Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, novembre 10, 2024

Bruno Canino: Il Metodo

Bruno Canino (30 dicembre 1935)
Mettendo giù questi appunti, mi sono accorto appena in tempo del pericolo che correvo di descrivere non quello che è effettivamente il mio metodo di insegnare il pianoforte, ma un metodo utopico e ideale, cui sarebbe bello e "virtuoso" attenersi, se... se si avesse più tempo; se gli allievi fossero meno numerosi. e se fossero tutti diligenti e motivati e selezionati con cura; se i conservatori fossero scuole professionali; se io capace di cattiveria; se se se...
Insomma, nelle condizioni in cui si è costretti - anche per propria colpa - a lavorare, viene fuori un'affannosa e difficilmente descrivibile assenza di metodo: ma non è poi detto che una realistica asistematicità non possa non risultare produttiva, e che forse in essa, addirittura, si possa trovare la chiave di  successo di tanti insegnanti.
Naturalmente alcune convinzioni tecniche, musicali, pedagogiche, bisogna pur averle: ma la loro traduzione in opera deve essere inventata con intuito e perspicacia di volta in volta, sfuggendo alle trappole della routine; ho per esempio in orrore la lezione di durata fissa a scadenza regolare (i tedeschi la chiamavano Klavierstunde, l'ora di pianoforte, a sancirne quasi contrattualmente la misura). dove. come in un malinconico menu senza scelte. si parte dalla tecnica per arrivare, attraverso studi e Bach, al “pezzo” dove finalmente si assaggeranno le delizie del pedale e del rubato: non bisogna far adagiare l'allievo in questo prevedibile rituale, tenerlo sempre sul chi vive, e prima o poi capirà che dieci (o novanta) minuti di lavoro sopra una scala cromatica possono essere assai più utili per lui di questo tran tran; e più illuminante la lettura di una bella Ouverture di Mozart a 4 mani. Ma vediamo quelli che, al momento, considero i motivi conduttori del mio modo d'intendere l'insegnamento.
Autocoscienza e autoascolto. Suonare il pianoforte non è soltanto cosa razionale; ma certamente la ragione vi occupa gran posto. L'allievo piccolo o grande, deve sapere che a determinate azioni muscolari corrisponderanno determinati risultati sonori: e l'osservazione e l'autoascolto devono confermargli un'assoluta fiducia nell'obiettività di questa corrispondenza biunivoca.
Emancipazione. Assai per tempo, la scelta del tipo di azione tecnica - fra il repertorio di gesti appresi -conveniente alla specifica situazione musicale, va affidata all'allievo. Ma anche altre scelte, diteggiature, pedali, persino scelte stilistiche e formali gli vanno giudiziosamente lasciate, senza indignazione professorale per eventuali gaffes: e ci si compiaccia di accettare decisioni divergenti dalle proprie, purché fondate su un comunicabile criterio valido, e non su casualità e faciloneria.
Amore per la musica. Se la musica non piace, non si conosce, non interessa, o interessa solo per essere promossi agli esami o per vincere concorsi, insegnare o imparare a suonare diventa insensata e avvilente fatica. L'insegnante deve dimostrare questa passione anche nel decimo riascolto di un brutto studio, e deve approfittare di ogni appiglio l'allievo gli offra per comunicargliela. Nulla di più deprimente dell'allievo che. all'offerta “Cosa ti piacerebbe studiare?". risponde “Faccia lei, tanto per me e lo stesso".
Fedeltà al testo. Il testo non dice tutto sull'esecuzione di un pezzo, ma tutto ciò che dice è prezioso. Mozart era di certo miglior musicista e più competente sul suo stile di quanto non lo fosse Casella; se ha adoperato quelle legature e quei segni di staccato,  cerchiamo di fare ciò che chiede: e Liszt era più preciso e geniale di Horowitz, e Debussy più sottile di Benedetti Michelangeli. Oltre tutto, seguire alla lettera le indicazioni del compositore ci libera da molti falsi problemi.
Continuità. Un pianista può avere bel suono, intelligenza e senso musicale: ma queste doti gli sono inservibili se non è capace di suonare due righe di seguito senza fermarsi. La capacità di concentrazione prolungata è dote che specificamente si richiede al pianista, ed è tra le più difficili da insegnare. Non interrompere un pezzo, ascoltarlo tutto con i suoi bravi ritornelli, anche se già alla prima battuta si sa cosa sarebbe utile dire, e anche se la prossima lezione incombe e la classe è stracolma.
Alcuni codicilli. Trattare non più di un paio di problemi tecnici per volta, possibilmente relativi al materiale musicale che si sta lavorando. Diffidare di un'eccessiva gradualità nella scelta dei pezzi: il rischio di un pezzo un pochino più lungo della gamba permetterà di ripercorrere gradini inferiori con ben altra sicurezza e autocontrollo.
