wotan | Liviu Holender, Donner | Wolfgang Ablinger-Sperrhacker, Loge
Claudio Otelli, Alberich | Cornel Frey, Mime | Sorin Coliban, Fasolt | Wilhelm Schwinghammer, Fafner
Atala Schöck, Frika | Sonija Saric, Freia | Paolo Antognetti, Froh | Bernadett Fodor, Erda
Yuliya Tkachenko, Woglinde | Marina Ogii, Wellgunde | Egle Wyss, Flosshilde
ORCHESTRA DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA
Oksana Lynivdirettrice

Domenica, 15 settembre 2024
Gualtieri (Reggio Emilia), Teatro Sociale, ore 17,00
Philip Glass (1937) - 
Five Metmorphosis
Ezio Bosso (1971-2020) - Diversion, Street Kisses (per violino, violoncello e pianoforte)
Carlo Boccadoro (1963) - Dopo (per flauto basso)
Steve Reich (1936) - Clapping Music (per battito di mani)
Gavin Bryars (1943) - Non la conobbe il mondo quando l'ebbe
Ludovico Einaudi (1955) - The Apple Tree
SENTIERI SELVAGGI
- Paola Fre, flauti
- Martina Di Falco, clarinetti
- Andrea Rebaudengo, pianoforte
- Andrea Dulbecco, vibrafono e percussioni
- Piercarlo Sacco, violino
- Aya Shimura, violoncello

Giovedì, 19 settembre 2024
Bologna, Auditorium Manzoni, ore 20,30
Gustav Mahler
Lieder per voce e orchestra da "Des Knaben Wunderhorn"
Anton Bruckner
Sinfonia n. 7 in mi maggiore, WAB 107 (Cahis 13)
ORCHESTRA DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA
Ian Bostridgetenore
Martijn Dendieveldirettore

Sabato, 21 settembre 2024
Sabbioneta (Mantova), Teatro all'Antica, ore 21,00
Gustav Mahler
Das Lied von der Erde
(versione cameristica di Arnold Schönberg e Rainer Riehn)
ENSEMBLE STRUMENTALE DEI CONSERVATORI "PEDROLLO" DI VICENZA E "CAMPIANI" DI MANTOVA
Laura Polverellimezzosoprano
Joseph Dahdah, tenore
Marco Tezzadirettore

Sabato, 19 ottobre 2024
Bologna, Auditorium Manzoni, ore 18,00
Richard Wagner
Die Walküre - (La Valchiria)
(esecuzione in forma di concerto)
Stuart Skelton, Siegmund | Albert Pesendorfer, Hunding | Thomas Johannes Mayer, Wotan
Sonja Saric, Sieglinde | Ewa Vesin, Brünnhilde | Atala Schöck, Fricka | Yuliya Tkachenko, Gerhilde
Lisa Wittig, Ortlinde | Egle Wyss, Waltraute | Maria Cristina Bellantuono, Schwertleite
Chantal Santon, Helmvige | Eleonora Filipponi, Siegrune | Marina Ogii, Grimgerde
Federica Giansanti, Rossweisse
ORCHESTRA DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA
Oksana Lynivdirettrice

Mercoledì, 6 novembre 2024
Bologna, Sala Prof. Marco Biagi (Via Santo Stefano, 119), ore 20,30
Wolfgang Amadeus Mozart
Quartetto in sol minore KV 478 (1785) per pianoforte, violino, viola e pianoforte
Franz Schubert
- Quintetto in la maggiore "La Trota" D.667 (1819)
ENSEMBLE
Pierpaolo Maurizzipianoforte
Emma Parmigianiviolino
Olga Arzilliviola
Lorenza Baldo, violoncello
Nicolò Zorzi, contrabbasso

Venerdì, 20 dicembre 2024
Pavia, Teatro Fraschini, ore 20,00
Wolfgang Amadeus Mozart
Così fan  tutte, ossia la scuola degli amanti
Katarina Radovanovic, Fiordiligi
Mara Gaudenzi, Dorabella
Davide Peroni, Guglielmo
Cristin Arsenova, Despina
Pietro Adaini, Ferrando
Matteo Torcaso, Don Alfonso
Regia: Mario Martone
Ripresa da: Raffaele Di Florio
CORO OPERALOMBARDIA
ORCHESTRA I POMERIGGI MUSICALI
Jacopo BRUSA, direttore
(sostituto di Federico Maria Sardelli impossibilitato)




mercoledì, dicembre 11, 2024

Punti di vista sulla chitarra

Abbiamo chiesto ad alcuni musici­sti, compositori, interpreti, critici e musicologi, tutti non chitarristi, di darci un parere sulla chitarra. Ci sembra interessante riportare, integralmente o parzialmente, le loro risposte, che aiuteranno a com­prendere con maggior obiettività quale collocazione possa avere questo strumento nella vita musi­cale d'oggi.

Franco Donatoni - Avere scritto due pezzi per chi­tarra sola non significa certamente avere qualcosa da dire intorno alla chitarra; significa, tutt'al più, avere la possibilità di testimonia­re la granitica resistenza, l'asperi­tà impervia che lo strumento op­pone all'ideazione quando l'ideatore non sia provvisto di una fisiologia chitarristica che lo assi­sta sin dalla punta delle falangi. Non si tratta di frustrazione, ma di inadeguatezza: il pensiero chie­de alle dita il consenso, ma spes­so le dita ostacolano il pensiero. Non che si voglia chiedere al chi­tarrista d'esser compositore, si vorrebbe invece che il compositore chitarristico fosse chitarrista: proprio per non esser costretto ad adorare la digitalità ma, piuttosto, utilizzarla in amicizia col pensiero. Non posso dire che questo avvenga facilmente, basti che la simpatia desti, se non una improbabile amicizia improvvisata, la propensione a rendere arrendevole l'ideazione e disponibi­le il pensiero a modalità di com­portamento inusitate. Se pensare una pratica dalla quale si è esclusi può essere scoraggiante, ancor più lo sarebbe escludere la possi­bilità di praticare un pensiero mai prima d'ora pensato. Anche la chitarra può servire a questo: essere lo strumento di un esercizio.

Riccardo Malipiero - Ho ascoltato per la prima volta, pochi giorni or sono, una mia composizione per chitarra sola.
Non avevo mai scritto, prima, per questo strumento (solo) e l'ho fatto dopo anni di titubanza. Ora che l’ho sentito non mi dispiace d'averlo scritto: ho aggiunto un'e­sperienza alla mia vita di compo­sitore.
Ma vorrei rispondere a due do­mande che mi pongo: perché ho aspettato tanto a scrivere questo lavoro? e perché oggi la chitarra è ritornata trionfalmente nel con­sesso degli strumenti musicali, mentre fino a qualche anno fa era guardata come una rarità e anche con qualche sospetto?
Forse, rispondendo alla seconda domanda, rispondo automaticamente alla prima: tralascio le ri­sposte più ovvie (e spesso banali) per andare un poco più lontano.
La chitarra rappresenta un ritorno e per ciò stesso entra nella nostra civiltà (si fa per dire!) di oggi, genericamente miscredente e tendente chiaramente ai "ritorni", alla ricerca di sicurezze: dall'erboristeria alla così detta musica ba­rocca (che barocca non è, ma che definisco così per brevità), dalla marce più o meno lunghe al ballo liscio e così via. Si ritorna così alla chitarra perché il suo suono è qualcosa di non sofisticato, per­ché è uno strumento più naturale (certo più degli strumenti elettronici, ma anche dello stesso violi­no che sembra - ho detto sembra - aver esaurito le sue possibilità tecniche ed espressive). È forse così anche per il flauto che pure ha avuto una rinascita clamorosa. 
Si ritorna alla chitarra perché con essa ci si può rincantucciare e stare soli; io credo che il problema dell'incomunicabilità non sia un problema passivo: io non pos­so comunicare perché non so, non mi riesce di comunicare, ma attivo: non voglio comunicare per­ché mi sono annoiato di comuni­care, perché comunicare è azione per pochi, tutto il resto son parole, parole, parole e basta. Si gira intorno agli stessi argomenti, sempre, e non se ne esce fin tan­to che qualcuno non ha veramente qualcosa da comunicare. Ma è raro.
Anche in musica, si dicono parole parole parole, spesso addirittura fonemi, ma in sostanza è sempre più difficile che qualcuno dica qualcosa. Anche perché molti si domandano che cosa si può dire ormai con un pianoforte; sembra proprio che tutto sia stato detto: i "cioè", gli "a monte", le "verifiche situazionali" e tutte le altre espressioni tanto in uso (e abuso) oggi, sono il corrispettivo dell'impossibilità di scrivere una scala, un arpeggio per pianoforte. E al­lora, in questa generale difficoltà e non volontà di comunicare, uno si prende la chitarra e si racconta una storia che può essere nuova: nuova perché dimenticata (tutta la musica riportata alla luce in questi anni), nuova perché suona nuova.
Può darsi che anche in musica si abbia, un giorno più o meno lon­tano, un riflusso: c'era una volta la musica per pochi, oggi si tende alla musica per tutti. Il sogno ro­mantico della musica per le folle, si sta inverando oggi (cosa ci sia, quale struttura psico-culturale supporti ciò, non è il caso di ana­lizzare qui; non era nemmeno fa­cile capire il perché di quei "pipers", sferisteri, coreostadi o come altro si chiamassero, in cui turbe di giovani ballavano senza sosta al suono assordante e allu­cinante di "orchestre" elettroni­che o elettronificate); non è escluso che il riflusso riporti alla musica fatta da sé. Certo, perché no, il fatelo da voi in musica è la cosa più soddisfacente che ci sia anche se riesce a suonare soltan­to Per Elisa, anche se si riesce a pizzicare una sola corda e lasciarla vibrare. La chitarra offre questa introversione, questa introspezione. Può essere l'inizio d'un riflus­so (non s'illuda il lettore profano: pizzicare una corda è facile; suo­nare la chitarra è difficile). 
Insomma, la chitarra, il suo suc­cesso, può spiegarsi in tanti modi, non necessariamente bana­li.
Innegabilmente, per me, è stata un'esperienza nuova: non mi sono posto problemi estetici o che altro. Ho scritto un pezzo per chitarra invece che per pianofor­te. Voglio dire, in modo diverso. Sembra un discorso ovvio. Non lo è poi molto: perché ho usato la chitarra nel modo più convenzio­nale. Credo ancora nella possibili­tà di comunicare, per cui ho tentato un discorso con uno strumento a corde pizzicate e niente più. Certo che così, quel discorso potrà interessare solo dieci per­sone, magari meno. Fors'anche un solo viandante, non necessa­riamente in sandali e jeans sdruciti; un viandante dello spirito, un viandante della vita insomma, magari anche in abito scuro, o nudo, che si rifugi in un angolo, un momento, a suonare quel mio pezzo.
Che nasce, curiosamente, ma senza malizia, sullo spunto della tradizionale Follia (preferirei scri­vere folia, con una elle sola, come in origine era, ma avendo usato in altra occasione questo termine, rabbrividisco ogni volta che lo sento pronunciare con l'accento sulla o, come se derivasse da folium e non dal portoghese che indicava una danza sempli­cemente stravagante, non mat­ta...!); ma che, magari inconscia­mente, invece, da parte mia, dato il frequente ripetersi dello spunto melodico (magari distorto) e rit­mico, quindi come un ragiona­mento a mordicoda, sia stato un manifestarsi tranquillo di follia dentrofuoritempo?
Ho divagato dal tema.
Chissà...

