Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, novembre 21, 2024

Alessandro Zignani: l'Epilogo

Il Preglhof è coperto di rampicanti. Chi lo ha comprato non ama la pietra, e aspetta che la struttura si sgretoli per non doverla abbattere. In Carinzia ristrutturare un rudere costa di più che costruire un nuovo edificio. Prima di rifugiarmi a Mittersill, sono voluto venire qui un'ultima volta. Mio padre vendette questa gigantesca tenuta, sorta di feudo della natura nel tempo terrestre, quando comprese che non mi sarei dedicato alla sua amministrazione. Me ne venne una rendita, da me dilapidata nell'unico bene voluttuario che mi sono mai concesso: tempo per comporre.
Ora che i bombardamenti hanno raggiunto anche casa mia, Maria Enzersdorf, la “Universal” ha smesso di commissionarmi riduzioni pianistiche di artisti protetti dal regime: tutte partiture gigantesche, e scritte con l'idea che l'eternità aleggiasse nell'inchiostro della penna. Un paio di compositori hanno riscritto le loro partiture partendo dai miei arrangiamenti, ma era una trappola: scrivere a regola d'arte non paga.
Ma dicevo di Preglhof. Vi ho passato infanzia e adolescenza, e anche quando la carriera di direttore d'orchestra mi rendeva estraneo a me stesso, ogni singolo suo paesaggio diveniva, in me, un episodio della partitura. Per esempio, una frase rabbiosa dei violoncelli era la cascatella di acqua gelida presso il fiume; un Corale a note lunghe degli ottoni era la Via Crucis con le statue di legno sul sentiero che i Gesuiti hanno lasciato ai margini della tenuta. Mi piaceva pensare, nei tempi grami, che Preglhof vegliasse su di me, così che le orchestre non mi facessero male.
L'ultima stagione che vide mia madre viva, fu al Preglhof. Morì per una crisi ipoglicemica che tutti noi aspettavamo, e che nessuno previde. L'amore di una madre non assomiglia a nessun altro, e non può venire rimpiazzato.
Nel Quartetto n. 2 per archi del mio maestro, Arnold Schönberg, una voce intona versi che mi parvero un oracolo per il mio lutto ingovernabile: 
..Nella tua casa ritorno, Signore
Lungo fu il viaggio, affrante sono le membra
Vuoti gli scrigni, piena la pena
...Debole è il mio respiro che evoca il sogno
..Nel cuore braci ardono ancora
Nel fondo più oscuro ancora veglia un grido
Stermina la brama, chiudi la ferita
Estingui in me l'amore, dammi la pace.
Non ricordo tutti i versi di questa poesia di Stefan George, tratta dalla sua raccolta Il settimo anello: solo quelli dove il poeta parla di me. George aveva raccolto intorno a sé una Comune esoterica cresciuta intorno al culto di Goethe: la sua teoria che la luce, le piante e le rocce siano tutte manifestazioni dell'anima, specchio del dio vivente. So che sul lago di Silvaplana è nata una Comune simile a quella di George. Erwin Reisen, un allievo di Schönberg, vi andò in visita.
Questo Quartetto n. 2 esprime un momento catastrofico nell'esistenza di Schönberg. La moglie lo lasciò per un giovane pittore amico di famiglia, e il Maestro ebbe l'unico crollo creativo della sua vita. Lei, poi, tornò, e il suo amante, per questo, si tolse la vita. Fui io a convincerla, richiamandola ai suoi doveri verso il genio. Schönberg non apparteneva a lei, ma all'umanità, e del suo collasso creativo i posteri le avrebbero chiesto ragione. Quando il ragazzo, il pittore, si uccise, mi sentii responsabile. Questo, e la morte di mia madre, fecero sì a Schönberg mi legassi per la vita, e non potessi più stare senza di lui.
La morte di mia madre mi faceva sentire responsabile dei mali del mondo. Quando morì, io non c'ero. Ero sul massiccio di Rax, perso nell'aurora nascente, dopo una nottata in alta quota.
Alla prima esecuzione del Quartetto n. 2 di Schönberg, il pubblico fu preso da un accesso di risa. Li divertiva il fatto che il compositore vi avesse introdotto una canzoncina infantile, Du lieber Augustin, dove si parla del “povero Agostino”, che si mette nei guai fino a perdere ogni cosa, anche la speranza.
Quella gente rideva di me, orfano e gettato nel fiume della vita senza più una guida. Il sarcasmo di Schönbergera diventato, per me, il ghigno di un mondo ostile.
Le persone lodano le opere d'arte che li fanno sentire migliori, non quelle che ritraggono la loro sofferenza in chiave grottesca.
Wilhelmine, non ancora mia moglie, mi scrisse il mio amore non può rimpiazzare nel tuo cuore quello che provi per tua madre, ma ti può aiutare a creare una vita di bellezza.
Lei accettò di vivere all'ombra di mia madre, da ispiratrice delle molte opere che avrei dedicato alla sua memoria. Il suo amore era assoluto; il mio, il riflesso di un altro amore.
Quando ottenni la laurea in Musicologia, a Vienna, mia madre ed io facemmo un viaggio. La mia tesi su Heinrich Isaac, un compositore fiammingo del Quattrocento capace di rendere la musica una mappa di rotte astrali, un'immagine sonora del cosmo, era appena stata pubblicata.