Pretendere già alla prima lettura che l'allievo presenti una sua certa qual idea del pezzo: che, per essere plausibile e per inquadrare giustamente la forma e le difficoltà che ci aspettano, dovrà "tenere" dei tempi non esageratamente lontani da quelli che si presume convenienti all'esecuzione finale. In altre parole un "allegro" potrà declinare in un "moderato" ma non certo in un “adagio"; e l'adagio, apparentemente senza problemi, non dovrà per questo scivolare in un “andante scorrevole". (Per lo stesso motivo è per me totalmente incomprensibile l'uso di lavorare in fortissimo i passaggi da eseguire piano).
Soltanto dopo questa prima lettura globale, isolare e lavorare separatamente i passaggi problematici. Indispensabile mi sembra il ricorso a varianti ritmiche e combinatorie: non nell'idea di complicare le cose semplici, ma nell'intento di individuare e correggere l'eventuale cattivo funzionamento: come fermare l'immagine in un film per meglio osservare un particolare. Tutto questo. insisto, deve avvenire nell'ambito dinamico e nella scelta di suono che si ritengono appropriati anche per l'esecuzione.
Il metronomo non serve certo per andare a tempo, ché la musica non si suona quasi mai in tempo, ma è insostituibile come misuratore e controllore delle nostre incapacità e dei nostri progressi.
Così smontato e velocizzato il passaggio, va poi reinserito nel contesto del pezzo, la cui respirazione e il cui equilibrio formale sono così continuamente da modificare e ricontrollare.
Un'ultima  importante convinzione: individuare per tempo i punti deboli dell'allievo (cantabilità, pedalizzazione, scarsa resistenza fisica o psicologica; innaturalezza di fraseggio; eccetera) e scegliere pezzi ad hoc che aiutino a combattere questo specifico difetto.
Ma sono per caso rientrato nel paese di utopia?
Bruno Canino

venerdì, novembre 01, 2024

Maria Tipo: First Lady del Pianoforte

Maria Tipo (1931)
Maria Tipo da oltre venticinque anni vive nei dintorni di Firenze, in una splendida villa che domina un paesaggio da mozzafiato della città con l'Arno a gomito. Ci accoglie con affabilità e franchezza tutta napoletana nel grande salotto di casa, accanto allo studio in cui troneggiano due pianoforti a coda letteralmente coperti di fotografie di grandi artisti, maestri, colleghi, amici, allievi. Sorseggiando lievemente un thè, comincia il racconto.

Come si è avvicinata alla musica?
È molto semplice, mia mamma era pianista e compositrice. Sicché io ho sentito musica prima di nascere: pensi che io sono nata alle 3 di notte e mia madre aveva suonato fino a mezzanotte, con il pancione. Probabilmente ho ereditato il suo talento. All'età di tre anni e mezzo, sono andata io al pianoforte, da sola, e ho cominciato a trovarmi le musichette, dei motivi, le scale. Sentivo gli allievi della mamma che dava lezioni e ho cominciato ad imitarli. Una sera la mamma è tornata a casa e ha sentito suonare il pianoforte. Ha chiesto a mio padre di andare a vedere chi fosse: ero io che mi ero sistemata i cuscini perché non arrivavo alla tastiera e avevo suonato, pare, tutto il pomeriggio.
Non è stata costretta?
No perché ero troppo piccola. La mamma ci aveva provato con le mie sorelle maggiori ma aveva rinunciato. A me non aveva ancora pensato perché non si mette al piano un bambino di tre anni e mezzo. A quattro anni feci il mio primo concertino fra gli allievi della mamma, e suonai un brano della Sonata op.49 di Beethoven. Quando vedo dei bambini di quattro anni, mi chiedo ancora: come facevo? Per fortuna non fui sfruttata come enfant-prodige. Studiavo seriamente e ogni anno suonavo per gli amici di famiglia in salotto e mi meravigliavo che la gente si commuovesse ad ascoltarmi: per me era così facile.
La teoria musicale l'ha studiata più avanti?
Sì, sempre con la mamma. Feci il quinto prima della guerra. Prima del diploma però, partecipai al Concorso di Ginevra: avevo 16 anni e qualcuno decise che ero pronta per un concorso internazionale. Andai e vinsi. Quando tomai a Napoli mi diedero il diploma "ad honorem".
Quindi non ha mai frequentato il Conservatorio?
No, mai. Ho avuto la fortuna di trovare in mia madre una musicista completa che mi ha trattato come un'allieva normalissima, non come un fenomeno. Ero una ragazzina dotata che studiava, studiava: solo al Concorso di Ginevra presi coscienza del mio stato, e da quel giorno cominciai uno studio ed un approfondimento della musica che mi investiva in prima persona, perché, improvvisamente, c'erano i concerti da fare.