Fernando Grillo - Quando iniziai a concepire un'o­pera per chitarra nacque in me una perplessità al riguardo del temperamento dello strumento, e risolsi quindi di utilizzare l'ambito sonoro degli armonici naturali procurando una diversa accorda­tura, la qual cosa mi ha permesso di donare una varietà timbrica, e con un assai soddisfacente risul­tato, al corpo sonoro dello stru­mento.
L'attacco del suono principale del Pizzicato acquista inoltre un rilie­vo tutto diverso in virtù della mi­gliore tenuta del suono nel tem­po. È nata così "Das Mädchen und der Zauber" (La Fanciulla e l'Incanto) che vuole essere un omaggio a questo strumento, delicato e incantevole.
L'occasione mi fornisce ora di avanzare un'ipotesi di miglioramento: i Maestri liutai potrebbero preparare una tastiera senza le barrette di posizione al fine di rendere muta l'intavolatura delle altezze, e ampliare così notevol­mente le possibilità tecniche di articolazione e di interpretazione delle chitarre?

Bruno Bettinelli- L'interesse che molti compositori contemporanei manifestano per la chitarra ha ormai raggiunto un livello veramente notevole. Quasi tutti scrivono per questo nobilis­simo strumento che offre molte risorse d'ogni genere a chi desi­deri farlo uscire da certi limiti stereotipi entro i quali era stato da tempo ingiustamente relegato. Fino a ieri, infatti, la chitarra era sinonimo quasi esclusivo di "colore locale" iberico o, per esten­sione, sud americano. Se si eccettua la letteratura di derivazione liutistica, o quella del '700 e del primo '800, culminata con Paganini e pochi altri, la musica per questo strumento era ormai quasi sempre costretta nell'ambi­to di una accesa espressione a tinte forti o languide, tipicamente "mediterranee". Si era in tal modo creato una sorta di sche­matismo, non privo di valori autentici e spesso assai piacevoli, ma ormai in via di deterioramento per eccesso di formule sconta­te.
Il compositore d'oggi, di conse­guenza, ricerca ulteriori possibili­tà tecniche e timbriche intese ad estendere sempre più il raggio d'azione di risorse adatte alle nuove esigenze del linguaggio at­tuale. Tale ricerca, tuttora in fase di continuo sviluppo, sta dimostrandosi sempre più fruttuosa e ricca di risultati sorprendenti.
La chitarra, dunque, è diventata prezioso ausilio per il musicista che intenda trattarla come stru­mento solista o incluso in quei gruppi misti che vanno animando sempre più vigorosamente l'atti­vità concertistica da camera in tutto il mondo.

Giovanni Arledler - Osservando l'inesperto impugna­re maldestramente, ma con circo­spezione, una chitarra, tentare la melodia sulla corda acuta tra continue rettifiche di accordatura, si ha spesso l'ingenua impressio­ne di veder riscoprire la musica: dalla suggestione armonica di un corpo posto in vibrazione all'imi­tazione spontanea del linguaggio, alla liberazione del canto.
Se le riflessioni dei teoreti non ci fanno rinsavire, possiamo seguire lo sviluppo dello strumento primi­tivo e dell'arte dei suoni con l'ag­giunta di una seconda, di una ter­za corda che soddisfino esigenze espressive e certa insopprimibile ansia virtuosistica, dettata da urgenze d'imitazione ed emulazio­ne. Il numero delle corde, a chi si appaga della meta di strimpellatore e modesto accompagnatore, può risultare imbarazzante, ma quando si ha l'entusiasmo per andare oltre può essere ulteriore stimolo alla fantasia, che arricchi­sce il linguaggio musicale con al­tre voci, con altre armonie.
La conquista totale di uno stru­mento, nelle fasi che si possono intuire, intravedere, aggiunge alla storia della musica almeno qual­che modestissimo contributo per quel che riguarda la tecnica e lo stile del suonare, l'accrescimento di un repertorio di composizioni create, scoperte, reinventate, adattate.
Non saprei dire se la prima melo­dia strappata al cantino sia un motivo originale o canzonettistico, popolare o classico. La men­talità attuale, insita come falsa coscienza anche nei principianti, tende alla delimitazione di tipi e generi musicali, creando esigenze che finiscono con l'imporre caratteristiche precise agli strumenti: abbiamo così la chitarra classica, la chitarra jazz, la chitarra folk, tacendo di quelle elettrificate ed elettroniche, in un'infinità di mo­delli che rispondono per lo più a mere esigenze di mercato. Co­munque è vero che quando oggi si parla di chitarra si può guarda­re, volendo, ad una realtà abba­stanza vasta, che comprende Se­govia e Yepes, i Genesis e gli ELP, Giovanna Marini e Otello Profazio, Leadbelly e Woody Guthrie, fino a scomodare suona­tori e virtuosi di veri e presunti strumenti affini, quali il banjo, il charango, il sytar.
L'esperienza personale poi, pur orientandosi attraverso precise motivazioni culturali e di gusto, si accresce maggiormente in am­bienti e situazioni (liturghiche comprese) dove spesso ciò che più conta è il segnale d'inizio, il sostegno di un canto che magari avrebbe un effetto migliore affi­dato alle sole voci, la scansione ritmica di una danza, il grido di protesta, il baccano incondiziona­to.
Non credo di dover deprecare lo scadimento di un nobile strumen­to o lamentare il contributo pagato dalla chitarra per quella sua estrema disponibilità ad animare lo spazio sonoro che si illustrava all'inizio. Piaccia o meno, è anche questo grosso ruolo sociale e socializzante che spinge qualche ascoltatore in più nei concerti "dotti", salvo rare eccezioni abbastanza disertati dal vasto pubblico.
La complessa realtà attuale pesa a volte in modo paralizzante su interpreti, compositori, critici e musicologi, ma la soluzione non sta in impossibili sintesi di pen­siero e di creazione quanto in un­'etica riappropriazione di compiti, che consente la fiducia e la con­vinzione nell'operare, quale che sia il valore e la portata delle pro­poste avanzate.

Luis de Pablo - E' difficile per un compositore spagnolo parlare con tranquillità della chitarra: è uno strumento troppo contraddittorio. In vaste zone del paese rappresenta per eccellenza il veicolo popolare del­la musica, e ciò significa che il suo uso ed abuso ha una serie di connotazioni inevitabili. Attraverso questa strada, ad esempio, la chitarra è entrata nella canzone di protesta. D'altro canto, esiste la tradizione colta, con i santi pa­troni della vihuela in qualità di celestiali avvocati... Si aggiunga a ciò la chitarra centroeuropea da salon, che ha prodotto la insperata resurrezione viennese al princi­pio del secolo, con le sue conse­guenze, e si avrà un'idea dei po­teri di assimilazione e digestione necessari per ottenere qualcosa di equilibrato attraverso simili differenti linguaggi: una chitarra acrobata capace di passare dalla "soléa" a Luis Milan, dalla "cueca" a Gustav Mahler, da Gaspar Sanz alle alchimie weberniane, da Heitor Villa Lobos a un famoso sonetto di Petrarca e a un non meno famoso testo di René Char... Si potrà provare questo comune luogo sognato dove, al­meno temporalmente, tutte que­ste apocalittiche "molte voci" sa­ranno non un dialogo di sordi, ma una polifonia organica?
A mio giudizio, questo "desideratum" deve ancora nascere, però, se nel passato esiste un nome che si deve salvare dall'incendio, esso è quello di Fernando Sor (o Sors, così come in ambo i modi egli lo scriveva). La chitarra di Sor si trova equidistante nella tradizione strumentale così come egli la ricevette; dall'inevitabile eredità popolare, da lui soavizzata a causa della sua origine catalana - in Catalogna la chitarra non è protagonista fra il popolo, ma è inclusa tra questo e le classi "colte" (insopportabile terminolo­gia) poiché qui non esiste la divergenza o antagonismo di lin­guaggio presente nelle altre re­gioni di Spagna dall'idioma musicale presente nel suo tempo; dalla ricerca specificamente stru­mentale, tanto tipica della sua epoca... Mi piacerebbe poter dire che qualcuno di noi è stato oggi capace di ripetere questa impre­sa. In attesa di tale giorno dicia­mo con Cervantes: "Pazienza e fai passare il tempo".