Un von Webern poteva fare il musicista solo a patto che fosse laureato. Meritavo un premio. Mia madre mi portò in Engadina. Conoscendo la mia passione per il pittore Giovanni Segantini, che avevo scoperto a Monaco durante un viaggio in Baviera, mi condusse fin sul Ghiacciaio del Forno, a Maloja. nei luoghi cari al sofferto simbolismo dell'artista. Lassù trenta profondi laghetti, detti “marmitte”, incidono la roccia a coltello come uno sfregio del tempo. Mia madre si fermò davanti ad uno di questi. Il suo respiro era affannoso. ma non per la salita. Quel posto, sentivo, era qualcosa che lei sapeva di dover per sempre evitare, non fosse stato per me.
Il cielo era diafano per l'attesa del sole, da ore ricoverato dietro una coltre di nuvole bianche come il silenzio di chi non ha nulla più da attendere: tale era, ora, il silenzio di mia madre. E "questo laghetto" cominciò a dire, "compare nel quadro La Vanità. Tu non puoi averlo visto, perché non è esposto a Monaco. Il quadro rappresenta una ragazza nuda che si contempla nello specchio dell'acqua, e accanto a lei i rododendri fioriscono di rosso. I rododendri sono il simbolo dell'amore ricambiato, il cuore segreto della passione. Un drago sorveglia la figura assorta nella propria bellezza, e pare un angelo che voglia ammonirla e difenderla. La modella del quadro era l'amante del pittore, e dopo la sua morte improvvisa impazzì".
Non sapevo perché, ma quel modo così semplice di raccontare mi riempiva di paura.
Si alzò il vento, spostando le nuvole dal sole. Ora ombre veloci intorbidavano l'acqua, e il laghetto sembrava l'orbita dell'occhio di un ciclope.
«Quella modella. prima che venisse quassù a cercare le radici del suo rododendro. io la conoscevo. Studiava pianoforte al Conservatorio di Vienna, nella stessa mia classe. Disperata, in procinto di andare a Maloja, mi raccontò della forza che la trascinava via dalla propria vita. Mi disse che era una forma di musica, ma una musica senza, sopra, alcun cielo. Aveva avuto una figlia da un'amante occasionale. Si chiamava Annie. Prima di partire, la affidò ad una coppia di musicisti venuti a studiare a Vienna dal Baltico».
Mia madre stese le mani verso di me, vicinissime al mio viso.
«Tu sei capace di amore come nessun altro. La passione per gli esseri viventi invade la tua anima, e ti fa seguire le vie dei canti. Eppure, comprendi? Oggi i rododendri sono pieni di veleno, pura vanità. L'amore, nei giorni futuri, porterà la follia, e ciò che accadde a quella modella, è il destino che si prepara all'intera nazione germanica. Tutti, negli anni, hanno tentato il cielo, senza sapere quale forza andavano evocando. L'idealismo romantico sta per partorire mostri. Tu, non essere complice. Dissecca la tua vena come pietra pomice, e contempla da saggio le macerie della storia. Non avrai, per questo, l'amore degli uomini, ma neppure la responsabilità della loro rovina».
Si fece presso il laghetto, ne raccolse tra le mani a coppa un po' d'acqua e tornata da me la versò sulla mia testa. In quel momento, i mondi di cieli lontani mi apparvero in strutture di suono.
Sopra la musica c'era un cielo dalla purezza inattingibile: un cielo dove fuggire per sempre dal tempo.
Alessandro Zignani
(tratto da "Il cielo sopra la musica", Florestano Edizioni, 2018)

domenica, novembre 10, 2024

Bruno Canino: Il Metodo

Bruno Canino (30 dicembre 1935)
Mettendo giù questi appunti, mi sono accorto appena in tempo del pericolo che correvo di descrivere non quello che è effettivamente il mio metodo di insegnare il pianoforte, ma un metodo utopico e ideale, cui sarebbe bello e "virtuoso" attenersi, se... se si avesse più tempo; se gli allievi fossero meno numerosi. e se fossero tutti diligenti e motivati e selezionati con cura; se i conservatori fossero scuole professionali; se io capace di cattiveria; se se se...
Insomma, nelle condizioni in cui si è costretti - anche per propria colpa - a lavorare, viene fuori un'affannosa e difficilmente descrivibile assenza di metodo: ma non è poi detto che una realistica asistematicità non possa non risultare produttiva, e che forse in essa, addirittura, si possa trovare la chiave di  successo di tanti insegnanti.
Naturalmente alcune convinzioni tecniche, musicali, pedagogiche, bisogna pur averle: ma la loro traduzione in opera deve essere inventata con intuito e perspicacia di volta in volta, sfuggendo alle trappole della routine; ho per esempio in orrore la lezione di durata fissa a scadenza regolare (i tedeschi la chiamavano Klavierstunde, l'ora di pianoforte, a sancirne quasi contrattualmente la misura). dove. come in un malinconico menu senza scelte. si parte dalla tecnica per arrivare, attraverso studi e Bach, al “pezzo” dove finalmente si assaggeranno le delizie del pedale e del rubato: non bisogna far adagiare l'allievo in questo prevedibile rituale, tenerlo sempre sul chi vive, e prima o poi capirà che dieci (o novanta) minuti di lavoro sopra una scala cromatica possono essere assai più utili per lui di questo tran tran; e più illuminante la lettura di una bella Ouverture di Mozart a 4 mani. Ma vediamo quelli che, al momento, considero i motivi conduttori del mio modo d'intendere l'insegnamento.
