Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, febbraio 09, 2025

La Reverdie: Musica antica tra passione e ricerca


Due coppie di sorelle - Claudia e Livia Caffagni, Elisabetta ed Ella De' Mircovich -, uno dei più abili suonatori di cornetto muto della scena internazionale - Doron David Sherwin -, alcuni ospiti a pieno titolo inseriti nel gruppo e coinvolti nei vari progetti- Claudia Pasetto, Matteo Zenatti, Elena Bertuzzi, e diversi altri - una grande capacita di coinvolgere e di emozionare. La Reverdie è una delle più belle realtà della musica antica italiana. Li abbiamo incontrati poco prima di un concerto e, attraverso le parole di Ella De' Mircovich e Claudia Caffagni, abbiamo cercato di tracciare un loro profilo.

Cominciamo con una banalità. Come nasce La Reverdie e perché La Reverdie, ossia il nome...
Il nome è un retaggio del tempo antico, quando eravamo più giovani, e voleva richiamare il verdeggiamento implicito in un termine usato per quel genere medievale che canta il ritorno della primavera. Ci pareva che, oltre a essere di buon auspicio, riflettesse un certo senso di novità e di freschezza: eravamo vogliosi e in parte sicuri di poter contribuire a uno svecchiamento di ciò che si faceva sulla scena della musica medievale. Effettivamente in seguito abbiamo pensato più volte di apportare modifiche al nome, perché il senso della verzura è passato... Però, come capita, ci si affeziona. Dobbiamo dire infine che il colore verde ci piaceva e ci piace tuttora. In ogni caso, il termine rimanda a un genere letterario e quindi musicale.
Il vostro gruppo è nato, come spesso capita, in conservatorio? Come si e formato?
Ha delle basi genealogiche, in quanto il nucleo si è formato attraverso l'incontro di due coppie di sorelle ed è nato, come tanti gruppi di musica medievale o di musica antica in genere, attraverso la frequentazione parallela di altri gruppi. All'epoca, fine anni Settanta primi anni Ottanta, c'era un grande fermento e questi gruppi spesso si rimescolavano. Noi ci siamo conosciute, fra sorelle, in un gruppo che non esiste più e in effetti il nucleo iniziale de La Reverdie era diverso: una sorella di ciascuna coppia, io - Ella - e Claudia - Caffagni -, più un liutista. Nell'86 c'è stata la crisi che ha fatto precipitare - in senso chimico - la soluzione. Giorgio Albertazzi stava intraprendendo una sorta di tournée con annesso stage per giovani attori, il tutto incentrato su Federico II di Svevia. Erano previsti avvenimenti collaterali e vi era l'intenzione di mettere su un evento musicale autonomo rispetto allo spettacolo. In quel caso, dato che La Reverdie primigenea in realtà faceva un repertorio non proprio fine Medioevo-primo Rinascimento, abbiamo operato per così dire una virata repertoriale chiamando le due rispettive sorelle che si sono prestate a questo gioco. Abbiamo compiuto una lunga tournée fra la Puglia, la Basilicata e la Campania, nei molti castelli di Federico II, abbiamo visto che il gruppo era compatto e cosi è iniziata La Reverdie in senso stretto.
Di quante persone consta ora effettivamente il gruppo?
Possiamo dire che il gruppo originario era composto stabilmente dalle due coppie di sorelle. Poi nel 1993 ha iniziato a collaborare con noi in maniera praticamente stabile - se non altro nei progetti principali - Doron David Sherwin, famoso cornettista che per altro abbiamo inglobato nella formazione usufruendone non solo in qualità di suonatore di cornetto muto, la versione più arcaica del cornetto, ma anche come cantante e percussionista. A dir la verità lavoravamo così bene tra noi che non ci nascondevamo un po' il timore di aprirci ad altre collaborazioni: c'era quest'aria di famiglia difficile da spezzare e un senso, per cosi dire, di autarchia. In seguito, volendo ampliare il repertorio, abbiamo iniziato a collaborare con altri cantanti in vista di progetti più grandi: in particolare abbiamo iniziato delle collaborazioni esterne per allestire programmi dedicati alle laude italiane per le quali non si poteva pensare solo a un nucleo di voci femminili con una sola voce maschile di supporto. Volevamo un effetto di coro misto e per forza di cose abbiamo cercato la collaborazione con diversi cantanti. Successivamente c'è stato un progetto con i Cantori Gregoriani diretti da Fulvio Rampi: una collaborazione tra gruppi, e non solo aggiunta di persone singole. Quell'esperienza ci ha convinto che in caso di necessità poteva essere molto fruttuoso lavorare con altre persone od organismi. Per certi versi, più persone vengono coinvolte in un progetto e più varietà di soluzioni è possibile ottenere. Naturalmente ci deve essere sintonia e affinità.