A quale scuola pianistica apparteneva sua madre?
Al Conservatorio era stata allieva di Romaniello, un allievo di Anton Rubinstein, al tempo in cui Martucci era direttore. Poi conobbe Ferruccio Busoni e si fece ascoltare da Paderewski in America. Ebbe modo di ascoltare tutti i più grandi, da Hoffmann a Lhevinne. Quando le parlavo dei grandi di allora, Benedetti Michelangeli, Horowitz, lei non si stupiva più di tanto: aveva ascoltato dei grandissimi.
Quali furono i primi contatti con altri musicisti?
Il primo fu con Alfredo Casella: quando avevo nove anni mia madre, che era molto critica, volle portarmi da lui. «Io sono la mamma, forse stravedo». Casella mi ascoltò e disse «Non perdere tempo, devi fare subito Beethoven, subito le grosse sonate, Liszt, gli studi di Chopin». Dopo qualche anno, prima del Ginevra, studiai un intero anno con lui a Roma. Molto repertorio, i classici e soprattutto Mozart. Tutto il lavoro sul suono che avevo fatto a casa, con lui venne confermato e portato a perfezione. Purtroppo morì, e allora continuai per un po' con Guido Agosti, un  altro grandissimo maestro. Poi venne il concorso e quindi la carriera.
Qualche ricordo musicale della sua infanzia?
Non molti, perché mia madre non mi portava molto ai concerti: si era come un po' distaccata dal mondo musicale. Ricordo l'impressione che provai all'ascolto di Arturo Benedetti Michelangeli e di quello che riusciva a fare in Ravel. Poi i concerti di Rubinstein e di Kempff, o i concerti di Franco Ferrara alla Scarlatti.
Come si svolse il Ginevra?
A Santa Cecilia c'era la possibilità di vincere una borsa di studio per coprire le spese del Concorso: andai ma non la vinsi. Tutti dicevano che suonavo benissimo ma che non avrei mai potuto partecipare a un concorso così grosso. Mia madre non si diede per vinta e organizzò un concerto privato al Cenacolo Belvedere; dopo il concerto fu organizzata una specie di colletta per pagarmi le spese del concorso. Ci andai con una responsabilità enorme. Per fortuna vinsi all'unanimità.
Qualche ricordo particolare di quella esperienza?
Mio padre aveva seguito coscienziosamente le prove di tutti gli altri concorrenti e si era accorto che tutti suonavano Bach in modo molto diverso da me. Io l'avevo lavorato molto con mia madre, con tempi originali, accenti particolari: lei mi disse di suonare come avevo sempre fatto, ma di osservare la giuria mentre suonavo Bach. Appena cominciai la Seconda Partita in do minore con i miei tempi larghi, li vidi guardarsi in faccia. Era già un buon segnale. Continuai con la Seconda Ballata di Chopin ed il resto del programma. Alla fine la giuria si alzò in piedi ad applaudire: una cosa straordinaria, era successo solamente per Michelangeli qualche anno prima.
Chi c'era in giuria?
Ricordo Malipiero, il compositore, ed Edwin Fischer, che a mia madre disse: «Pochi concerti, signora, mi raccomando. Musicalmente nessun consiglio, è perfetta così com'è››.
Cosa si vinceva?
Una somma in denaro molto modesta. Poi qualche concerto in Italia, non molti, per fortuna. A Ginevra mi avvicinò un famoso impresario americano, lo stesso di Friedrich Gulda che aveva vinto qualche anno prima e che mi voleva per una lunga tournée in Sud America. Mia madre reagì «Cosa? Mia figlia in America? No, si torna a casa a studiare, punto e a capo». Ci rimasi molto male, ma aveva ragione. Fino ai 20 anni feci pochi concerti, magari pagati poco, ma solo quelli giusti, a Trieste, Roma, Milano. Quando avevo 20 armi mio padre tornò a casa col bando del Concorso di Bruxelles dicendo: questo fa  per te, c'è anche un concerto da imparare in 8 giorni, un pezzo moderno in due mesi. Vinsi solo il terzo premio, ma in commissione c'era Rubinstein che dopo il concorso mi disse: «Qui ci vuole lavoro, comincia 1'America sul serio, non sei più una ragazzina». Parlò con il suo impresario Soul Hurok, il quale dopo un'audizione a Parigi mi scritturò immediatamente. E lì è cominciata la botta: per dieci anni ho fatto la concertista a tempo pieno. Tournées incredibili. Dai venti ai trent'anni ho fatto solo concerti in tutto il mondo, a ritmi massacranti. La mia vita di donna non esisteva quasi più. Un anno sono stata 4 mesi in America per fare 60-70 concerti. Prima il Nord America, poi il Sud America, sempre in viaggio, aerei, bagagli, mai un attimo di tregua, per anni non ho conosciuto l'estate. Grande successo, grandi concerti, grande soddisfazione, però a un certo punto mi sono chiesta: deve essere così tutta la vita? Fare la valigia e partire? Suonare e viaggiare? Facevo degli incontri importantissimi e il giorno dopo si ripartiva... No, non era possibile. Bisognava vivere, avere dei guai, avere dei figli, un marito, insomma, una vita normale. Dopo i trent'anni la mia è stata una lotta continua per riappropriarmi della mia vita privata.