Autocoscienza e autoascolto. Suonare il pianoforte non è soltanto cosa razionale; ma certamente la ragione vi occupa gran posto. L'allievo piccolo o grande, deve sapere che a determinate azioni muscolari corrisponderanno determinati risultati sonori: e l'osservazione e l'autoascolto devono confermargli un'assoluta fiducia nell'obiettività di questa corrispondenza biunivoca.
Emancipazione. Assai per tempo, la scelta del tipo di azione tecnica - fra il repertorio di gesti appresi -conveniente alla specifica situazione musicale, va affidata all'allievo. Ma anche altre scelte, diteggiature, pedali, persino scelte stilistiche e formali gli vanno giudiziosamente lasciate, senza indignazione professorale per eventuali gaffes: e ci si compiaccia di accettare decisioni divergenti dalle proprie, purché fondate su un comunicabile criterio valido, e non su casualità e faciloneria.
Amore per la musica. Se la musica non piace, non si conosce, non interessa, o interessa solo per essere promossi agli esami o per vincere concorsi, insegnare o imparare a suonare diventa insensata e avvilente fatica. L'insegnante deve dimostrare questa passione anche nel decimo riascolto di un brutto studio, e deve approfittare di ogni appiglio l'allievo gli offra per comunicargliela. Nulla di più deprimente dell'allievo che. all'offerta “Cosa ti piacerebbe studiare?". risponde “Faccia lei, tanto per me e lo stesso".
Fedeltà al testo. Il testo non dice tutto sull'esecuzione di un pezzo, ma tutto ciò che dice è prezioso. Mozart era di certo miglior musicista e più competente sul suo stile di quanto non lo fosse Casella; se ha adoperato quelle legature e quei segni di staccato,  cerchiamo di fare ciò che chiede: e Liszt era più preciso e geniale di Horowitz, e Debussy più sottile di Benedetti Michelangeli. Oltre tutto, seguire alla lettera le indicazioni del compositore ci libera da molti falsi problemi.
Continuità. Un pianista può avere bel suono, intelligenza e senso musicale: ma queste doti gli sono inservibili se non è capace di suonare due righe di seguito senza fermarsi. La capacità di concentrazione prolungata è dote che specificamente si richiede al pianista, ed è tra le più difficili da insegnare. Non interrompere un pezzo, ascoltarlo tutto con i suoi bravi ritornelli, anche se già alla prima battuta si sa cosa sarebbe utile dire, e anche se la prossima lezione incombe e la classe è stracolma.
Alcuni codicilli. Trattare non più di un paio di problemi tecnici per volta, possibilmente relativi al materiale musicale che si sta lavorando. Diffidare di un'eccessiva gradualità nella scelta dei pezzi: il rischio di un pezzo un pochino più lungo della gamba permetterà di ripercorrere gradini inferiori con ben altra sicurezza e autocontrollo.
Pretendere già alla prima lettura che l'allievo presenti una sua certa qual idea del pezzo: che, per essere plausibile e per inquadrare giustamente la forma e le difficoltà che ci aspettano, dovrà "tenere" dei tempi non esageratamente lontani da quelli che si presume convenienti all'esecuzione finale. In altre parole un "allegro" potrà declinare in un "moderato" ma non certo in un “adagio"; e l'adagio, apparentemente senza problemi, non dovrà per questo scivolare in un “andante scorrevole". (Per lo stesso motivo è per me totalmente incomprensibile l'uso di lavorare in fortissimo i passaggi da eseguire piano).
Soltanto dopo questa prima lettura globale, isolare e lavorare separatamente i passaggi problematici. Indispensabile mi sembra il ricorso a varianti ritmiche e combinatorie: non nell'idea di complicare le cose semplici, ma nell'intento di individuare e correggere l'eventuale cattivo funzionamento: come fermare l'immagine in un film per meglio osservare un particolare. Tutto questo. insisto, deve avvenire nell'ambito dinamico e nella scelta di suono che si ritengono appropriati anche per l'esecuzione.
Il metronomo non serve certo per andare a tempo, ché la musica non si suona quasi mai in tempo, ma è insostituibile come misuratore e controllore delle nostre incapacità e dei nostri progressi.
Così smontato e velocizzato il passaggio, va poi reinserito nel contesto del pezzo, la cui respirazione e il cui equilibrio formale sono così continuamente da modificare e ricontrollare.
Un'ultima  importante convinzione: individuare per tempo i punti deboli dell'allievo (cantabilità, pedalizzazione, scarsa resistenza fisica o psicologica; innaturalezza di fraseggio; eccetera) e scegliere pezzi ad hoc che aiutino a combattere questo specifico difetto.
Ma sono per caso rientrato nel paese di utopia?