Siete principalmente un gruppo vocale, ma con un ricercato abbinamento strumentale. Inoltre, tutti gli esponenti del gruppo cantano. Scorrendo sulle note di copertina si nota appunto: voci e strumenti. Questo non capita molto spesso, credo... Come scegliete le strumentazioni dei brani che desiderate interpretare?
Crediamo che il discorso debba essere capovolto, nel senso che il gruppo nacque quasi più come gruppo strumentale che come vocale: all'inizio le due sorelle De Mircovich cantavano e suonavano, mentre gli altri suonavano. C`è da dire comunque che il concetto di cantante-strumentista di per sé è molto medievale, nonostante possa sembrare invenzione moderna se pensiamo al fenomeno dei cantautori... In realtà noi abbiamo determinate competenze strumentali e in base a quelle operiamo le nostre scelte musicali. Per intenderci, non ci metteremo mai a far musica da strada visto che nel nostro organico nessuno suona le bombarde o le grosse percussioni. Dallo strumentario e dagli impasti vocali a disposizione optiamo per un tipo di repertorio piuttosto che un altro avvalendoci anche dello studio delle fonti iconografiche, letterarie e documentarie in genere che autorizzano delle scelte.
Avete avuto dei punti di riferimento che vi hanno messo sulla strada sulla quale ora state viaggiando? Mi riferisco ad artisti, a gruppi o a figure carismatiche...
Possiamo dire che ognuno di noi ha avuto dei rapporti, anche affettivi, con alcuni esponenti di punta della scena della musica antica, però non so quanto poi realmente abbiano influenzato il nostro stile. Possono forse averci influenzato nella voglia di fare, nel fascino, nell'ispirazione. Essendo questo un gruppo senza direttore, ognuno di noi porta qualcosa del suo background all'interno della formazione, anche esperienze che con la musica antica o medievale hanno poco a che fare. C'è quindi un apporto complessivo per cui alla fine i riferimenti si sfilacciano, ed è difficile rintracciarne uno solo. Crediamo che il nostro stile, il nostro modo di interpretare e di fare musica medievale, come d'altronde succede a molti gruppi, è il risultato del contributo dei componenti.
Siete quindi un gruppo sostanzialmente "democratico"...
Direi di sì.
Ed è facile o difficile?
Direi che si fa tanta confusione, per lo meno sulle prime! La democrazia è faticosa e disordinata, ma alla fine, secondo noi, l'apporto di tutti fa crescere indubbiamente il livello complessivo. Ognuno si sente parte in causa ed è portato per questo a dare il massimo. E poi comunque il confronto aumenta la flessibilità: crediamo sia uno dei punti forti di questo approccio, proprio perché sono diverse le teste che pensano. Vi è così un'enorme adattabilità e flessibilità e anche mutevolezza nel tempo, non ci si cristallizza mai, anche stilisticamente. Tutto questo a seconda del repertorio, a seconda degli umori e anche a seconda di interessi specifici che si sono via via sviluppati nelle singole persone e che sono stati riversati nel lavoro comune da cui poi scaturisce il 'suono' del gruppo.
Detto questo, come decidete il repertorio da affrontare? Puntate sulle monografie - come nel CD dedicato a Dufay e dintorni -, sui temi specifici (Voyage en Italie) - come nell'ultimo uscito dedicato l'immagine di Maria nell'opera di Hildegard von Bingen - oppure dipende dal periodo o dai vostri interessi contingenti?