Ricorda qualche incontro particolare di quel periodo, qualche direttore d'orchestra con cui ha suonato?
Molti che non ci sono più, purtroppo. Ernest Ansermet, con cui suonai in Eurovisione da Ginevra il Terzo di Prokofiev, Karl Böhm, importantissimo perché i primi concerti di Mozart li ho suonati con lui. Non mi diceva niente, solo che era perfetto come io suonavo Mozart. Mi ascoltò a Napoli e mi disse: «Devi assolutamente venire in Germania a far sentire ai tedeschi come si suona Mozart». Oggi consideriamo Böhm un interprete molto rigido, molto "tedesco", ma a lui piaceva il mio Mozart "latino›". Ho suonato anche con il grande Erich Kleiber, con Jonel Perlea, con cui incisi un disco per la Vox, con Sir John Barbirolli, con Fritz Reiner, con cui debuttai nel Quarto Concerto di Beethoven a Chicago. Non ho nulla da raccontare su questo grande, perché a lui sembrava fantastico che io suonassi così. Era un uomo di poche parole e di gesti piccolissimi.
Ha mai avuto qualche scontro?
Una volta con Wolfgang Sawallisch, forse perché è anche un ottimo pianista. Lui era molto giovane, io pure, dovevamo suonare il K 503 di Mozart a Bruxelles. Non gli piaceva come concepivo il concerto. Era nervoso, ad un certo punto mi chiese a bruciapelo: «Con chi ha studiato?›› Ci rimasi male, però il concerto fu bellissimo. In effetti non ci fu proprio uno scontro. Anche a Isaac Dobrowen piacque come io suonavo. Forse suonavo bene!
Questo è sicuro! A volte però per visioni interpretative distanti si può anche litigare.
No, questo mai. Certo, ero molto aperta, molto pronta ad apprendere qualunque cosa. Certo, ispirazioni da altri artisti le ho ricevute, da Rubinstein per esempio, che per me  era sempre grande.
Lo ha conosciuto bene?
Sì, l'ho conosciuto a Bruxelles dove era in giuria. Alla fine mi disse: "Per me lei era il primo premio. Però, mia cara, le colleghe donne (Marguerite Long e Magda Tagliaferro) probabilmente non hanno votato per lei. Il vincitore? Lo conosco già, un gran pianista, però per me la rivelazione del concorso è lei, con quel suono!". Dopo la premiazione volle ascoltarmi ancora privatamente: gli suonai molti pezzi che non erano in concorso per tutto un pomeriggio.
Le diede qualche consiglia sulla carriera?
L'unico consiglio fu di "andare in America, ma dalla porta grande". Lo rividi a New York e poi due volte a Parigi. Una volta era a Firenze e venne a sapere che avevo avuto una bambina e che l'avevo chiamata con lo stesso nome di sua figlia, Alina (ma in realtà era in onore di una mia cara amica di Trieste). Passò dal fioraio e mi mandò un grandissimo mazzo di rose con un biglietto: «Ho saputo che hai avuto questa bambina, Alina, è meraviglioso!››. Era un uomo particolare. Dopo la sua morte sono rimasta molto affezionata a sua moglie Nella. Quando suono a Parigi, lei viene sempre ad ascoltarmi.
Quanti concerti riusciva a fare in quel periodo?
Anche 150 per anno, in tutti i paesi, in tutte le università americane, con tutte le orchestre. Troppi. Certe volte tornavo in Italia e pensavo: come, fra pochi mesi si comincia di nuovo? Vedevo che mi mancava il tempo di preparare le cose come le volevo io. Certe volte partivo e sentivo di non essere pronta.
Quindi a volte ha conosciuto la paura?
La paura sempre, ci convivo con la paura! 
Non lo si direbbe ascoltandola in concerto.
Perché non lo mostro.
Cos'è la paura?
Credo che venga dal desiderio di volere fare molto bene, di volere fare meglio, e la paura insorge perché si sa che il concerto ogni volta è un fatto nuovo, è un quadro che tu devi fare lì per lì, alle 9 e non alle 9,15 0 alle 8,30. E devi essere pronta perché devono riuscire tutte queste cose che tu vuoi fare; basta una nota sporca e quello che si voleva fare non viene. Chi ha coscienza di ciò deve per forza avere paura, ogni volta può succedere un  imprevisto: la sala, l'acustica, il pianoforte, come ci si sente. Alla fine di ogni concerto in cui sono contenta mi dico sempre «è un miracolo», e quasi lo considero un fatto straordinario che il concerto sia venuto bene.