Bruno Canino

venerdì, novembre 01, 2024

Maria Tipo: First Lady del Pianoforte

Maria Tipo (1931)
Maria Tipo da oltre venticinque anni vive nei dintorni di Firenze, in una splendida villa che domina un paesaggio da mozzafiato della città con l'Arno a gomito. Ci accoglie con affabilità e franchezza tutta napoletana nel grande salotto di casa, accanto allo studio in cui troneggiano due pianoforti a coda letteralmente coperti di fotografie di grandi artisti, maestri, colleghi, amici, allievi. Sorseggiando lievemente un thè, comincia il racconto.

Come si è avvicinata alla musica?
È molto semplice, mia mamma era pianista e compositrice. Sicché io ho sentito musica prima di nascere: pensi che io sono nata alle 3 di notte e mia madre aveva suonato fino a mezzanotte, con il pancione. Probabilmente ho ereditato il suo talento. All'età di tre anni e mezzo, sono andata io al pianoforte, da sola, e ho cominciato a trovarmi le musichette, dei motivi, le scale. Sentivo gli allievi della mamma che dava lezioni e ho cominciato ad imitarli. Una sera la mamma è tornata a casa e ha sentito suonare il pianoforte. Ha chiesto a mio padre di andare a vedere chi fosse: ero io che mi ero sistemata i cuscini perché non arrivavo alla tastiera e avevo suonato, pare, tutto il pomeriggio.
Non è stata costretta?
No perché ero troppo piccola. La mamma ci aveva provato con le mie sorelle maggiori ma aveva rinunciato. A me non aveva ancora pensato perché non si mette al piano un bambino di tre anni e mezzo. A quattro anni feci il mio primo concertino fra gli allievi della mamma, e suonai un brano della Sonata op.49 di Beethoven. Quando vedo dei bambini di quattro anni, mi chiedo ancora: come facevo? Per fortuna non fui sfruttata come enfant-prodige. Studiavo seriamente e ogni anno suonavo per gli amici di famiglia in salotto e mi meravigliavo che la gente si commuovesse ad ascoltarmi: per me era così facile.
La teoria musicale l'ha studiata più avanti?
Sì, sempre con la mamma. Feci il quinto prima della guerra. Prima del diploma però, partecipai al Concorso di Ginevra: avevo 16 anni e qualcuno decise che ero pronta per un concorso internazionale. Andai e vinsi. Quando tomai a Napoli mi diedero il diploma "ad honorem".
Quindi non ha mai frequentato il Conservatorio?
No, mai. Ho avuto la fortuna di trovare in mia madre una musicista completa che mi ha trattato come un'allieva normalissima, non come un fenomeno. Ero una ragazzina dotata che studiava, studiava: solo al Concorso di Ginevra presi coscienza del mio stato, e da quel giorno cominciai uno studio ed un approfondimento della musica che mi investiva in prima persona, perché, improvvisamente, c'erano i concerti da fare.
A quale scuola pianistica apparteneva sua madre?
Al Conservatorio era stata allieva di Romaniello, un allievo di Anton Rubinstein, al tempo in cui Martucci era direttore. Poi conobbe Ferruccio Busoni e si fece ascoltare da Paderewski in America. Ebbe modo di ascoltare tutti i più grandi, da Hoffmann a Lhevinne. Quando le parlavo dei grandi di allora, Benedetti Michelangeli, Horowitz, lei non si stupiva più di tanto: aveva ascoltato dei grandissimi.
Quali furono i primi contatti con altri musicisti?
Il primo fu con Alfredo Casella: quando avevo nove anni mia madre, che era molto critica, volle portarmi da lui. «Io sono la mamma, forse stravedo». Casella mi ascoltò e disse «Non perdere tempo, devi fare subito Beethoven, subito le grosse sonate, Liszt, gli studi di Chopin». Dopo qualche anno, prima del Ginevra, studiai un intero anno con lui a Roma. Molto repertorio, i classici e soprattutto Mozart. Tutto il lavoro sul suono che avevo fatto a casa, con lui venne confermato e portato a perfezione. Purtroppo morì, e allora continuai per un po' con Guido Agosti, un  altro grandissimo maestro. Poi venne il concorso e quindi la carriera.
Qualche ricordo musicale della sua infanzia?
Non molti, perché mia madre non mi portava molto ai concerti: si era come un po' distaccata dal mondo musicale. Ricordo l'impressione che provai all'ascolto di Arturo Benedetti Michelangeli e di quello che riusciva a fare in Ravel. Poi i concerti di Rubinstein e di Kempff, o i concerti di Franco Ferrara alla Scarlatti.
Come si svolse il Ginevra?
A Santa Cecilia c'era la possibilità di vincere una borsa di studio per coprire le spese del Concorso: andai ma non la vinsi. Tutti dicevano che suonavo benissimo ma che non avrei mai potuto partecipare a un concorso così grosso. Mia madre non si diede per vinta e organizzò un concerto privato al Cenacolo Belvedere; dopo il concerto fu organizzata una specie di colletta per pagarmi le spese del concorso. Ci andai con una responsabilità enorme. Per fortuna vinsi all'unanimità.
Qualche ricordo particolare di quella esperienza?