Ci sono state delle fasi: inizialmente, forse anche per le circostanze in cui nacque il gruppo, avevamo intrapreso questo filone delle miscellanee a tema non obbligatoriamente musicale. Ad esempio il ciclo dedicato a Federico II reale e immaginario che però non è mai stato inciso. Poi ci sono stati, tra gli altri: Bestiarium, Insula feminarum, Suso in Italia bella, O tu cara scienza, tutta una serie di programmi e di proposte in cui confluivano repertori anche diversi sia geograficamente sia storicamente, - comunque sempre nell'ambito del periodo medievale, diciamo entro la fine del Trecento - in cui i pezzi erano in qualche modo connessi da motivi testuali. Ci interessava il filo rosso dell'argomento, del tema da sviscerare. Poi, diciamo dalla metà degli anni Novanta, abbiamo iniziato a occuparci anche di monografie che potevano essere dedicate a un genere o a un autore, oppure a un aspetto particolare di un autore, come nel caso del programma su Ildegarda von Bingen, inciso nel 1999 e uscito in questo periodo. Adesso stiamo lavorando a un progetto su Jacopo da Bologna. C'è però da dire una cosa: spesso, proprio perché c'è un`apertura a quello che succede intorno, l'interesse verso un autore o un tema non nasce solo ed esclusivamente per iniziativa interna. Nox Lux, il disco precedente a Dufay, è un programma commissionato da un festival che era interessato a un tema vicino a quello che poi abbiamo enucleato in quel modo, cioè il contrasto tra notte e giorno, morte e vita. Tutto sommato anche la spinta verso Dufay è nata così. Il Festival di Modena voleva che noi producessimo un programma che avesse attinenze con la città. Una cospicua parte del repertorio che Dufay ha composto nel suo periodo italiano è contenuto in uno dei due importanti manoscritti di Modena, quello che viene chiamato genericamente «Mod B», un manoscritto strettamente legato alla famiglia estense. Quindi, una richiesta esplicita di un festival si è trasformata in idea e poi in un programma che legasse un compositore a un manoscritto, a un ambiente e a un territorio.
Il gruppo incide con un'etichetta francese, la Arcana. Come è in Italia la situazione della cosiddetta musica antica dal punto di vista discografico?
La situazione non è facile, indubbiamente, ma anche al di fuori dell'Italia le cose non è che vadano molto meglio. Parlando ultimamente con Michel Bernstein, editore e proprietario della Arcana, abbiamo convenuto sul fatto che forse la grande crisi delle multinazionali del disco, soprattutto sul versante colto, porterà forse a una maggiore apertura nei confronti delle case che trattano prodotti particolari. È chiaro che un nostro disco non venderà mai più di un certo numero di copie, ma forse con una certa oculatezza e una politica meno dispersiva ci sarà modo per un rilancio delle piccole case discografiche che puntano sulla qualità e su repertori particolari. Per quanto riguarda nello specifico il mondo discografico italiano non sapremmo cosa dire visto che sono anni che non abbiamo più a che fare con case italiane.
Siete subito riusciti a trovare contratti con una casa discografica straniera?
Sempre con la stessa, ossia la Arcana. Abbiamo registrato a suo tempo un CD con Nuova Era e poi con un'etichetta che si chiamava Giulia. Quindi abbiamo avuto la fortuna di essere stati e di essere tuttora aiutati dalla WDR, la Westdeutsche Rundfunk, una emittente tedesca che praticamente dal 1994 sponsorizza tutti i nostri dischi e questo ci facilita la vita non poco!
Spesso e volentieri, soprattutto per quanto riguarda le epoche lontane, il musicista tende a essere anche musicologo. Come vi siete preparati, per esempio, affrontando il viaggio attraverso Dufay e dintorni? Che lavoro c'è dietro, anche a livello di decisioni da affrontare? Sappiamo tutti che la musica lontana nel tempo è quella che maggiormente necessita, per forza di cose, di una vera e propria reinvenzione...