Qualche volta si è tirata indietro per la paura?
Mai, se succede una volta poi ti succede sempre. No, è una sfida. Gli ultimi dieci minuti prima di entrare in scena sono tremendi. Certe volte pensi che sarà un disastro e allora speri che succeda qualcosa, che il concerto venga annullato: mancherà la luce, verranno a dirmi che il concerto non si fa. E quello sarebbe un sollievo alla paura.
Un suo grande collega spesso annulla il concerto adducendo le scuse più incredibili, l'umidità dell'aria, l'accordatura del piano. Invece è forse la paura che lo blocca.
Sì, l'ho sempre pensato anch'io. Mi sono sentita molto vicina a lui perché è un perfezionista, lavora al pianoforte fino all'ultimo a perché pensa che qualcosa non gli verrà bene. E allora ha il coraggio di annullare. Io non l'ho mai fatto. La volta che ho avuto più paura poi sono venuti a dirmi in camerino che è stato il più bel concerto della mia vita. Quando invece sono tranquilla, il concerto viene così così.
Sente la necessita di suonare in pubblico?
No. La risposta la delude?
È interessante perché credevo che fosse nata per suonare in pubblico.
Io no, l'ho fatto perché dovevo farlo, perché mi ci sono trovata dentro molto giovane, perché quella era la mia vita, il mio lavoro. Non ho saputo fare altre cose. Mi sono detta spesso: se fossi molto ricca, forse lascerei. Mi ha sempre molto pesato tutto il contorno: i viaggi, il fatto di trovarmi sempre in un posto diverso. A me piace stare nel mio cantuccio. Ho fatto tutto con sforzo. Poi il fatto di mostrarmi in pubblico non mi è mai piaciuto.
Non è esibizionista?
No.
È una delle doti di un concertista.
Purtroppo. Lo vedo anche nei miei allievi: quello più esibizionista avrà la vita più facile, perlomeno sarà più felice. Io soffro sempre da morire. C'è invece chi mentre suona si bea, ed è certo più felice, perché si ama. Io sono sempre in crisi, mi critico mentre suono, sono piena di dubbi.
Ancora oggi?
Sì, perché dovrebbe essere il contrario? Oggi chi me la dà la sicurezza? L'età? Sì, c'è un passato, però ogni giorno è un giorno nuovo. Quando entro in pubblico debbo fare come fossi in una scena, e allora ho un'aria che sembra...
Da dominatrice.
Me la impongo. Non posso avere l'aria da intimidita. Percorro quei fatidici dieci passi fino al seggiolino del pianoforte. Sono dieci passi importanti, sono molto decisa, molto determinata, vado con un passo sicurissimo perché questa cosa deve succedere, l'ho pensata, ho lavorato per questo. Sarebbe una delusione tremenda se tornassi indietro. Sono già nel concerto, ci sono dentro già nel camerino mentre mi vesto, mentre mi preparo.
L'artista pubblico dovrebbe provare piacere nel suonare.
Certo, quando suono mi piace molto, ma il farlo davanti agli altri è un'altra cosa. Le gioie che io provo da sola, quando scopro le partiture, le suono e poi studio per farle venire bene, questo è un momento meraviglioso per me. L'altro no, è una responsabilità.
Potrebbe stare senza musica?
Tutto si può fare. Certo, non mi ammazzerei, l'ho sempre pensato che può venire un momento in cui potrei non suonare più. In questo non mi illudo: la musica per me non è una droga.
Cosa le fa superare tutte le difficoltà della carriera? Il denaro, la fama, l'applauso? Oppure l'amore per la musica?
La consapevolezza che in fondo io ho ricevuto delle doti in eredità, non è né una colpa, né un merito. Sono nata per fare questo. E lo faccio con forza di volontà, di carattere.
Quali sono i principali problemi per una donna concertista?
L'uomo può pensare alla carriera al 100%; la  donna invece è nata per fare altro, la famiglia, quindi se per caso ha del talento, deve fare l'uno e l'altro. Io mi domando, quanti uomini avrebbero potuto fare quelle carriere che hanno fatto se avessero dovuto fare figli, badare alla casa, al marito, alle mamme, ai vecchi, ai nipoti? Noi non lo sappiamo ma chissà quante donne hanno rinunciato: per una che ne arriva ce ne sono 80 che restano indietro, di questo sono sicura.
Quando incise il suo prima disco?