Mio padre aveva seguito coscienziosamente le prove di tutti gli altri concorrenti e si era accorto che tutti suonavano Bach in modo molto diverso da me. Io l'avevo lavorato molto con mia madre, con tempi originali, accenti particolari: lei mi disse di suonare come avevo sempre fatto, ma di osservare la giuria mentre suonavo Bach. Appena cominciai la Seconda Partita in do minore con i miei tempi larghi, li vidi guardarsi in faccia. Era già un buon segnale. Continuai con la Seconda Ballata di Chopin ed il resto del programma. Alla fine la giuria si alzò in piedi ad applaudire: una cosa straordinaria, era successo solamente per Michelangeli qualche anno prima.
Chi c'era in giuria?
Ricordo Malipiero, il compositore, ed Edwin Fischer, che a mia madre disse: «Pochi concerti, signora, mi raccomando. Musicalmente nessun consiglio, è perfetta così com'è››.
Cosa si vinceva?
Una somma in denaro molto modesta. Poi qualche concerto in Italia, non molti, per fortuna. A Ginevra mi avvicinò un famoso impresario americano, lo stesso di Friedrich Gulda che aveva vinto qualche anno prima e che mi voleva per una lunga tournée in Sud America. Mia madre reagì «Cosa? Mia figlia in America? No, si torna a casa a studiare, punto e a capo». Ci rimasi molto male, ma aveva ragione. Fino ai 20 anni feci pochi concerti, magari pagati poco, ma solo quelli giusti, a Trieste, Roma, Milano. Quando avevo 20 armi mio padre tornò a casa col bando del Concorso di Bruxelles dicendo: questo fa  per te, c'è anche un concerto da imparare in 8 giorni, un pezzo moderno in due mesi. Vinsi solo il terzo premio, ma in commissione c'era Rubinstein che dopo il concorso mi disse: «Qui ci vuole lavoro, comincia 1'America sul serio, non sei più una ragazzina». Parlò con il suo impresario Soul Hurok, il quale dopo un'audizione a Parigi mi scritturò immediatamente. E lì è cominciata la botta: per dieci anni ho fatto la concertista a tempo pieno. Tournées incredibili. Dai venti ai trent'anni ho fatto solo concerti in tutto il mondo, a ritmi massacranti. La mia vita di donna non esisteva quasi più. Un anno sono stata 4 mesi in America per fare 60-70 concerti. Prima il Nord America, poi il Sud America, sempre in viaggio, aerei, bagagli, mai un attimo di tregua, per anni non ho conosciuto l'estate. Grande successo, grandi concerti, grande soddisfazione, però a un certo punto mi sono chiesta: deve essere così tutta la vita? Fare la valigia e partire? Suonare e viaggiare? Facevo degli incontri importantissimi e il giorno dopo si ripartiva... No, non era possibile. Bisognava vivere, avere dei guai, avere dei figli, un marito, insomma, una vita normale. Dopo i trent'anni la mia è stata una lotta continua per riappropriarmi della mia vita privata.
Ricorda qualche incontro particolare di quel periodo, qualche direttore d'orchestra con cui ha suonato?
Molti che non ci sono più, purtroppo. Ernest Ansermet, con cui suonai in Eurovisione da Ginevra il Terzo di Prokofiev, Karl Böhm, importantissimo perché i primi concerti di Mozart li ho suonati con lui. Non mi diceva niente, solo che era perfetto come io suonavo Mozart. Mi ascoltò a Napoli e mi disse: «Devi assolutamente venire in Germania a far sentire ai tedeschi come si suona Mozart». Oggi consideriamo Böhm un interprete molto rigido, molto "tedesco", ma a lui piaceva il mio Mozart "latino›". Ho suonato anche con il grande Erich Kleiber, con Jonel Perlea, con cui incisi un disco per la Vox, con Sir John Barbirolli, con Fritz Reiner, con cui debuttai nel Quarto Concerto di Beethoven a Chicago. Non ho nulla da raccontare su questo grande, perché a lui sembrava fantastico che io suonassi così. Era un uomo di poche parole e di gesti piccolissimi.
Ha mai avuto qualche scontro?
Una volta con Wolfgang Sawallisch, forse perché è anche un ottimo pianista. Lui era molto giovane, io pure, dovevamo suonare il K 503 di Mozart a Bruxelles. Non gli piaceva come concepivo il concerto. Era nervoso, ad un certo punto mi chiese a bruciapelo: «Con chi ha studiato?›› Ci rimasi male, però il concerto fu bellissimo. In effetti non ci fu proprio uno scontro. Anche a Isaac Dobrowen piacque come io suonavo. Forse suonavo bene!
Questo è sicuro! A volte però per visioni interpretative distanti si può anche litigare.
No, questo mai. Certo, ero molto aperta, molto pronta ad apprendere qualunque cosa. Certo, ispirazioni da altri artisti le ho ricevute, da Rubinstein per esempio, che per me  era sempre grande.
Lo ha conosciuto bene?
Sì, l'ho conosciuto a Bruxelles dove era in giuria. Alla fine mi disse: "Per me lei era il primo premio. Però, mia cara, le colleghe donne (Marguerite Long e Magda Tagliaferro) probabilmente non hanno votato per lei. Il vincitore? Lo conosco già, un gran pianista, però per me la rivelazione del concorso è lei, con quel suono!". Dopo la premiazione volle ascoltarmi ancora privatamente: gli suonai molti pezzi che non erano in concorso per tutto un pomeriggio.