Luciano Chailly - Da parte mia non occorrono mol­te parole, perché ho dato prova coi fatti di amare la chitarra. Come autore, avendo composto lavori per chitarra ed avendola in­ inclusa in composizioni liriche e sinfoniche, e come operatore culturale, avendo organizzato all'Angelicum nel 1975 un ciclo per tale strumento, in una panorami­ca temporale ed etnica che ne metteva in vista tutte le possibilità espressive mercè l'interpreta­zione di chitarristi quali Chiesa, Ghiglia, Ponce, Oltremari, Gilardino, Minella, Sicca, Saldarelli, il duo Ako Ito - Dorigny, il trio chitarristico italiano, ecc.
Se debbo aggiungere, come au­tore, una parola sul mio "modo" od il mio indirizzo di impiego di tale strumento dirò che prediligo l'omofonia sulla polifonia, i suoni distesi e puliti nello spazio, filiformi, piuttosto che le grandi archi­tetture polivoche, quali invece corrisposero allo spirito del ba­rocco.
So che ci sono chitarristi che non sono d'accordo su tale punto, ri­tenendo la chitarra uno strumen­to in ogni caso polifonico. Tra questi Alirio Diaz, il quale, quando diteggiò la mia Sonata per chi­tarra, mi fece sapere attraverso l'editore, delicatamente, che, escluso il Notturno assai denso di armonie, sarebbe stato bene che "arricchissi" gli altri tempi. Cosa che non riuscii a fare, nonostante l'autorità dell'interprete, e se cito questo fatto personale è proprio perché così si viene a profilare, a conclusione del breve intervento, ciò che in sede espressiva, specie nel caso di strumenti solistici (chitarra compresa), io temo più di tutto, ossia il pericolo del trucco apocrifo e della supremazia tecnologica.

Francesco Pennisi - Il mio è un interesse precisamen­te rivolto al timbro e al suono che, rivelato, rapidamente svani­sce: "toccato appena e spento, nel torpore ch'esala". Ritrovo quindi insieme, in questo interes­se, gli strumenti a pizzico. Del suono di questi strumenti (e in questo caso particolarmente della chitarra) forse mi attrae anche la esilità, il suo esigere un silenzio di fondo, una rispettosa attenzione. Potrei anche dire che, come nel mondo visivo da qualche tempo la mia predilezione si è spostata ai colori freddi, così la "freddez­za" dei timbri mi attrae sempre più. Se sento l'arpa "calda" e il clavicembalo decisamente "fred­do", mi pare che il timbro della chitarra si riveli in una "escursione termica" ampia, ambigua e quindi accattivante o respingente: questo certamente contribuisce ad affascinarmi.

Carlo Prosperi - Penso che la chitarra sia lo stru­mento "nuovo" e più d'ogni altro "rivelato" dalla cultura musicale del nostro tempo.
E' vero che il novecento ha riproposto all'attenzione altri pregevolissimi strumenti come il clavicembalo e l'organo, ha introdotto l'uso del vibrafono e della marimba, ha sviluppato il timbro della percussione e via dicendo. Ma in questi casi si è trattato: o di recuperare una letteratura solistica prestigiosa trascurata dal secolo precedente, oppure d'inserire inusati timbri e colori nel tessuto orchestrale.
Per la chitarra è diverso. Questo strumento finora usato, almeno da noi in Italia, come sottofondo al folklore, rappresenta l'autentica scoperta del secolo, assumendo un proprio ruolo da protagonista e inserendosi con precisa perso­nalità nel mondo del concertismo.
Sulla nascita della chitarra in Ita­lia non va taciuto il merito dei maestri Alvaro Company e Rug­gero Chiesa che furono i primi fondatori delle scuole di Firenze e di Milano e i primi ricercatori del repertorio appropriato, Company quali animatore e suggeritore del­la moderna letteratura. Chiesa come accurato revisore di musi­che del passato.
Ritengo la chitarra, col suo timbro tenero e splendente, con la sua duttilità armonica e polifoni­ca, uno strumento "intimista" per eccellenza, ancora ormeggiato al gusto del "privato" e al senso in­teriore dell'espressione.

Francesco Bussi - "Non mi sono mai occupato a fondo di chitarra e di chitarristica. Ma da quando mi è dato di cap­tare in qualità di ascoltatore ani­mato da un sincero interesse, mi pare che la chitarra sia oggi, se non la protagonista assoluta cer­to una delle maggiori interpreti dell'anima musicale, soprattutto, giovanile. Lo dicono - oltre allo stuolo di dilettanti più o meno provveduti, oltre alla penetrazione 'mondana'', non so fino a che punto accettabile, dello strumento entro i sacri recinti - la massiccia presenza di alunni di chi­tarra nei nostri conservatori, tale da muovere seria concorrenza alla legione degli aspiranti piani­sti, e il numero crescente di con­certisti generalmente validi e ag­guerriti; lo confermano e convali­dano l'affinarsi della precettistica e lo scrupolo filologico nel riesu­mare l'antico repertorio strumen­tale.
Chitarra, certo, purché non si tra­scenda sull'onda facile e cattivante della moda; chitarra come testimonianza di una rinsaldata coscienza culturale, come espres­sione di felice reviviscenza neou­manistica, come ritorno all'antico - quell'attuale ritorno all'antico che ha avuto l'alfiere nel clavi­cembalo - e insieme, in ultima analisi, anelito a rintracciare nel suono vivo e palpitante di un glo­rioso strumento vecchio di secoli le mitiche vie di un paradiso perduto".
da "I quaderni di Settembre Musica", 1978
(a cura di Roberto Chiesa)

domenica, dicembre 01, 2024

Giovanni Salviucci

Naxos 8.574049 (p) 2019
Giovanni Salviucci (1907–1937)
- Serenata per 9 strumenti
- Salmo di David
- Quartetto per archi in do maggiore
- Pezzi per violino e pianoforte
- Pensiero nostalgico
- Sinfonia da camera per 17 strumenti