Alcuni anni fa, in qualche modo “costretti” da una serie di seminari e conferenze che ci avevano chiesto di fare, dopo circa una decina d'anni di lavoro ci siamo messi a tavolino per chiederci con sistematicità che cosa in effetti stavamo facendo, come e perché. Questo ci ha portato a fare una serie di riflessioni sul metodo e soprattutto sugli obiettivi. Riteniamo che l'operazione da noi svolta sia in qualche modo un'operazione di restauro di un'originale che non avremo mai e che nessuno mai avrà. L'avvicinamento a quest'ipotetico originale, che in quanto ipotetico è piuttosto problematico, avviene a vari livelli. Il primo però, nonostante tutto, è proprio quello emozionale. Il concetto di autenticità non ci appartiene e non appartiene al tipo di lavoro che noi svolgiamo. Possiamo fare e ovviamente facciamo tutta una serie di analisi e di studi condotti in maniera filologica e quindi con gli strumenti della musicologia - elenchiamo alla rinfusa le tappe che possono essere: il recupero delle fonti originali, la conoscenza delle notazioni, la conoscenza di tutti i documenti collaterali secondari che ci possono aiutare a capire il contesto, il modo, la destinazione, lo strumentario, il tipo di vocalità anche se, soprattutto quest'ultimo addentellato diventa difficilissimo perché esclusivamente indiziario - però una volta acquisite le informazioni ed esaurite tutte queste tappe, alla fine, giustamente, si fa musica. E fare musica significa portare dei segni e delle testimonianze a nuova vita, liberarsi dalla rigidezza attraverso l`esecuzione e infine, cosa fondamentale, tener conto del pubblico di oggi. Ad esempio, puoi produrre un certo suono che nel Trecento era ritenuto dolce: hai la fonte che giustifica ciò, e il pubblico reagiva in una certa maniera. Magari oggi il pubblico moderno percepisce quel tipo di suono come violento e aggressivo. Sarebbe, in tal caso inutile insistere su un certo tipo di sonorità se questa in uscita viene letta diversamente. Certo, si può avvertire il pubblico ad adeguarsi, però è bene che chi fa musica non privatamente tenga conto dell'eventuale risposta di un pubblico, probabilmente anche poco omogeneo. Noi cerchiamo sempre di metterci nei panni di chi ascolta. Nel caso specifico del disco di Dufay, è stato fatto un grosso lavoro sulle fonti, anche perché le trascrizioni moderne dell'opera di Dufay - che risalgono agli anni Cinquanta - sono state fatte particolarmente male, con una notevole quantità di errori. Tra l'altro, volendo avere un occhio di riguardo nei confronti del manoscritto di Modena, non sempre i pezzi di Dufay di quel manoscritto erano stati svolti in notazione moderna. Abbiamo quindi operato un lavoro di comparazione con altre fonti. Tra i tanti contributi esterni che ci hanno aiutato ad arricchire il nostro modo di pensare, e di lavorare sulle fonti scritte, è stato importante l'aver collaborato a lungo con semiologi gregoriani della portata e dell'amorevolezza dei Cantori Gregoriani. Forse in quell'ambito il rigore è portato veramente a sfere inimmaginabili, però effettivamente ci siamo accorti noi stessi durante le prime collaborazioni che semplicemente leggendo da un manoscritto piuttosto che da un altro i risultati mutano in maniera sconcertante. In sostanza, non c'è solo in ballo la questione del capire come un testo musicale venisse notato, e che l'esecuzione muta quando il supporto musicale da cui si legge è diverso e uno veramente si da pena di capire che rapporto c'è con l'informazione codificata.
In generale, che differenze trovate tra il pubblico italiano e quello non italiano per quanto riguarda la ricezione del vostro repertorio? Vi sono differenze?
Dobbiamo dire di essere fortunati, visto che in genere il pubblico ai nostri concerti risponde sempre con grande calore. In Portogallo abbiamo notato un entusiasmo forse superiore alla media, ma anche in Francia, dove c'è un grande interesse per la musica medievale, rinascimentale e barocca. La cosa che forse distingue i concerti italiani rispetto a quelli degli altri paesi europei è la frequentazione: le sale all'estero normalmente sono piene, in Italia non sempre si riempiono. Se si tratta di rassegne che hanno un bacino di utenza consolidato, le cose cambiano. Direi che tendenzialmente, rispetto a quando abbiamo iniziato, la moda del Medioevo ha un poco migliorato le cose. Certe mode, sebbene spesso confezionate ad arte, hanno però contribuito a fare del bene e a creare una maggiore consapevolezza nei confronti della musica antica, o quanto meno a innescare processi di curiosità che non possono che essere salutari.
Avete mai provato per gioco o per spirito a fare musica di altro tipo, moderna o contemporanea?
A parte i gusti personali di ognuno, l'unica cosa eccentrica rispetto ai percorsi tipici del gruppo è stata una collaborazione con Franco Battiato nel 1999. Abbiamo cantato un suo brano per quattro voci femminili, una base e una voce recitante in uno stile 'pseudo-antico', modale, con degli agganci dotti. Il brano doveva fare parte di un'opera che non è stata più incisa nonostante diverso materiale sia stato eseguito in tournée.