Le diede qualche consiglia sulla carriera?
L'unico consiglio fu di "andare in America, ma dalla porta grande". Lo rividi a New York e poi due volte a Parigi. Una volta era a Firenze e venne a sapere che avevo avuto una bambina e che l'avevo chiamata con lo stesso nome di sua figlia, Alina (ma in realtà era in onore di una mia cara amica di Trieste). Passò dal fioraio e mi mandò un grandissimo mazzo di rose con un biglietto: «Ho saputo che hai avuto questa bambina, Alina, è meraviglioso!››. Era un uomo particolare. Dopo la sua morte sono rimasta molto affezionata a sua moglie Nella. Quando suono a Parigi, lei viene sempre ad ascoltarmi.
Quanti concerti riusciva a fare in quel periodo?
Anche 150 per anno, in tutti i paesi, in tutte le università americane, con tutte le orchestre. Troppi. Certe volte tornavo in Italia e pensavo: come, fra pochi mesi si comincia di nuovo? Vedevo che mi mancava il tempo di preparare le cose come le volevo io. Certe volte partivo e sentivo di non essere pronta.
Quindi a volte ha conosciuto la paura?
La paura sempre, ci convivo con la paura! 
Non lo si direbbe ascoltandola in concerto.
Perché non lo mostro.
Cos'è la paura?
Credo che venga dal desiderio di volere fare molto bene, di volere fare meglio, e la paura insorge perché si sa che il concerto ogni volta è un fatto nuovo, è un quadro che tu devi fare lì per lì, alle 9 e non alle 9,15 0 alle 8,30. E devi essere pronta perché devono riuscire tutte queste cose che tu vuoi fare; basta una nota sporca e quello che si voleva fare non viene. Chi ha coscienza di ciò deve per forza avere paura, ogni volta può succedere un  imprevisto: la sala, l'acustica, il pianoforte, come ci si sente. Alla fine di ogni concerto in cui sono contenta mi dico sempre «è un miracolo», e quasi lo considero un fatto straordinario che il concerto sia venuto bene.
Qualche volta si è tirata indietro per la paura?
Mai, se succede una volta poi ti succede sempre. No, è una sfida. Gli ultimi dieci minuti prima di entrare in scena sono tremendi. Certe volte pensi che sarà un disastro e allora speri che succeda qualcosa, che il concerto venga annullato: mancherà la luce, verranno a dirmi che il concerto non si fa. E quello sarebbe un sollievo alla paura.
Un suo grande collega spesso annulla il concerto adducendo le scuse più incredibili, l'umidità dell'aria, l'accordatura del piano. Invece è forse la paura che lo blocca.
Sì, l'ho sempre pensato anch'io. Mi sono sentita molto vicina a lui perché è un perfezionista, lavora al pianoforte fino all'ultimo a perché pensa che qualcosa non gli verrà bene. E allora ha il coraggio di annullare. Io non l'ho mai fatto. La volta che ho avuto più paura poi sono venuti a dirmi in camerino che è stato il più bel concerto della mia vita. Quando invece sono tranquilla, il concerto viene così così.
Sente la necessita di suonare in pubblico?
No. La risposta la delude?
È interessante perché credevo che fosse nata per suonare in pubblico.
Io no, l'ho fatto perché dovevo farlo, perché mi ci sono trovata dentro molto giovane, perché quella era la mia vita, il mio lavoro. Non ho saputo fare altre cose. Mi sono detta spesso: se fossi molto ricca, forse lascerei. Mi ha sempre molto pesato tutto il contorno: i viaggi, il fatto di trovarmi sempre in un posto diverso. A me piace stare nel mio cantuccio. Ho fatto tutto con sforzo. Poi il fatto di mostrarmi in pubblico non mi è mai piaciuto.
Non è esibizionista?
No.
È una delle doti di un concertista.
Purtroppo. Lo vedo anche nei miei allievi: quello più esibizionista avrà la vita più facile, perlomeno sarà più felice. Io soffro sempre da morire. C'è invece chi mentre suona si bea, ed è certo più felice, perché si ama. Io sono sempre in crisi, mi critico mentre suono, sono piena di dubbi.
Ancora oggi?
Sì, perché dovrebbe essere il contrario? Oggi chi me la dà la sicurezza? L'età? Sì, c'è un passato, però ogni giorno è un giorno nuovo. Quando entro in pubblico debbo fare come fossi in una scena, e allora ho un'aria che sembra...
Da dominatrice.
Me la impongo. Non posso avere l'aria da intimidita. Percorro quei fatidici dieci passi fino al seggiolino del pianoforte. Sono dieci passi importanti, sono molto decisa, molto determinata, vado con un passo sicurissimo perché questa cosa deve succedere, l'ho pensata, ho lavorato per questo. Sarebbe una delusione tremenda se tornassi indietro. Sono già nel concerto, ci sono dentro già nel camerino mentre mi vesto, mentre mi preparo.
L'artista pubblico dovrebbe provare piacere nel suonare.
Certo, quando suono mi piace molto, ma il farlo davanti agli altri è un'altra cosa. Le gioie che io provo da sola, quando scopro le partiture, le suono e poi studio per farle venire bene, questo è un momento meraviglioso per me. L'altro no, è una responsabilità.