Nel periodo fra le due guerre, tre compositori italiani furono unanimemente riconosciuti dalla critica come i più dotati: Luigi Dallapiccola e Goffredo Petrassi, entrambi nati nel 1904, e Giovanni Salviucci, nato a Roma nel 1907. La sorte riservò loro un ruolo scomodissimo: divenire adulti e protagonisti della nuova musica italiana proprio quando le idee di “nuovo” e di “avanguardia” venivano ipotecate dalla dittatura fascista, per cui era impossibile affermarsi stabilmente sulla scena musicale senza godere dell’appoggio del regime.
Dallapiccola e Petrassi ebbero modo di superare e “rielaborare” nella loro maturità i drammatici anni della dittatura e della guerra, imponendosi come figure eminenti del Novecento italiano. Questa opportunità fu negata a Giovanni Salviucci che nel 1937, neppure trentenne, fu stroncato da una meningite tubercolare. Sebbene agli occhi dei tradizionalisti il suo uso della tonalità e del contrappunto apparisse fin troppo modernista, Salviucci non poteva certo definirsi un compositore d’avanguardia. La sua scomparsa lo condannò, quindi, allo stesso destino dei numerosi compositori che nel secondo dopoguerra scomparvero per lunghi anni dalla memoria. Si trattava di quegli autori, in genere progressisti, ma rimasti legati alla tonalità, i quali, dopo la persecuzione da parte del regime per ragioni razziali, politiche o estetiche, furono archiviati frettolosamente dalla successiva narrazione, interessata quasi esclusivamente agli sviluppi e alle implicazioni dell’atonalismo e della serialità.
La famiglia Salviucci non aveva tradizioni musicali, ma era fortemente legata agli ambienti clericali della capitale. Fu così che il piccolo Giovanni studiò musica privatamente con Ernesto Boezi, direttore della Cappella Giulia in San Pietro e grande studioso di Palestrina, che gli trasmise un’eccezionale padronanza e sensibilità contrappuntistica, rimasta poi la sua cifra stilistica distintiva. Fu un periodo di formazione che, inizialmente, tenne il giovane Salviucci distante dai rivolgimenti musicali del nuovo secolo. Conseguito il diploma di composizione nel 1931, Salviucci si iscrisse al corso di perfezionamento tenuto da Respighi all’Accademia di Santa Cecilia. Altrettanto decisivo fu però l’incontro con Iditta Parpagliolo, anch’essa compositrice e allieva di Respighi, che divenne poi sua moglie e lo introdusse nell’ambiente della nuova musica, facendogli conoscere, fra gli altri, Alfredo Casella e Goffredo Petrassi.
La carriera di Salviucci decolla a partire dal 1932, con alcune pagine orchestrali accolte in Italia e all’estero da un successo crescente* , al cui vertice si può collocare forse Introduzione, Passacaglia e Finale (1934). La scomparsa improvvisa gli impedì purtroppo di ascoltare le sue ultime due composizioni, considerate da critici quali fedele D’Amico e altri, i suoi capolavori: Alcesti. Episodio per coro e orchestra e Serenata per 9 strumenti. Alla sua morte, Salviucci lasciò anche tre figli, fra cui una bimba di nove mesi, Giovanna che, col nome di Giovanna Marini è oggi famosa in Italia e all’estero come folksinger e compositrice, e grazie alla quale è stato possibile realizzare queste registrazioni.
Questo disco raccoglie tutte le pagine cameristiche pubblicate da Salviucci a partire dal 1930, più un sorprendente Quartetto per archi, composto nel 1932 e rimasto inedito. In buona parte si tratta di prime registrazioni discografiche.
I Pezzi per violino e pianoforte, pubblicati nel 1930, appartengono ancora al periodo giovanile del compositore. Sono sei brevi pagine di destinazione liturgica nelle quali la religiosità cattolico-romana dell’ambiente famigliare e il severo insegnamento di Ernesto Boezi, si coniugano in una scrittura sobria ed espressivamente misurata, ma padrona di un contrappunto che già sgorga con suadente naturalezza. Il clima è prevalentemente elegiaco, con significativi momenti di tenerezza e di abbandono melodico (n. 2 Elegia; n. 3 Preghiera; n. 5 Meditatione), nei quali sembra già di intravedere il tratto distintivo di Salviucci precocemente intuito da Gianfrancesco Malipiero e sottolineato poi da Fedele D’Amico: una nativa attitudine espressiva, tenuta a freno inizialmente da una disciplina contrappuntistica e formale che, via via, si trasforma e, da freno, si emancipa in potente veicolo di quell’innata vocazione espressiva.
Dal medesimo clima emotivo dei sei Pezzi scaturisce anche Pensiero nostalgico. Adagio per violoncello (o violino) e pianoforte, pubblicato nel 1931: un breve Charakterstück dagli echi tardo ottocenteschi, animato da una generosa e vibrante melodia.
Procedendo cronologicamente, si arriva all’anno cruciale, il 1932 nel quale viene alla luce il Quartetto per archi in Do maggiore: composizione enigmatica in quanto la sua ricchezza e la sua forza lasciano senza risposta l’interrogativo del perché non sia mai stato pubblicato. L’Allegro moderato di apertura, così come il terzo e ultimo movimento, Allegro vivace, sfoderano uno slancio ritmico che risente indubbiamente di quell’andatura martellante tanto enfatizzata nella produzione musicale italiana del ventennio fascista. Ma Salviucci se ne appropria in modo personalissimo, con quel suo contrappunto che si sottrae a ogni stereotipo e si piega ad articolazioni estremamente mobili e ricche di suggestioni imprevedibili. A volte, negli unisoni potenti o in certe timbriche acute del violino, traspare qualche traccia di Respighi, estranea però a qualsiasi suggestione di arcaismo, a conferma di come il tirocinio palestriniano si fosse totalmente emancipato in liberissimo strumento creativo. Il cuore del quartetto è l’Adagio molto, pagina di straordinaria carica emotiva, aperta da una luminosa infiorescenza contrappuntistica il cui respiro la distacca dalla coeva produzione quartettistica dei connazionali. In un appassionato susseguirsi di densità cromatiche, accensioni brucianti, abbandoni estatici, questo Adagio si impone come un autentico gioiello della musica italiana di quegli anni.
Nella produzione giovanile di Salviucci i brani di ispirazione religiosa o liturgica, non solo vocali, come si è visto, hanno una parte rilevante. Il congedo da questo genere di musica è una pagina del 1933, il Salmo di David per canto e pianoforte, trascritto anche in versione per voce e orchestra da camera. La scrittura è di estremo interesse, poiché il suggestivo involucro modale e arcaicizzante racchiude una chiara polarizzazione melodico-armonica attorno alle note Mib, Fa#, La, Do. È un tratto che rivela qualche familiarità con certe esperienze europee di quegli anni, incentrate sull’organizzazione ottatonica (ad es. Ravel) e che forse risente del vivace dibattito sul linguaggio musicale che proprio in quel periodo si era sviluppato anche in Italia.
Sinfonia da camera per 17 strumenti (1933) e Serenata per 9 strumenti (1937) sono certamente fra le pagine più riuscite del compositore. Per architettura e stilemi si possono entrambe ricondurre all’orizzonte del neoclassicismo, ma la personalità e la fantasia di Salviucci evitano i luoghi comuni di genere o di tendenza, con uno stile che ha qualcosa di narrativo nel susseguirsi sapiente di idee e di contrasti spiazzanti. In entrambi i casi, l’organico intermedio fra camera e orchestra consente al compositore di sviluppare pienamente la dialettica, o competizione se si vuole, fra i due poli della sua ispirazione; la passione per l’intreccio polifonico da un lato e la vocazione melodica dall’altro. Sinfonia da Camera, creata a Roma nel 1934, sotto la direzione di Casella, si articola in quattro movimenti ed è scritta per flauto, oboe, clarinetto, fagotto, tromba, corno, 6 violini, 2 viole, 2 violoncelli e contrabbasso. Già nel brano di apertura, Allegro, memore forse del Concerto per archi op. 40 di Casella, certa pulsazione omoritmica neobarocca, tipica del compositore torinese, si ramifica in una trama ritmica e coloristica assai più agile e raffinata, ricca di episodi solistici e, soprattutto, di una luminosità che pervade l’intera composizione, dalla tenera eufonia dell’Adagio, alla vivacità dialogante dei legni nell’Allegretto vivace, fino all’elettrizzante contrappunto ritmico dell’Allegro conclusivo.
Serenata, scritta per flauto, oboe, clarinetto, fagotto, tromba e quartetto d’archi, è dedicata al direttore d’orchestra Nino Sanzogno. Rispetto alla serenità di Sinfonia, qui, l’intreccio dei contrappunti, i cromatismi, le entrate motiviche a sorpresa disegnano un tessuto più audace e inquieto. È l’ultimo Salviucci. I contemporanei che ascoltarono la prima esecuzione, diretta dallo stesso Sanzogno, al Festival di Venezia l’8 settembre 1937, quattro giorni dopo la morte del compositore, furono concordi nel percepire la sovrana originalità raggiunta dal compositore. Una sorta, per così dire, di “nuovo Malipiero”, irriducibile a qualsiasi etichetta, proiettato verso un futuro che purtroppo non ci fu. I movimenti sono tre. L’Allegro molto ha qualcosa di febbrile (D’Amico), dominato da una scrittura contrappuntistica torrenziale e costellato da contrasti improvvisi. Nel secondo movimento, Canzone (Andantino), intessuto delle sognanti filigrane solistiche di oboe, violino, fagotto, violoncello, ritroviamo la magia del Salviucci più lirico. L’Allegro conclusivo suona come il paradigma anticonformista di un contrappunto divenuto sismografo della sensibilità individuale, libero di aggirarsi disinvoltamente fra tonalità e cromatismi, ora ritmicamente scalpitante, ora teneramente cantabile.
Non sapremo mai quanto l’italianissimo Salviucci conoscesse della musica europea del proprio tempo, ma nell’aria che qui si respira ci sono aromi che vengono sicuramente da oltralpe.
Giordano Montecchi
* Tutti i lavori orchestrali di Salviucci furono eseguiti per la prima volta al Teatro Augusteo di Roma, che fu demolito nel 1936 per ordine di Mussolini.