A New York, nel 1952, alla Vox Turnabout.  Scelsero Scarlatti, che è sempre stata la mia specialità. In America lo aveva fatto solo  Horowitz e la pianista brasiliana Guiomar Novaes. Mi diedero tre giorni per incidere.  Bastò una seduta sola, perché suonai tutto di  seguito, senza interruzione, 12 Sonate, perfette. I tecnici mi dissero che alla Novaes non erano bastati tre giorni per tre sonate, e io le avevo già incise. Fu un'esperienza elettrizzante. Il disco ebbe un grandissimo successo: lo hanno ristampato l'anno scorso in compact disc assieme ai due concerti di Mozart con Perlea.
Ascoltò Horowitz in quel periodo?
Sì, certo.
Si può dire che lei abbia appreso qualcosa da lui?
No. Non l'ho mai imitato. lo ho un altro tipo di tocco. Certo lui le ha suonate come un grande, ma io ho la presunzione di dire che nel mio modo di suonare Scarlatti c'è una componente di "napoletanità" che a lui manca. Ci sono probabilmente cose di Scarlatti che per me sono congeniali, il fraseggio, la cantabilità tipica della canzone napoletana, il ritmo spagnolo. Horowitz è sempre stato russo e, comunque, tra quelli che suonano Scarlatti è il migliore.
Come studia? Se studia ancora, perché Richter, per esempio, dice che lui non ha mai studiato, ha sempre solo suonato.
Beato lui! Esiste una pratica, c'è un allenamento, una maniera di accostarsi già al mattino. Intanto devi sentirti sciolto, e quindi io comincio sempre con delle scale, delle ottave, per prendere contatto con la tastiera. Io sono distratta e non potrei sedermi al pianoforte e iniziare subito una "111" di primo mattino. E allora muovo le dita così e intanto mi sciolgo, e questo fa molto bene.
Lo fa sempre?
Quasi sempre, e anche i miei allievi: del resto una ballerina non fa un po' di sbarra prima di ballare? E un atleta non scalda i muscoli prima di correre? Basta un quarto d'ora, dieci minuti e dopo puoi cominciare a lavorare al concerto che devi preparare. Io lavoro bene alla mattina, al pomeriggio già sono più distratta, la sera quasi mai.
Si favoleggia che Michelangeli studia solo di notte.
Perché, Martha Argerich no? Comincia a mezzanotte, quando noi abbiamo salutato gli amici, e studia fino alle 6 del mattino. Poi va a letto e chi la vede più fino alle 4 del pomeriggio? Avendo questi ritmi per lei è tremendo andare a fare le prove con l'orchestra alle 10 del mattino, è come alzarsi alle 3 di notte. A me di sera mi piace leggere, mi piace parlare con gli amici. Ma non sono fissata. La musica mi piace da morire, però mi piacciono anche altre cose, il cinema, il teatro, la lettura, insomma mi piace vivere, stare da sola, stare zitta, pensare senza fare nulla, sola con i miei pensieri.
Quando sente di non avere più bisogno dello spartito?
Per pigrizia certe volte. Certe volte non lo apro addirittura perché sento che può già venire; comincio e mi viene a memoria quasi naturalmente. Poi lo riapro per verificare qualcosa. Ma non mi sono mai imposta di imparare a memoria.
Secondo lei per un pianista è importante suonare a memoria?
Mi pare di sì. Ci ho ragionato: ad una certa età la memoria si perde anche, soprattutto si perde quella recente. Per esempio io le posso suonare perfettamente delle cose studiate a 15 anni, a 20 anni, a 30, è come se fossero rimaste incollate. Quello che io ho imparato dai 30 anni ai 40 è semi-incollato, dai 40 ai 50 anni al 25%, dopo i 50 anni di quello che ho imparato niente resta incollato. Devo riprendere la musica. Suonare a memoria è bello perché è una conferma che la cosa la sai veramente, è tua.
Richter dice che è ingiusto suonare a memoria perché si perde tanto tempo.
Richter può suonare come vuole, nessuno può permettersi di discuterlo. Lui invece si giustifica con quella dichiarazione che fa pubblicare sui programmi di sala: la trovo assurda. Io ho una figlia violinista che suona a memoria il quartetto. Fino a quando lo potrà fare, è molto bello. Certo un domani, quando avranno 50, 60 quartetti in repertorio, verrà un momento in cui non lo potranno più fare.
Ha fatto musica da camera?
Per dieci anni ho fatto tutto il repertorio pianistico a quattro mani e per due pianoforti con Alessandro Specchi. Poi ho suonato con Salvatore Accardo e il suo Quintetto, con il Quartetto Amadeus e con Uto Ughi. Niente con il violoncello. Mi è mancata anche 1'esperienza del Lied, e mi dispiace molto. Con Uto Ughi abbiamo fatto molti concerti, abbiamo inciso anche due sonate di Mozart. Con lui c'era in progetto l'incisione integrale delle Sonate di Mozart e di Beethoven, ma problemi contrattuali con le relative etichette ce l'hanno impedito. È uno dei grandi rimpianti della mia vita, perché con Uto mi sono trovata musicalmente bene, è un artista che adoro, e penso che anche lui si sia trovato bene con me.