Intervista di Ennio Speranza
("Falstaff", numero 2, 2004)

sabato, febbraio 01, 2025

Emil Gilels: I segreti di un grande interprete

Emil Gilels (1916-1985)
Emil Gilels, un grande interprete che ha saputo 
spaziare in un repertorio che va da Mozart a Beethoven, da Schumann a Chopin, da Brahms a Grieg a Debussv, che ha lavorato con i più grandi direttori d`orchestra: Szell - con cui ha inciso i cinque Concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven - Klemperer, Bhöm - con cui ha suonato Schumann e inciso Mozart - Karajan, Jochum. Grande poi la sua attenzione al repertorio russo contemporaneo: Medtner, Prokofiev, Shostakovich di cui eseguì in prima assoluta alcuni preludi e fughe. Shostakovich gli scriveva le sue impressioni, i suoi giudizi sulle sue esecuzioni e spesso si incontravano all` “Unione dei Compositori". Con Prokofiev ci fu un rapporto di reciproca stima, Gilels eseguì in concerto molte delle sue sonate (la Seconda, la Terza, la Settima, l`Ottava; l'ultima gliela diede Prokofiev di propria mano). Dei suoi rapporti con questi compositori, delle sue idee sulla musica, dei suoi autori preferiti, del suo lavoro di interprete ce ne parla Lev A. Barenboim, in un bel libro intitolato Emil Gilels, ritratto di un artista e pubblicato a Mosca nel 1990 dall'editore Sovetskij Kompozitor. Attraverso saggi critici, testimonianze, lettere, e interviste l'autore ci offre un ritratto a tutto tondo del grande pianista russo scomparso improvvisamente nel 1985: dall'infanzia sino alla maturità, indica le tappe più significative della sua carriera a partire dalla vincita del primo premio al concorso Ysaye di Bruxelles nel 1938.
In una lunga intervista rilasciata a Barenboim e pubblicata nel volume in questione, Gilels parla del suo lavoro di interprete come di un processo creativo che per certi aspetti può essere paragonato al gioco degli scacchi: richiede concentrazione e prontezza nella scelta delle combinazioni più appropriate; sono di importanza fondamentale fattori quali la memoria, l'intuizione. l'esperienza, la padronanza dell'aspetto tecnico. E non a caso Gilels sottolinea lo stretto legame esistente tra la ricerca dei mezzi espressivi e la scelta della diteggiatura unitamente alla necessità di una solida tecnica preparatoria che ha nelle scale il suo punto di forza, il suo fondamento: «Alle scale e agli esercizi mi ha abituato il mio primo insegnante; un tempo gli dedicavo molta attenzione. le facevo come “carica”. Il problema è che le scale sono un po' come il portavoce di una determinata musica e variano da autore ad autore. A volte può succedere che certi esercizi arrechino danno, allora c`è bisogno di trovare un'altra diteggiatura, di cercare altre posizioni. Prendiamo ad esempio la fuga della Sonata n. 29 di Beethoven: il trattamento cromatico delle linee melodiche è talmente avanzato che nessun tipo di scala può essere d`aiuto. Così ho cominciato a suonare Brahms per poi passare alla Scuola del virtuoso di Czerny». Si tratta insomma di una continua ricerca che secondo Gilels va oltre la scelta del metodo Tausig piuttosto che del metodo Godowski, «ogni bravo musicista dovrebbe creare per sé tali esercizi». La scelta dei tempi è poi l`altro grosso problema di ogni interprete che Gilels affronta con coscienza storica: «Negli anni 30, secondo la concezione dell`epoca, la ricerca del bel suono, della cantabilità si aveva solo nelle parti lente. Nei movimenti più veloci si andava a briglia sciolta. Ciò era in parte dovuto al tipo di repertorio che si eseguiva in quegli anni: poco spazio a Skrjabin e agli impressionisti. Il nostro punto di riferimento era la musica dei romantici, eccezion fatta per Schumann che per certi aspetti risultava incomprensibile. Ma proprio attraverso la sua musica sono riuscito a capire cosa sia il bel suono in velocità». Ed è lo Schumann del movimento “Prestissimo possibile” degli Studi Sinfonici che Gilels definisce «strepitoso». in questo suo saper «pensare a velocità incredibili, che rasentano l`irruenza delle forze naturali». La scelta del tempo è quindi una questione assai delicata che non dipende solo dal gusto personale o dalle mode, essa deve tener conto anche di certi limiti oggettivi: «Io ho sempre mirato ad esprimere tutte le note. Le dita possono muoversi lungo la tastiera più o meno velocemente, ma c'è un limite imposto dalla capacità di percezione dell`orecchio umano. Se si esce da questi limiti, come a volte ho sentito fare da certi pianisti, si crea confusione, ansia, si corre il rischio di perdere di vista il disegno complessivo voluto dall`autore».