giovedì, novembre 21, 2024

Alessandro Zignani: l'Epilogo

Il Preglhof è coperto di rampicanti. Chi lo ha comprato non ama la pietra, e aspetta che la struttura si sgretoli per non doverla abbattere. In Carinzia ristrutturare un rudere costa di più che costruire un nuovo edificio. Prima di rifugiarmi a Mittersill, sono voluto venire qui un'ultima volta. Mio padre vendette questa gigantesca tenuta, sorta di feudo della natura nel tempo terrestre, quando comprese che non mi sarei dedicato alla sua amministrazione. Me ne venne una rendita, da me dilapidata nell'unico bene voluttuario che mi sono mai concesso: tempo per comporre.
Ora che i bombardamenti hanno raggiunto anche casa mia, Maria Enzersdorf, la “Universal” ha smesso di commissionarmi riduzioni pianistiche di artisti protetti dal regime: tutte partiture gigantesche, e scritte con l'idea che l'eternità aleggiasse nell'inchiostro della penna. Un paio di compositori hanno riscritto le loro partiture partendo dai miei arrangiamenti, ma era una trappola: scrivere a regola d'arte non paga.
Ma dicevo di Preglhof. Vi ho passato infanzia e adolescenza, e anche quando la carriera di direttore d'orchestra mi rendeva estraneo a me stesso, ogni singolo suo paesaggio diveniva, in me, un episodio della partitura. Per esempio, una frase rabbiosa dei violoncelli era la cascatella di acqua gelida presso il fiume; un Corale a note lunghe degli ottoni era la Via Crucis con le statue di legno sul sentiero che i Gesuiti hanno lasciato ai margini della tenuta. Mi piaceva pensare, nei tempi grami, che Preglhof vegliasse su di me, così che le orchestre non mi facessero male.
L'ultima stagione che vide mia madre viva, fu al Preglhof. Morì per una crisi ipoglicemica che tutti noi aspettavamo, e che nessuno previde. L'amore di una madre non assomiglia a nessun altro, e non può venire rimpiazzato.
Nel Quartetto n. 2 per archi del mio maestro, Arnold Schönberg, una voce intona versi che mi parvero un oracolo per il mio lutto ingovernabile: 
..Nella tua casa ritorno, Signore
Lungo fu il viaggio, affrante sono le membra
Vuoti gli scrigni, piena la pena
...Debole è il mio respiro che evoca il sogno
..Nel cuore braci ardono ancora
Nel fondo più oscuro ancora veglia un grido
Stermina la brama, chiudi la ferita
Estingui in me l'amore, dammi la pace.
Non ricordo tutti i versi di questa poesia di Stefan George, tratta dalla sua raccolta Il settimo anello: solo quelli dove il poeta parla di me. George aveva raccolto intorno a sé una Comune esoterica cresciuta intorno al culto di Goethe: la sua teoria che la luce, le piante e le rocce siano tutte manifestazioni dell'anima, specchio del dio vivente. So che sul lago di Silvaplana è nata una Comune simile a quella di George. Erwin Reisen, un allievo di Schönberg, vi andò in visita.
Questo Quartetto n. 2 esprime un momento catastrofico nell'esistenza di Schönberg. La moglie lo lasciò per un giovane pittore amico di famiglia, e il Maestro ebbe l'unico crollo creativo della sua vita. Lei, poi, tornò, e il suo amante, per questo, si tolse la vita. Fui io a convincerla, richiamandola ai suoi doveri verso il genio. Schönberg non apparteneva a lei, ma all'umanità, e del suo collasso creativo i posteri le avrebbero chiesto ragione. Quando il ragazzo, il pittore, si uccise, mi sentii responsabile. Questo, e la morte di mia madre, fecero sì a Schönberg mi legassi per la vita, e non potessi più stare senza di lui.
La morte di mia madre mi faceva sentire responsabile dei mali del mondo. Quando morì, io non c'ero. Ero sul massiccio di Rax, perso nell'aurora nascente, dopo una nottata in alta quota.
Alla prima esecuzione del Quartetto n. 2 di Schönberg, il pubblico fu preso da un accesso di risa. Li divertiva il fatto che il compositore vi avesse introdotto una canzoncina infantile, Du lieber Augustin, dove si parla del “povero Agostino”, che si mette nei guai fino a perdere ogni cosa, anche la speranza.
Quella gente rideva di me, orfano e gettato nel fiume della vita senza più una guida. Il sarcasmo di Schönbergera diventato, per me, il ghigno di un mondo ostile.
Le persone lodano le opere d'arte che li fanno sentire migliori, non quelle che ritraggono la loro sofferenza in chiave grottesca.
Wilhelmine, non ancora mia moglie, mi scrisse il mio amore non può rimpiazzare nel tuo cuore quello che provi per tua madre, ma ti può aiutare a creare una vita di bellezza.
Lei accettò di vivere all'ombra di mia madre, da ispiratrice delle molte opere che avrei dedicato alla sua memoria. Il suo amore era assoluto; il mio, il riflesso di un altro amore.
Quando ottenni la laurea in Musicologia, a Vienna, mia madre ed io facemmo un viaggio. La mia tesi su Heinrich Isaac, un compositore fiammingo del Quattrocento capace di rendere la musica una mappa di rotte astrali, un'immagine sonora del cosmo, era appena stata pubblicata.
Un von Webern poteva fare il musicista solo a patto che fosse laureato. Meritavo un premio. Mia madre mi portò in Engadina. Conoscendo la mia passione per il pittore Giovanni Segantini, che avevo scoperto a Monaco durante un viaggio in Baviera, mi condusse fin sul Ghiacciaio del Forno, a Maloja. nei luoghi cari al sofferto simbolismo dell'artista. Lassù trenta profondi laghetti, detti “marmitte”, incidono la roccia a coltello come uno sfregio del tempo. Mia madre si fermò davanti ad uno di questi. Il suo respiro era affannoso. ma non per la salita. Quel posto, sentivo, era qualcosa che lei sapeva di dover per sempre evitare, non fosse stato per me.
Il cielo era diafano per l'attesa del sole, da ore ricoverato dietro una coltre di nuvole bianche come il silenzio di chi non ha nulla più da attendere: tale era, ora, il silenzio di mia madre. E "questo laghetto" cominciò a dire, "compare nel quadro La Vanità. Tu non puoi averlo visto, perché non è esposto a Monaco. Il quadro rappresenta una ragazza nuda che si contempla nello specchio dell'acqua, e accanto a lei i rododendri fioriscono di rosso. I rododendri sono il simbolo dell'amore ricambiato, il cuore segreto della passione. Un drago sorveglia la figura assorta nella propria bellezza, e pare un angelo che voglia ammonirla e difenderla. La modella del quadro era l'amante del pittore, e dopo la sua morte improvvisa impazzì".
Non sapevo perché, ma quel modo così semplice di raccontare mi riempiva di paura.
Si alzò il vento, spostando le nuvole dal sole. Ora ombre veloci intorbidavano l'acqua, e il laghetto sembrava l'orbita dell'occhio di un ciclope.
«Quella modella. prima che venisse quassù a cercare le radici del suo rododendro. io la conoscevo. Studiava pianoforte al Conservatorio di Vienna, nella stessa mia classe. Disperata, in procinto di andare a Maloja, mi raccontò della forza che la trascinava via dalla propria vita. Mi disse che era una forma di musica, ma una musica senza, sopra, alcun cielo. Aveva avuto una figlia da un'amante occasionale. Si chiamava Annie. Prima di partire, la affidò ad una coppia di musicisti venuti a studiare a Vienna dal Baltico».
Mia madre stese le mani verso di me, vicinissime al mio viso.
«Tu sei capace di amore come nessun altro. La passione per gli esseri viventi invade la tua anima, e ti fa seguire le vie dei canti. Eppure, comprendi? Oggi i rododendri sono pieni di veleno, pura vanità. L'amore, nei giorni futuri, porterà la follia, e ciò che accadde a quella modella, è il destino che si prepara all'intera nazione germanica. Tutti, negli anni, hanno tentato il cielo, senza sapere quale forza andavano evocando. L'idealismo romantico sta per partorire mostri. Tu, non essere complice. Dissecca la tua vena come pietra pomice, e contempla da saggio le macerie della storia. Non avrai, per questo, l'amore degli uomini, ma neppure la responsabilità della loro rovina».
Si fece presso il laghetto, ne raccolse tra le mani a coppa un po' d'acqua e tornata da me la versò sulla mia testa. In quel momento, i mondi di cieli lontani mi apparvero in strutture di suono.
Sopra la musica c'era un cielo dalla purezza inattingibile: un cielo dove fuggire per sempre dal tempo.
Alessandro Zignani
(tratto da "Il cielo sopra la musica", Florestano Edizioni, 2018)

domenica, novembre 10, 2024

Bruno Canino: Il Metodo

Bruno Canino (30 dicembre 1935)
Mettendo giù questi appunti, mi sono accorto appena in tempo del pericolo che correvo di descrivere non quello che è effettivamente il mio metodo di insegnare il pianoforte, ma un metodo utopico e ideale, cui sarebbe bello e "virtuoso" attenersi, se... se si avesse più tempo; se gli allievi fossero meno numerosi. e se fossero tutti diligenti e motivati e selezionati con cura; se i conservatori fossero scuole professionali; se io capace di cattiveria; se se se...
Insomma, nelle condizioni in cui si è costretti - anche per propria colpa - a lavorare, viene fuori un'affannosa e difficilmente descrivibile assenza di metodo: ma non è poi detto che una realistica asistematicità non possa non risultare produttiva, e che forse in essa, addirittura, si possa trovare la chiave di  successo di tanti insegnanti.
Naturalmente alcune convinzioni tecniche, musicali, pedagogiche, bisogna pur averle: ma la loro traduzione in opera deve essere inventata con intuito e perspicacia di volta in volta, sfuggendo alle trappole della routine; ho per esempio in orrore la lezione di durata fissa a scadenza regolare (i tedeschi la chiamavano Klavierstunde, l'ora di pianoforte, a sancirne quasi contrattualmente la misura). dove. come in un malinconico menu senza scelte. si parte dalla tecnica per arrivare, attraverso studi e Bach, al “pezzo” dove finalmente si assaggeranno le delizie del pedale e del rubato: non bisogna far adagiare l'allievo in questo prevedibile rituale, tenerlo sempre sul chi vive, e prima o poi capirà che dieci (o novanta) minuti di lavoro sopra una scala cromatica possono essere assai più utili per lui di questo tran tran; e più illuminante la lettura di una bella Ouverture di Mozart a 4 mani. Ma vediamo quelli che, al momento, considero i motivi conduttori del mio modo d'intendere l'insegnamento.
Autocoscienza e autoascolto. Suonare il pianoforte non è soltanto cosa razionale; ma certamente la ragione vi occupa gran posto. L'allievo piccolo o grande, deve sapere che a determinate azioni muscolari corrisponderanno determinati risultati sonori: e l'osservazione e l'autoascolto devono confermargli un'assoluta fiducia nell'obiettività di questa corrispondenza biunivoca.
Emancipazione. Assai per tempo, la scelta del tipo di azione tecnica - fra il repertorio di gesti appresi -conveniente alla specifica situazione musicale, va affidata all'allievo. Ma anche altre scelte, diteggiature, pedali, persino scelte stilistiche e formali gli vanno giudiziosamente lasciate, senza indignazione professorale per eventuali gaffes: e ci si compiaccia di accettare decisioni divergenti dalle proprie, purché fondate su un comunicabile criterio valido, e non su casualità e faciloneria.
Amore per la musica. Se la musica non piace, non si conosce, non interessa, o interessa solo per essere promossi agli esami o per vincere concorsi, insegnare o imparare a suonare diventa insensata e avvilente fatica. L'insegnante deve dimostrare questa passione anche nel decimo riascolto di un brutto studio, e deve approfittare di ogni appiglio l'allievo gli offra per comunicargliela. Nulla di più deprimente dell'allievo che. all'offerta “Cosa ti piacerebbe studiare?". risponde “Faccia lei, tanto per me e lo stesso".
Fedeltà al testo. Il testo non dice tutto sull'esecuzione di un pezzo, ma tutto ciò che dice è prezioso. Mozart era di certo miglior musicista e più competente sul suo stile di quanto non lo fosse Casella; se ha adoperato quelle legature e quei segni di staccato,  cerchiamo di fare ciò che chiede: e Liszt era più preciso e geniale di Horowitz, e Debussy più sottile di Benedetti Michelangeli. Oltre tutto, seguire alla lettera le indicazioni del compositore ci libera da molti falsi problemi.
Continuità. Un pianista può avere bel suono, intelligenza e senso musicale: ma queste doti gli sono inservibili se non è capace di suonare due righe di seguito senza fermarsi. La capacità di concentrazione prolungata è dote che specificamente si richiede al pianista, ed è tra le più difficili da insegnare. Non interrompere un pezzo, ascoltarlo tutto con i suoi bravi ritornelli, anche se già alla prima battuta si sa cosa sarebbe utile dire, e anche se la prossima lezione incombe e la classe è stracolma.
Alcuni codicilli. Trattare non più di un paio di problemi tecnici per volta, possibilmente relativi al materiale musicale che si sta lavorando. Diffidare di un'eccessiva gradualità nella scelta dei pezzi: il rischio di un pezzo un pochino più lungo della gamba permetterà di ripercorrere gradini inferiori con ben altra sicurezza e autocontrollo.
Pretendere già alla prima lettura che l'allievo presenti una sua certa qual idea del pezzo: che, per essere plausibile e per inquadrare giustamente la forma e le difficoltà che ci aspettano, dovrà "tenere" dei tempi non esageratamente lontani da quelli che si presume convenienti all'esecuzione finale. In altre parole un "allegro" potrà declinare in un "moderato" ma non certo in un “adagio"; e l'adagio, apparentemente senza problemi, non dovrà per questo scivolare in un “andante scorrevole". (Per lo stesso motivo è per me totalmente incomprensibile l'uso di lavorare in fortissimo i passaggi da eseguire piano).
Soltanto dopo questa prima lettura globale, isolare e lavorare separatamente i passaggi problematici. Indispensabile mi sembra il ricorso a varianti ritmiche e combinatorie: non nell'idea di complicare le cose semplici, ma nell'intento di individuare e correggere l'eventuale cattivo funzionamento: come fermare l'immagine in un film per meglio osservare un particolare. Tutto questo. insisto, deve avvenire nell'ambito dinamico e nella scelta di suono che si ritengono appropriati anche per l'esecuzione.
Il metronomo non serve certo per andare a tempo, ché la musica non si suona quasi mai in tempo, ma è insostituibile come misuratore e controllore delle nostre incapacità e dei nostri progressi.
Così smontato e velocizzato il passaggio, va poi reinserito nel contesto del pezzo, la cui respirazione e il cui equilibrio formale sono così continuamente da modificare e ricontrollare.
Un'ultima  importante convinzione: individuare per tempo i punti deboli dell'allievo (cantabilità, pedalizzazione, scarsa resistenza fisica o psicologica; innaturalezza di fraseggio; eccetera) e scegliere pezzi ad hoc che aiutino a combattere questo specifico difetto.
Ma sono per caso rientrato nel paese di utopia?
Bruno Canino