Potrebbe stare senza musica?
Tutto si può fare. Certo, non mi ammazzerei, l'ho sempre pensato che può venire un momento in cui potrei non suonare più. In questo non mi illudo: la musica per me non è una droga.
Cosa le fa superare tutte le difficoltà della carriera? Il denaro, la fama, l'applauso? Oppure l'amore per la musica?
La consapevolezza che in fondo io ho ricevuto delle doti in eredità, non è né una colpa, né un merito. Sono nata per fare questo. E lo faccio con forza di volontà, di carattere.
Quali sono i principali problemi per una donna concertista?
L'uomo può pensare alla carriera al 100%; la  donna invece è nata per fare altro, la famiglia, quindi se per caso ha del talento, deve fare l'uno e l'altro. Io mi domando, quanti uomini avrebbero potuto fare quelle carriere che hanno fatto se avessero dovuto fare figli, badare alla casa, al marito, alle mamme, ai vecchi, ai nipoti? Noi non lo sappiamo ma chissà quante donne hanno rinunciato: per una che ne arriva ce ne sono 80 che restano indietro, di questo sono sicura.
Quando incise il suo prima disco?
A New York, nel 1952, alla Vox Turnabout.  Scelsero Scarlatti, che è sempre stata la mia specialità. In America lo aveva fatto solo  Horowitz e la pianista brasiliana Guiomar Novaes. Mi diedero tre giorni per incidere.  Bastò una seduta sola, perché suonai tutto di  seguito, senza interruzione, 12 Sonate, perfette. I tecnici mi dissero che alla Novaes non erano bastati tre giorni per tre sonate, e io le avevo già incise. Fu un'esperienza elettrizzante. Il disco ebbe un grandissimo successo: lo hanno ristampato l'anno scorso in compact disc assieme ai due concerti di Mozart con Perlea.
Ascoltò Horowitz in quel periodo?
Sì, certo.
Si può dire che lei abbia appreso qualcosa da lui?
No. Non l'ho mai imitato. lo ho un altro tipo di tocco. Certo lui le ha suonate come un grande, ma io ho la presunzione di dire che nel mio modo di suonare Scarlatti c'è una componente di "napoletanità" che a lui manca. Ci sono probabilmente cose di Scarlatti che per me sono congeniali, il fraseggio, la cantabilità tipica della canzone napoletana, il ritmo spagnolo. Horowitz è sempre stato russo e, comunque, tra quelli che suonano Scarlatti è il migliore.
Come studia? Se studia ancora, perché Richter, per esempio, dice che lui non ha mai studiato, ha sempre solo suonato.
Beato lui! Esiste una pratica, c'è un allenamento, una maniera di accostarsi già al mattino. Intanto devi sentirti sciolto, e quindi io comincio sempre con delle scale, delle ottave, per prendere contatto con la tastiera. Io sono distratta e non potrei sedermi al pianoforte e iniziare subito una "111" di primo mattino. E allora muovo le dita così e intanto mi sciolgo, e questo fa molto bene.
Lo fa sempre?
Quasi sempre, e anche i miei allievi: del resto una ballerina non fa un po' di sbarra prima di ballare? E un atleta non scalda i muscoli prima di correre? Basta un quarto d'ora, dieci minuti e dopo puoi cominciare a lavorare al concerto che devi preparare. Io lavoro bene alla mattina, al pomeriggio già sono più distratta, la sera quasi mai.
Si favoleggia che Michelangeli studia solo di notte.
Perché, Martha Argerich no? Comincia a mezzanotte, quando noi abbiamo salutato gli amici, e studia fino alle 6 del mattino. Poi va a letto e chi la vede più fino alle 4 del pomeriggio? Avendo questi ritmi per lei è tremendo andare a fare le prove con l'orchestra alle 10 del mattino, è come alzarsi alle 3 di notte. A me di sera mi piace leggere, mi piace parlare con gli amici. Ma non sono fissata. La musica mi piace da morire, però mi piacciono anche altre cose, il cinema, il teatro, la lettura, insomma mi piace vivere, stare da sola, stare zitta, pensare senza fare nulla, sola con i miei pensieri.
Quando sente di non avere più bisogno dello spartito?
Per pigrizia certe volte. Certe volte non lo apro addirittura perché sento che può già venire; comincio e mi viene a memoria quasi naturalmente. Poi lo riapro per verificare qualcosa. Ma non mi sono mai imposta di imparare a memoria.
Secondo lei per un pianista è importante suonare a memoria?
Mi pare di sì. Ci ho ragionato: ad una certa età la memoria si perde anche, soprattutto si perde quella recente. Per esempio io le posso suonare perfettamente delle cose studiate a 15 anni, a 20 anni, a 30, è come se fossero rimaste incollate. Quello che io ho imparato dai 30 anni ai 40 è semi-incollato, dai 40 ai 50 anni al 25%, dopo i 50 anni di quello che ho imparato niente resta incollato. Devo riprendere la musica. Suonare a memoria è bello perché è una conferma che la cosa la sai veramente, è tua.
Richter dice che è ingiusto suonare a memoria perché si perde tanto tempo.