Lo studio preparatorio di un brano è dunque una tappa fondamentale del processo interpretativo che non tocca solo l`aspetto tecnico, ma anche quello culturale ed emotivo. «L'interprete deve continuamente conformarsi all'autore», deve conoscerne «l'estetica, la filosofia, sapere cosa pensava, cosa sentiva», «suonare Bach e Prokofiev nella stessa sera con un unico sentimento è un approccio primitivo. L'interprete, in poche parole, deve essere un po' come un camaleonte». Gilels sapeva abilmente dosare emotività, istintualità e capacità analitiche in un vero e proprio processo di razionalizzazione del trasporto emotivo provato di fronte ad un brano, una sorta di innamoramento a prima vista che può anche diventare una “prigione”. Finisce che «ogni giorno si è attratti dallo strumento, per provare ora una cosa ora un`altra, per lavorare sui punti che presentano difficoltà tecniche, per cercare quel suono capace di dar voce a quella sfumatura emotiva. Bisogna cioè riuscire a trovare quei culmini emotivi su cui è costruita tutta l`opera». Ma col tempo si impara ad affrontare un pezzo in maniera più economica ed intelligente. «In primo luogo ho imparato a soffrire meno per l'attaccamento che sviluppavo nei confronti di un certo brano, quasi si trattasse di un vero e proprio tormento amoroso; in secondo luogo ho cominciato ad evitare di muovermi a piena velocità lungo la tastiera, per riuscire a liberarmi di quell'abitudine piuttosto dannosa che è il compiacimento del proprio atto esecutivo». Tuttavia, secondo Gilels, un concertista in carriera si trova spesso a vivere in modo contraddittorio questo “amore” per un'opera: si dibatte tra la voglia di abbandonarsi alla “dolce” prigionia e gli obblighi imposti dalla carriera, ovvero l'avere il repertorio sempre pronto e l'essere sempre in forma. È per questa stessa ragione che ritiene non siano conciliabili il lavoro di insegnante e quello di interprete-esecutore: «Io mi pongo nei confronti di un allievo come musicista-interprete e se nel suo modo di suonare c'è qualcosa che non mi soddisfa mi innervosisco, mi sfinisco. Al contrario un insegnante professionista non ha altra occupazione che i suoi studenti, non deve pensare al programma del prossimo concerto. Può passare ore con un allievo ad affinare un pezzo dal punto di vista interpretativo e tecnico. Un artista non può essere un insegnante».
Nell'atto di esibirsi di fronte al pubblico emerge in modo inequivocabile quello che potremmo definire il “dilemma interpretativo”, ovvero la coesistenza del lato intuitivo, istintivo, emotivo con quello più strettamente razionale. Una problematica che in terra russa, tanto per restare entro i confini culturali del
nostro, ha trovato acuti teorizzatori quali Stanislawskij e che sicuramente appartiene al back ground culturale di molti artisti, attori o musicisti che siano. Gilels trova una sua personale risposta quando parla della sofferenza, della concentrazione che l'interprete deve conservare durante l'esibizione dal vivo, intendendo con questo la necessità di una costante partecipazione emotiva a ciò che si sta facendo. «Sedere con gli occhi chiusi e suonare pensando ad altro, non è un comportamento del tutto giusto. Un'esecuzione diventa più preziosa se la concentrazione, l'attenzione e una certa dose di “sofferenza” scorrono paralleli al lavoro di preparazione che è stato fatto in fase di studio. Fare totale affidamento su questo lavoro di preparazione, sopravvalutarlo quindi, è certo più comodo ma è molto rischioso. Può succedere che il pezzo “se ne abbia a male" e che l'interprete se ne vada da una parte e il pezzo dall'altra. Il pezzo invece deve respirare insieme all'interprete».