venerdì, novembre 01, 2024

Maria Tipo: First Lady del Pianoforte

Maria Tipo (1931)
Maria Tipo da oltre venticinque anni vive nei dintorni di Firenze, in una splendida villa che domina un paesaggio da mozzafiato della città con l'Arno a gomito. Ci accoglie con affabilità e franchezza tutta napoletana nel grande salotto di casa, accanto allo studio in cui troneggiano due pianoforti a coda letteralmente coperti di fotografie di grandi artisti, maestri, colleghi, amici, allievi. Sorseggiando lievemente un thè, comincia il racconto.

Come si è avvicinata alla musica?
È molto semplice, mia mamma era pianista e compositrice. Sicché io ho sentito musica prima di nascere: pensi che io sono nata alle 3 di notte e mia madre aveva suonato fino a mezzanotte, con il pancione. Probabilmente ho ereditato il suo talento. All'età di tre anni e mezzo, sono andata io al pianoforte, da sola, e ho cominciato a trovarmi le musichette, dei motivi, le scale. Sentivo gli allievi della mamma che dava lezioni e ho cominciato ad imitarli. Una sera la mamma è tornata a casa e ha sentito suonare il pianoforte. Ha chiesto a mio padre di andare a vedere chi fosse: ero io che mi ero sistemata i cuscini perché non arrivavo alla tastiera e avevo suonato, pare, tutto il pomeriggio.
Non è stata costretta?
No perché ero troppo piccola. La mamma ci aveva provato con le mie sorelle maggiori ma aveva rinunciato. A me non aveva ancora pensato perché non si mette al piano un bambino di tre anni e mezzo. A quattro anni feci il mio primo concertino fra gli allievi della mamma, e suonai un brano della Sonata op.49 di Beethoven. Quando vedo dei bambini di quattro anni, mi chiedo ancora: come facevo? Per fortuna non fui sfruttata come enfant-prodige. Studiavo seriamente e ogni anno suonavo per gli amici di famiglia in salotto e mi meravigliavo che la gente si commuovesse ad ascoltarmi: per me era così facile.
La teoria musicale l'ha studiata più avanti?
Sì, sempre con la mamma. Feci il quinto prima della guerra. Prima del diploma però, partecipai al Concorso di Ginevra: avevo 16 anni e qualcuno decise che ero pronta per un concorso internazionale. Andai e vinsi. Quando tomai a Napoli mi diedero il diploma "ad honorem".
Quindi non ha mai frequentato il Conservatorio?
No, mai. Ho avuto la fortuna di trovare in mia madre una musicista completa che mi ha trattato come un'allieva normalissima, non come un fenomeno. Ero una ragazzina dotata che studiava, studiava: solo al Concorso di Ginevra presi coscienza del mio stato, e da quel giorno cominciai uno studio ed un approfondimento della musica che mi investiva in prima persona, perché, improvvisamente, c'erano i concerti da fare.
A quale scuola pianistica apparteneva sua madre?
Al Conservatorio era stata allieva di Romaniello, un allievo di Anton Rubinstein, al tempo in cui Martucci era direttore. Poi conobbe Ferruccio Busoni e si fece ascoltare da Paderewski in America. Ebbe modo di ascoltare tutti i più grandi, da Hoffmann a Lhevinne. Quando le parlavo dei grandi di allora, Benedetti Michelangeli, Horowitz, lei non si stupiva più di tanto: aveva ascoltato dei grandissimi.
Quali furono i primi contatti con altri musicisti?
Il primo fu con Alfredo Casella: quando avevo nove anni mia madre, che era molto critica, volle portarmi da lui. «Io sono la mamma, forse stravedo». Casella mi ascoltò e disse «Non perdere tempo, devi fare subito Beethoven, subito le grosse sonate, Liszt, gli studi di Chopin». Dopo qualche anno, prima del Ginevra, studiai un intero anno con lui a Roma. Molto repertorio, i classici e soprattutto Mozart. Tutto il lavoro sul suono che avevo fatto a casa, con lui venne confermato e portato a perfezione. Purtroppo morì, e allora continuai per un po' con Guido Agosti, un  altro grandissimo maestro. Poi venne il concorso e quindi la carriera.
Qualche ricordo musicale della sua infanzia?
Non molti, perché mia madre non mi portava molto ai concerti: si era come un po' distaccata dal mondo musicale. Ricordo l'impressione che provai all'ascolto di Arturo Benedetti Michelangeli e di quello che riusciva a fare in Ravel. Poi i concerti di Rubinstein e di Kempff, o i concerti di Franco Ferrara alla Scarlatti.
Come si svolse il Ginevra?
A Santa Cecilia c'era la possibilità di vincere una borsa di studio per coprire le spese del Concorso: andai ma non la vinsi. Tutti dicevano che suonavo benissimo ma che non avrei mai potuto partecipare a un concorso così grosso. Mia madre non si diede per vinta e organizzò un concerto privato al Cenacolo Belvedere; dopo il concerto fu organizzata una specie di colletta per pagarmi le spese del concorso. Ci andai con una responsabilità enorme. Per fortuna vinsi all'unanimità.
Qualche ricordo particolare di quella esperienza?
Mio padre aveva seguito coscienziosamente le prove di tutti gli altri concorrenti e si era accorto che tutti suonavano Bach in modo molto diverso da me. Io l'avevo lavorato molto con mia madre, con tempi originali, accenti particolari: lei mi disse di suonare come avevo sempre fatto, ma di osservare la giuria mentre suonavo Bach. Appena cominciai la Seconda Partita in do minore con i miei tempi larghi, li vidi guardarsi in faccia. Era già un buon segnale. Continuai con la Seconda Ballata di Chopin ed il resto del programma. Alla fine la giuria si alzò in piedi ad applaudire: una cosa straordinaria, era successo solamente per Michelangeli qualche anno prima.
Chi c'era in giuria?
Ricordo Malipiero, il compositore, ed Edwin Fischer, che a mia madre disse: «Pochi concerti, signora, mi raccomando. Musicalmente nessun consiglio, è perfetta così com'è››.
Cosa si vinceva?
Una somma in denaro molto modesta. Poi qualche concerto in Italia, non molti, per fortuna. A Ginevra mi avvicinò un famoso impresario americano, lo stesso di Friedrich Gulda che aveva vinto qualche anno prima e che mi voleva per una lunga tournée in Sud America. Mia madre reagì «Cosa? Mia figlia in America? No, si torna a casa a studiare, punto e a capo». Ci rimasi molto male, ma aveva ragione. Fino ai 20 anni feci pochi concerti, magari pagati poco, ma solo quelli giusti, a Trieste, Roma, Milano. Quando avevo 20 armi mio padre tornò a casa col bando del Concorso di Bruxelles dicendo: questo fa  per te, c'è anche un concerto da imparare in 8 giorni, un pezzo moderno in due mesi. Vinsi solo il terzo premio, ma in commissione c'era Rubinstein che dopo il concorso mi disse: «Qui ci vuole lavoro, comincia 1'America sul serio, non sei più una ragazzina». Parlò con il suo impresario Soul Hurok, il quale dopo un'audizione a Parigi mi scritturò immediatamente. E lì è cominciata la botta: per dieci anni ho fatto la concertista a tempo pieno. Tournées incredibili. Dai venti ai trent'anni ho fatto solo concerti in tutto il mondo, a ritmi massacranti. La mia vita di donna non esisteva quasi più. Un anno sono stata 4 mesi in America per fare 60-70 concerti. Prima il Nord America, poi il Sud America, sempre in viaggio, aerei, bagagli, mai un attimo di tregua, per anni non ho conosciuto l'estate. Grande successo, grandi concerti, grande soddisfazione, però a un certo punto mi sono chiesta: deve essere così tutta la vita? Fare la valigia e partire? Suonare e viaggiare? Facevo degli incontri importantissimi e il giorno dopo si ripartiva... No, non era possibile. Bisognava vivere, avere dei guai, avere dei figli, un marito, insomma, una vita normale. Dopo i trent'anni la mia è stata una lotta continua per riappropriarmi della mia vita privata.
Ricorda qualche incontro particolare di quel periodo, qualche direttore d'orchestra con cui ha suonato?