Richter può suonare come vuole, nessuno può permettersi di discuterlo. Lui invece si giustifica con quella dichiarazione che fa pubblicare sui programmi di sala: la trovo assurda. Io ho una figlia violinista che suona a memoria il quartetto. Fino a quando lo potrà fare, è molto bello. Certo un domani, quando avranno 50, 60 quartetti in repertorio, verrà un momento in cui non lo potranno più fare.
Ha fatto musica da camera?
Per dieci anni ho fatto tutto il repertorio pianistico a quattro mani e per due pianoforti con Alessandro Specchi. Poi ho suonato con Salvatore Accardo e il suo Quintetto, con il Quartetto Amadeus e con Uto Ughi. Niente con il violoncello. Mi è mancata anche 1'esperienza del Lied, e mi dispiace molto. Con Uto Ughi abbiamo fatto molti concerti, abbiamo inciso anche due sonate di Mozart. Con lui c'era in progetto l'incisione integrale delle Sonate di Mozart e di Beethoven, ma problemi contrattuali con le relative etichette ce l'hanno impedito. È uno dei grandi rimpianti della mia vita, perché con Uto mi sono trovata musicalmente bene, è un artista che adoro, e penso che anche lui si sia trovato bene con me.
Quando ha cominciato a insegnare?
Dopo i trent'anni. Dopo il matrimonio ho insegnato al Conservatorio di Bolzano e poi per 15 anni a quello di Firenze. Poi l'ho lasciato perché non ho voluto rinunciare alla mia attività concertistica e alle master class. Poi ho insegnato a Ginevra. Oggi insegno solo ai corsi di Fiesole, nella Scuola di Piero Farulli.
Si è mai trovata a dovere insegnare a qualcuno che proprio non sa come mettere le mani sulla tastiera?
Andrea Lucchesini l'ho messo io al pianoforte a sei anni. Faceva qualche canzonetta con una sinistra messa male, ma aveva già un orecchio straordinario. L'ho avuto in Conservatorio fuori orario perché a quell'età non si poteva prendere. D'accordo col direttore dicemmo: il ragazzino vale, teniamolo come uditore; io però gli facevo lezione lo stesso. Mi divertiva mettere al piano un bambino così dotato. È molto più difficile quando ti arrivano certi talenti che sanno già suonare ma che tecnicamente sono un disastro. Lì bisogna tornare indietro. E qualche volta ci si riesce.
Parliamo della sua famosa incisione delle Variazioni Goldberg di Bach. Quando ha cominciato a suonarle?
Ho cominciato verso i 35 anni, senza pensare di portarle in pubblico. Fu determinante 1'uscita del disco di Glenn Gould. Avevo ascoltato un'esecuzione anni prima al clavicembalo, ma non ne avevo afferrato la bellezza. Glenn Gould me le fece scoprire, poi divenni pazza per l'esecuzione della Landowska, finché decisi di studiarle. Poi qualcuno mi propose di farle in pubblico.
Con tutti i ritornelli e senza intervallo?
Certamente. Capii subito che non si poteva fare che così. Qualche collega le suona senza ritornelli e magari fa seguire una Sonata di Schubert. Lo trovo assurdo. Pensi che una volta in Olanda ho dovuto pagare io il bar perché senza l'intervallo loro non potevano lavorare.
Qualche anno fa ha intrapreso un imponente lavoro con la Fonit Cetra per l'incisione dell'integrale di Clementi. Per il pubblico lei è ancora un po'...
La Signora Clementi.
Le pesa questa specie di etichetta?
No, mi piace, io sono un'innamorata di Clementi, penso che l'avrei sposato se fossi nata nella sua epoca. Ho sempre suonato Clementi, mi piace, Lo trovo spiritoso, lo trovo intelligente; mi piace la sua maniera di affrontare il pianoforte, è il «Beethoven un po' prima» e io sono molto fiera che sia italiano. Mi dispiace che gli italiani non lo suonino. Degli stranieri solo Horowitz l'ha amato e l'ha reso in un modo fantastico. Mi ero impegnata a fare l'opera completa, ma il lavoro si è fermato al quinto volume perché non c'erano più soldi. Poi due anni fa ho fatto un compact con la Emi con alcune sonate fra le più belle.
L'ultimo disco?
L'integrale dei Notturni di Chopin.
Progetti per il futuro?
Forse il Clavicembalo ben temperato, qualcosa di Schumann. Ma non c'è ancora niente di definito.
Coltiva qualche hobby?
La mia casa, i fiori. Amo gli oggetti, i mobili. Poi la montagna: ora ho una casa sull'Appennino pistoiese, a un'ora e mezza da qui. Ci muoio dietro. Ho amato le Dolomiti per una vita ma per avere una casa erano troppo lontane. Sull'Appenino invece ho conosciuto Cutigliano, un paesino medioevale da sogno, sui 700 metri. Io sto un po' più in alto,  sui mille metri. Un paradiso. Vorrei stare sempre lì.
Una napoletana che ama la montagna? E il mare?
Il mare è stata la passione della gioventù, poi passa, viene un momento in cui bisogna meditare e il mare non aiuta a meditare.
Alberto Spano
("Symphonia" N° 45 Anno V, dicembre 1994)