Quando ha cominciato a insegnare?
Dopo i trent'anni. Dopo il matrimonio ho insegnato al Conservatorio di Bolzano e poi per 15 anni a quello di Firenze. Poi l'ho lasciato perché non ho voluto rinunciare alla mia attività concertistica e alle master class. Poi ho insegnato a Ginevra. Oggi insegno solo ai corsi di Fiesole, nella Scuola di Piero Farulli.
Si è mai trovata a dovere insegnare a qualcuno che proprio non sa come mettere le mani sulla tastiera?
Andrea Lucchesini l'ho messo io al pianoforte a sei anni. Faceva qualche canzonetta con una sinistra messa male, ma aveva già un orecchio straordinario. L'ho avuto in Conservatorio fuori orario perché a quell'età non si poteva prendere. D'accordo col direttore dicemmo: il ragazzino vale, teniamolo come uditore; io però gli facevo lezione lo stesso. Mi divertiva mettere al piano un bambino così dotato. È molto più difficile quando ti arrivano certi talenti che sanno già suonare ma che tecnicamente sono un disastro. Lì bisogna tornare indietro. E qualche volta ci si riesce.
Parliamo della sua famosa incisione delle Variazioni Goldberg di Bach. Quando ha cominciato a suonarle?
Ho cominciato verso i 35 anni, senza pensare di portarle in pubblico. Fu determinante 1'uscita del disco di Glenn Gould. Avevo ascoltato un'esecuzione anni prima al clavicembalo, ma non ne avevo afferrato la bellezza. Glenn Gould me le fece scoprire, poi divenni pazza per l'esecuzione della Landowska, finché decisi di studiarle. Poi qualcuno mi propose di farle in pubblico.
Con tutti i ritornelli e senza intervallo?
Certamente. Capii subito che non si poteva fare che così. Qualche collega le suona senza ritornelli e magari fa seguire una Sonata di Schubert. Lo trovo assurdo. Pensi che una volta in Olanda ho dovuto pagare io il bar perché senza l'intervallo loro non potevano lavorare.
Qualche anno fa ha intrapreso un imponente lavoro con la Fonit Cetra per l'incisione dell'integrale di Clementi. Per il pubblico lei è ancora un po'...
La Signora Clementi.
Le pesa questa specie di etichetta?
No, mi piace, io sono un'innamorata di Clementi, penso che l'avrei sposato se fossi nata nella sua epoca. Ho sempre suonato Clementi, mi piace, Lo trovo spiritoso, lo trovo intelligente; mi piace la sua maniera di affrontare il pianoforte, è il «Beethoven un po' prima» e io sono molto fiera che sia italiano. Mi dispiace che gli italiani non lo suonino. Degli stranieri solo Horowitz l'ha amato e l'ha reso in un modo fantastico. Mi ero impegnata a fare l'opera completa, ma il lavoro si è fermato al quinto volume perché non c'erano più soldi. Poi due anni fa ho fatto un compact con la Emi con alcune sonate fra le più belle.
L'ultimo disco?
L'integrale dei Notturni di Chopin.
Progetti per il futuro?
Forse il Clavicembalo ben temperato, qualcosa di Schumann. Ma non c'è ancora niente di definito.
Coltiva qualche hobby?
La mia casa, i fiori. Amo gli oggetti, i mobili. Poi la montagna: ora ho una casa sull'Appennino pistoiese, a un'ora e mezza da qui. Ci muoio dietro. Ho amato le Dolomiti per una vita ma per avere una casa erano troppo lontane. Sull'Appenino invece ho conosciuto Cutigliano, un paesino medioevale da sogno, sui 700 metri. Io sto un po' più in alto,  sui mille metri. Un paradiso. Vorrei stare sempre lì.
Una napoletana che ama la montagna? E il mare?
Il mare è stata la passione della gioventù, poi passa, viene un momento in cui bisogna meditare e il mare non aiuta a meditare.