Molti che non ci sono più, purtroppo. Ernest Ansermet, con cui suonai in Eurovisione da Ginevra il Terzo di Prokofiev, Karl Böhm, importantissimo perché i primi concerti di Mozart li ho suonati con lui. Non mi diceva niente, solo che era perfetto come io suonavo Mozart. Mi ascoltò a Napoli e mi disse: «Devi assolutamente venire in Germania a far sentire ai tedeschi come si suona Mozart». Oggi consideriamo Böhm un interprete molto rigido, molto "tedesco", ma a lui piaceva il mio Mozart "latino›". Ho suonato anche con il grande Erich Kleiber, con Jonel Perlea, con cui incisi un disco per la Vox, con Sir John Barbirolli, con Fritz Reiner, con cui debuttai nel Quarto Concerto di Beethoven a Chicago. Non ho nulla da raccontare su questo grande, perché a lui sembrava fantastico che io suonassi così. Era un uomo di poche parole e di gesti piccolissimi.
Ha mai avuto qualche scontro?
Una volta con Wolfgang Sawallisch, forse perché è anche un ottimo pianista. Lui era molto giovane, io pure, dovevamo suonare il K 503 di Mozart a Bruxelles. Non gli piaceva come concepivo il concerto. Era nervoso, ad un certo punto mi chiese a bruciapelo: «Con chi ha studiato?›› Ci rimasi male, però il concerto fu bellissimo. In effetti non ci fu proprio uno scontro. Anche a Isaac Dobrowen piacque come io suonavo. Forse suonavo bene!
Questo è sicuro! A volte però per visioni interpretative distanti si può anche litigare.
No, questo mai. Certo, ero molto aperta, molto pronta ad apprendere qualunque cosa. Certo, ispirazioni da altri artisti le ho ricevute, da Rubinstein per esempio, che per me  era sempre grande.
Lo ha conosciuto bene?
Sì, l'ho conosciuto a Bruxelles dove era in giuria. Alla fine mi disse: "Per me lei era il primo premio. Però, mia cara, le colleghe donne (Marguerite Long e Magda Tagliaferro) probabilmente non hanno votato per lei. Il vincitore? Lo conosco già, un gran pianista, però per me la rivelazione del concorso è lei, con quel suono!". Dopo la premiazione volle ascoltarmi ancora privatamente: gli suonai molti pezzi che non erano in concorso per tutto un pomeriggio.
Le diede qualche consiglia sulla carriera?
L'unico consiglio fu di "andare in America, ma dalla porta grande". Lo rividi a New York e poi due volte a Parigi. Una volta era a Firenze e venne a sapere che avevo avuto una bambina e che l'avevo chiamata con lo stesso nome di sua figlia, Alina (ma in realtà era in onore di una mia cara amica di Trieste). Passò dal fioraio e mi mandò un grandissimo mazzo di rose con un biglietto: «Ho saputo che hai avuto questa bambina, Alina, è meraviglioso!››. Era un uomo particolare. Dopo la sua morte sono rimasta molto affezionata a sua moglie Nella. Quando suono a Parigi, lei viene sempre ad ascoltarmi.
Quanti concerti riusciva a fare in quel periodo?
Anche 150 per anno, in tutti i paesi, in tutte le università americane, con tutte le orchestre. Troppi. Certe volte tornavo in Italia e pensavo: come, fra pochi mesi si comincia di nuovo? Vedevo che mi mancava il tempo di preparare le cose come le volevo io. Certe volte partivo e sentivo di non essere pronta.
Quindi a volte ha conosciuto la paura?
La paura sempre, ci convivo con la paura! 
Non lo si direbbe ascoltandola in concerto.
Perché non lo mostro.
Cos'è la paura?
Credo che venga dal desiderio di volere fare molto bene, di volere fare meglio, e la paura insorge perché si sa che il concerto ogni volta è un fatto nuovo, è un quadro che tu devi fare lì per lì, alle 9 e non alle 9,15 0 alle 8,30. E devi essere pronta perché devono riuscire tutte queste cose che tu vuoi fare; basta una nota sporca e quello che si voleva fare non viene. Chi ha coscienza di ciò deve per forza avere paura, ogni volta può succedere un  imprevisto: la sala, l'acustica, il pianoforte, come ci si sente. Alla fine di ogni concerto in cui sono contenta mi dico sempre «è un miracolo», e quasi lo considero un fatto straordinario che il concerto sia venuto bene.
Qualche volta si è tirata indietro per la paura?
Mai, se succede una volta poi ti succede sempre. No, è una sfida. Gli ultimi dieci minuti prima di entrare in scena sono tremendi. Certe volte pensi che sarà un disastro e allora speri che succeda qualcosa, che il concerto venga annullato: mancherà la luce, verranno a dirmi che il concerto non si fa. E quello sarebbe un sollievo alla paura.
Un suo grande collega spesso annulla il concerto adducendo le scuse più incredibili, l'umidità dell'aria, l'accordatura del piano. Invece è forse la paura che lo blocca.
Sì, l'ho sempre pensato anch'io. Mi sono sentita molto vicina a lui perché è un perfezionista, lavora al pianoforte fino all'ultimo a perché pensa che qualcosa non gli verrà bene. E allora ha il coraggio di annullare. Io non l'ho mai fatto. La volta che ho avuto più paura poi sono venuti a dirmi in camerino che è stato il più bel concerto della mia vita. Quando invece sono tranquilla, il concerto viene così così.
Sente la necessita di suonare in pubblico?
No. La risposta la delude?
È interessante perché credevo che fosse nata per suonare in pubblico.
Io no, l'ho fatto perché dovevo farlo, perché mi ci sono trovata dentro molto giovane, perché quella era la mia vita, il mio lavoro. Non ho saputo fare altre cose. Mi sono detta spesso: se fossi molto ricca, forse lascerei. Mi ha sempre molto pesato tutto il contorno: i viaggi, il fatto di trovarmi sempre in un posto diverso. A me piace stare nel mio cantuccio. Ho fatto tutto con sforzo. Poi il fatto di mostrarmi in pubblico non mi è mai piaciuto.
Non è esibizionista?
No.
È una delle doti di un concertista.
Purtroppo. Lo vedo anche nei miei allievi: quello più esibizionista avrà la vita più facile, perlomeno sarà più felice. Io soffro sempre da morire. C'è invece chi mentre suona si bea, ed è certo più felice, perché si ama. Io sono sempre in crisi, mi critico mentre suono, sono piena di dubbi.
Ancora oggi?
Sì, perché dovrebbe essere il contrario? Oggi chi me la dà la sicurezza? L'età? Sì, c'è un passato, però ogni giorno è un giorno nuovo. Quando entro in pubblico debbo fare come fossi in una scena, e allora ho un'aria che sembra...
Da dominatrice.
Me la impongo. Non posso avere l'aria da intimidita. Percorro quei fatidici dieci passi fino al seggiolino del pianoforte. Sono dieci passi importanti, sono molto decisa, molto determinata, vado con un passo sicurissimo perché questa cosa deve succedere, l'ho pensata, ho lavorato per questo. Sarebbe una delusione tremenda se tornassi indietro. Sono già nel concerto, ci sono dentro già nel camerino mentre mi vesto, mentre mi preparo.
L'artista pubblico dovrebbe provare piacere nel suonare.
Certo, quando suono mi piace molto, ma il farlo davanti agli altri è un'altra cosa. Le gioie che io provo da sola, quando scopro le partiture, le suono e poi studio per farle venire bene, questo è un momento meraviglioso per me. L'altro no, è una responsabilità.
Potrebbe stare senza musica?
Tutto si può fare. Certo, non mi ammazzerei, l'ho sempre pensato che può venire un momento in cui potrei non suonare più. In questo non mi illudo: la musica per me non è una droga.
Cosa le fa superare tutte le difficoltà della carriera? Il denaro, la fama, l'applauso? Oppure l'amore per la musica?
La consapevolezza che in fondo io ho ricevuto delle doti in eredità, non è né una colpa, né un merito. Sono nata per fare questo. E lo faccio con forza di volontà, di carattere.
Quali sono i principali problemi per una donna concertista?
L'uomo può pensare alla carriera al 100%; la  donna invece è nata per fare altro, la famiglia, quindi se per caso ha del talento, deve fare l'uno e l'altro. Io mi domando, quanti uomini avrebbero potuto fare quelle carriere che hanno fatto se avessero dovuto fare figli, badare alla casa, al marito, alle mamme, ai vecchi, ai nipoti? Noi non lo sappiamo ma chissà quante donne hanno rinunciato: per una che ne arriva ce ne sono 80 che restano indietro, di questo sono sicura.
Quando incise il suo prima disco?
A New York, nel 1952, alla Vox Turnabout.  Scelsero Scarlatti, che è sempre stata la mia specialità. In America lo aveva fatto solo  Horowitz e la pianista brasiliana Guiomar Novaes. Mi diedero tre giorni per incidere.  Bastò una seduta sola, perché suonai tutto di  seguito, senza interruzione, 12 Sonate, perfette. I tecnici mi dissero che alla Novaes non erano bastati tre giorni per tre sonate, e io le avevo già incise. Fu un'esperienza elettrizzante. Il disco ebbe un grandissimo successo: lo hanno ristampato l'anno scorso in compact disc assieme ai due concerti di Mozart con Perlea.