Interrogato poi su quanto peso abbia l`elemento razionale in questo processo risponde che la ragion e, l'intelletto possono fallire e che lui preferisce l' “arte del soffrire”: «Può succedere che uno suoni in maniera ineccepibile, che la reazione del pubblico sia stata molto positiva, ma in cuor suo sa di non aver sentito niente, sa che non c'è stato alcun fremito spirituale, ecco perché preferisco la sofferenza». Quando parla della sua esecuzione delle Fantasie di Brahms Gilels dice di entrare come in uno stato di trance: «Quando mi “innalzo”, mi dimentico di tutto quello che mi circonda, di ogni cosa di questo mondo, succede di rado ma quando capita la soddisfazione che si prova è enorme». Se queste sono le idee di Gilels circa il problema dell`interpretazione è presto spiegata la sua predilezione per le registrazioni dal vivo piuttosto che per quelle fatte in studio. «L`incisione di un concerto dal vivo si distingue sempre per una maggiore freschezza. Anche se un pezzo è stato preparato in modo accurato, calcolato nei minimi dettagli rimane sempre quel qualcosa di imponderabile che è legato al momento stesso dell'esecuzione, ovvero alla propria condizione fisica, al tipo di interazione che si crea con il pubblico. Quante volte succede che si sia provato il programma e che poi la sera tutto suoni diversamente! In sala di incisione invece si è presi nella morsa del microfono e dell'ingegnere del suono. Durante un concerto dal vivo di tutto questo ci si dimentica». Resta comunque il fatto che le sue incisioni Gilels, come del resto Glenn Gould, le curava personalmente, occupandosi in prima persona del montaggio. A  ragione può dire di essere un veterano in questo campo, dato che cominciò ad incidere nel 1934 quando non aveva ancora 18 anni. I mezzi tecnici erano scadenti ma Gilels ricorda con molto affetto quella sua prima incisione della Ballata n. 1 di Chopin nonostante vi fossero «un paio di bassi “sporchi"».
Continuò poi la sua carriera discografica all'estero ottenendo grandi risultati e incondizionati riconoscimenti. Ogni interprete deve scegliere oculatamente il proprio repertorio, deve sapersi impossessare pienamente di un pezzo, anche se questo comporta dolore, fatica. Impagabile sarà poi la felicità provata nel momento in cui, anche dopo anni di lavoro, si riesce a raggiungere 1`obiettivo. Particolare è ad esempio il rapporto di Gilels con la musica bachiana. Ritiene che Bach sia uno dei compositori più difficili da interpretare proprio per le infinite possibilità di lettura che offre la sua musica: «Io non ho mai trovato la mia posizione, se così fosse stato sarei stato un`interprete bachiano. Di recente ho dato uno sguardo ai preludi e alle fughe del Clavicembalo ben Temperato e mi sono sorpreso a pensare che in fondo erano veramente brevi nonostante avessi la sensazione che fossero lunghi, infiniti... E il volume di Bach è molto più esile di quello di Shostakovich! Laconicità e grandezza!» Ogni volta che deve affrontare un nuovo brano da mettere in repertorio si traccia un piano di lavoro: con la 106 di Beethoven, per esempio, ha cominciato a lavorare dalla parte più difficile, la fuga. «È tremendamente difficile. In seguito mi sono messo a studiare l'Adagio per poter comprendere l`essenza di questo fiume musicale che scorre, scorre. Avevo bisogno di capire dove scorre, avevo bisogno di visualizzare il suo percorso. Così mi potevo considerare già a buon punto, avevo in pugno la prima e la seconda parte della sonata. Viceversa ho aperto molte volte la Sonata n. 29 “HammerKlavier”. Suono la prima pagina della prima parte e penso: “Signore, e poi? Non è possibile possedere questo pezzo!”. Ma ho accettato la sfida. Molti pianisti la considerano cervellotica, ma io con caparbia mi sono costretto ad impararla e una volta che sono riuscito a penetrarla mi si sono aperti altri orizzonti».
Meticolosità, disciplina, sensibilità e una acuta coscienza critica: ecco forse i “segreti” di un grande interprete.
Paola Soffià
("Gli Oscar della Musica", Anno I, Numero 3, Giugno 1996)