Ascoltò Horowitz in quel periodo?
Sì, certo.
Si può dire che lei abbia appreso qualcosa da lui?
No. Non l'ho mai imitato. lo ho un altro tipo di tocco. Certo lui le ha suonate come un grande, ma io ho la presunzione di dire che nel mio modo di suonare Scarlatti c'è una componente di "napoletanità" che a lui manca. Ci sono probabilmente cose di Scarlatti che per me sono congeniali, il fraseggio, la cantabilità tipica della canzone napoletana, il ritmo spagnolo. Horowitz è sempre stato russo e, comunque, tra quelli che suonano Scarlatti è il migliore.
Come studia? Se studia ancora, perché Richter, per esempio, dice che lui non ha mai studiato, ha sempre solo suonato.
Beato lui! Esiste una pratica, c'è un allenamento, una maniera di accostarsi già al mattino. Intanto devi sentirti sciolto, e quindi io comincio sempre con delle scale, delle ottave, per prendere contatto con la tastiera. Io sono distratta e non potrei sedermi al pianoforte e iniziare subito una "111" di primo mattino. E allora muovo le dita così e intanto mi sciolgo, e questo fa molto bene.
Lo fa sempre?
Quasi sempre, e anche i miei allievi: del resto una ballerina non fa un po' di sbarra prima di ballare? E un atleta non scalda i muscoli prima di correre? Basta un quarto d'ora, dieci minuti e dopo puoi cominciare a lavorare al concerto che devi preparare. Io lavoro bene alla mattina, al pomeriggio già sono più distratta, la sera quasi mai.
Si favoleggia che Michelangeli studia solo di notte.
Perché, Martha Argerich no? Comincia a mezzanotte, quando noi abbiamo salutato gli amici, e studia fino alle 6 del mattino. Poi va a letto e chi la vede più fino alle 4 del pomeriggio? Avendo questi ritmi per lei è tremendo andare a fare le prove con l'orchestra alle 10 del mattino, è come alzarsi alle 3 di notte. A me di sera mi piace leggere, mi piace parlare con gli amici. Ma non sono fissata. La musica mi piace da morire, però mi piacciono anche altre cose, il cinema, il teatro, la lettura, insomma mi piace vivere, stare da sola, stare zitta, pensare senza fare nulla, sola con i miei pensieri.
Quando sente di non avere più bisogno dello spartito?
Per pigrizia certe volte. Certe volte non lo apro addirittura perché sento che può già venire; comincio e mi viene a memoria quasi naturalmente. Poi lo riapro per verificare qualcosa. Ma non mi sono mai imposta di imparare a memoria.
Secondo lei per un pianista è importante suonare a memoria?
Mi pare di sì. Ci ho ragionato: ad una certa età la memoria si perde anche, soprattutto si perde quella recente. Per esempio io le posso suonare perfettamente delle cose studiate a 15 anni, a 20 anni, a 30, è come se fossero rimaste incollate. Quello che io ho imparato dai 30 anni ai 40 è semi-incollato, dai 40 ai 50 anni al 25%, dopo i 50 anni di quello che ho imparato niente resta incollato. Devo riprendere la musica. Suonare a memoria è bello perché è una conferma che la cosa la sai veramente, è tua.
Richter dice che è ingiusto suonare a memoria perché si perde tanto tempo.
Richter può suonare come vuole, nessuno può permettersi di discuterlo. Lui invece si giustifica con quella dichiarazione che fa pubblicare sui programmi di sala: la trovo assurda. Io ho una figlia violinista che suona a memoria il quartetto. Fino a quando lo potrà fare, è molto bello. Certo un domani, quando avranno 50, 60 quartetti in repertorio, verrà un momento in cui non lo potranno più fare.
Ha fatto musica da camera?
Per dieci anni ho fatto tutto il repertorio pianistico a quattro mani e per due pianoforti con Alessandro Specchi. Poi ho suonato con Salvatore Accardo e il suo Quintetto, con il Quartetto Amadeus e con Uto Ughi. Niente con il violoncello. Mi è mancata anche 1'esperienza del Lied, e mi dispiace molto. Con Uto Ughi abbiamo fatto molti concerti, abbiamo inciso anche due sonate di Mozart. Con lui c'era in progetto l'incisione integrale delle Sonate di Mozart e di Beethoven, ma problemi contrattuali con le relative etichette ce l'hanno impedito. È uno dei grandi rimpianti della mia vita, perché con Uto mi sono trovata musicalmente bene, è un artista che adoro, e penso che anche lui si sia trovato bene con me.
Quando ha cominciato a insegnare?
Dopo i trent'anni. Dopo il matrimonio ho insegnato al Conservatorio di Bolzano e poi per 15 anni a quello di Firenze. Poi l'ho lasciato perché non ho voluto rinunciare alla mia attività concertistica e alle master class. Poi ho insegnato a Ginevra. Oggi insegno solo ai corsi di Fiesole, nella Scuola di Piero Farulli.
Si è mai trovata a dovere insegnare a qualcuno che proprio non sa come mettere le mani sulla tastiera?
Andrea Lucchesini l'ho messo io al pianoforte a sei anni. Faceva qualche canzonetta con una sinistra messa male, ma aveva già un orecchio straordinario. L'ho avuto in Conservatorio fuori orario perché a quell'età non si poteva prendere. D'accordo col direttore dicemmo: il ragazzino vale, teniamolo come uditore; io però gli facevo lezione lo stesso. Mi divertiva mettere al piano un bambino così dotato. È molto più difficile quando ti arrivano certi talenti che sanno già suonare ma che tecnicamente sono un disastro. Lì bisogna tornare indietro. E qualche volta ci si riesce.
Parliamo della sua famosa incisione delle Variazioni Goldberg di Bach. Quando ha cominciato a suonarle?
Ho cominciato verso i 35 anni, senza pensare di portarle in pubblico. Fu determinante 1'uscita del disco di Glenn Gould. Avevo ascoltato un'esecuzione anni prima al clavicembalo, ma non ne avevo afferrato la bellezza. Glenn Gould me le fece scoprire, poi divenni pazza per l'esecuzione della Landowska, finché decisi di studiarle. Poi qualcuno mi propose di farle in pubblico.
Con tutti i ritornelli e senza intervallo?
Certamente. Capii subito che non si poteva fare che così. Qualche collega le suona senza ritornelli e magari fa seguire una Sonata di Schubert. Lo trovo assurdo. Pensi che una volta in Olanda ho dovuto pagare io il bar perché senza l'intervallo loro non potevano lavorare.
Qualche anno fa ha intrapreso un imponente lavoro con la Fonit Cetra per l'incisione dell'integrale di Clementi. Per il pubblico lei è ancora un po'...
La Signora Clementi.
Le pesa questa specie di etichetta?
No, mi piace, io sono un'innamorata di Clementi, penso che l'avrei sposato se fossi nata nella sua epoca. Ho sempre suonato Clementi, mi piace, Lo trovo spiritoso, lo trovo intelligente; mi piace la sua maniera di affrontare il pianoforte, è il «Beethoven un po' prima» e io sono molto fiera che sia italiano. Mi dispiace che gli italiani non lo suonino. Degli stranieri solo Horowitz l'ha amato e l'ha reso in un modo fantastico. Mi ero impegnata a fare l'opera completa, ma il lavoro si è fermato al quinto volume perché non c'erano più soldi. Poi due anni fa ho fatto un compact con la Emi con alcune sonate fra le più belle.
L'ultimo disco?
L'integrale dei Notturni di Chopin.
Progetti per il futuro?
Forse il Clavicembalo ben temperato, qualcosa di Schumann. Ma non c'è ancora niente di definito.
Coltiva qualche hobby?
La mia casa, i fiori. Amo gli oggetti, i mobili. Poi la montagna: ora ho una casa sull'Appennino pistoiese, a un'ora e mezza da qui. Ci muoio dietro. Ho amato le Dolomiti per una vita ma per avere una casa erano troppo lontane. Sull'Appenino invece ho conosciuto Cutigliano, un paesino medioevale da sogno, sui 700 metri. Io sto un po' più in alto,  sui mille metri. Un paradiso. Vorrei stare sempre lì.
Una napoletana che ama la montagna? E il mare?
Il mare è stata la passione della gioventù, poi passa, viene un momento in cui bisogna meditare e il mare non aiuta a meditare.
Alberto Spano
("Symphonia" N° 45 Anno V, dicembre 1994)