Alberto Spano
("Symphonia" N° 45 Anno V, dicembre 1994)

lunedì, ottobre 21, 2024

Alessandro Baricco: il bis sta al concerto come la schiuma al cappuccino

Va be' che quelli della Musica classica 
sono gente sempre un po' strana, ma certo che gli fanno dischi da non crederci. Tempo fa ne circolava uno con non so più quante esecuzioni della Pira (Trovatore di Verdi, il pezzo col do di petto alla fine), una in fila all'altra, per un'ora, roba da uscirci pazzi. Adesso è uscito un disco fatto solo di bis. Si sono messi lì, quelli della Radio Svizzera, e hanno tagliuzzato via da bobine di concerto lunghe così quelle frattaglie finali, di solito destinate al macero. Le hanno messe in fila e alla fine ne son venuti fuori 7l minuti e 22 secondi di schiuma. Nel senso che il bis sta al concerto come la schiuma al cappuccino. Un disco così è come andare al bar e chiedere schiuma senza cappuccino. Va detto che gli svizzeri non sono i primi ad applicarsi a questo singolare esercizio. Qualche anno fa c'aveva provato una casa discografica che si chiamava Claque. Lì era anche più bello: erano i bis di Rubinstein, Richter, Benedetti Michelangeli, Backaus e Horowitz. Si sentiva tutto, anche le grida, gli applausi, i boati, e a un certo punto si sentiva la voce di Rubinstein, proprio la sua voce, che annunciava il bis, una cosa che fanno in pochissimi, di solito suonano e basta e tu passi la serata a chiederti cosa diavolo era, ma lui, Rubinstein, era un signore, era una sorta di maggiordomo di lusso, e aveva quella compiacenza, te lo diceva cosa stava suonando, e lì lo si sente proprio, mentre lo dice: «Scherzo in si bemolle del Chopin», proprio così, «del Chopin», era a Torino, quasi trent'anni fa. Del Chopin.
Si può sempre migliorare. Assurdo per assurdo, feticcio per feticcio, avrei un consiglio. C'è un racconto di Heinrich Böll in cui un tecnico della radio si mette a collezionare i pezzi di nastro che taglia e scarta montando le interviste a intellettuali famosi. Quel che taglia sono i silenzi, le pause di esitazione, tra un pezzo di frase e un altro: quel lavoro di cucito per cui, con un paio d'ore di dedizione, anche Marco Giusti, alla radio, può fare la figura di un fine dicitore. Be', quello incomincia a collezionarli e a poco a poco mette da parte, con meticoloso ordine, questi pezzetti di nulla: e li etichetta: Silenzio di Elias Carletti (dico per dire), Silenzio di Italo Calvino, e così via. Una collezione memorabile. Nella prassi concertistica c'è un istante che non è un istante qualunque, anche se è silenzio assoluto: quando, all'inizio, il pubblico ammutolisce e l'interprete sta per attaccare: dura un attimo, alle volte, ma ci sono concerti in cui dura anche secondi. Se c'è un silenzio pieno di cose sensibilissime, quello lo è. Il consiglio lo do gratis: montatene un po' e fatene un disco. Io 30 mila lire le pagherei per sentire i due secondi di silenzio che sicuramente Glenn Gould avrà fatto prima di attaccare le Variazioni Goldberg. E come ha taciuto la Callas, prima di cantare 1'ultimo bis del suo ultimo concerto pubblico. E il silenzio dei Berliner, subito prima di suonare, per l'ultima volta, con Karajan. Io le pagherei.
Comunque, tornando ai bis. Io quel disco me lo sarei comprato, se non me l'avessero cortesemente spedito. Perché per i bis ho un debole. Mi piace talmente quell'aria che c'è quando inizia il rito dei bis, e tutti si stravaccano un po' sulla poltrona, e il musicista sembra in maniche di camicia anche se non lo è, mi piace talmente che a furia di godermela ho finito per elaborare un sogno. Che anche agli uomini normali fosse data una possibilità del genere. Voglio dire, quando è il momento e schiattano, come di dovere, sarebbe bello che i parenti al capezzale incominciassero ad applaudire e chiedere a gran voce i bis, e sarebbe bellissimo se in effetti fosse data facoltà, al morto, di risvegliarsi un attimo, e concederlo, il bis, una cosa piccola, da niente, una smorfia per cui andava famoso in famiglia, o una delle sue frasi celebri, o un giochetto di bravura con le mani, cose così, piccoli bis: e poi applausi, e lui che schiatta per sempre, questa volta per davvero. Sarebbe bello. Finisce che ci penso sempre, lì, al concerto, mentre sto a sentire i bis. E una volta che c'era Lazar Berman e non la finiva più di bissare (alla fine ne fece nove, di bis), insomma ero lì e non c'era fretta, così mi è venuto da pensare a quale bis concederò io, quando sarà il momento. Sarà stupido, ma mentre ascoltavo non so più quale sequenza di Liszt sempre più acrobatica, ho pensato a tutte le possibilità possibili e alla fine ho deciso. Non arriverò impreparato, a quel momento. So cosa farò. Credo che alzerò un po' la testa e dirò lentamente: pizza pazza a pezzi nel pozzo che puzza. E poi via, per sempre.
Alessandro Baricco
("La Stampa", 22 febbraio 1995)

giovedì, ottobre 10, 2024

Cesare Ferraresi (Trio di Milano)

Ottenni il trasferimento dal conserva
torio di Trieste al conservatorio di Milano nel 1962, e a Milano mi stabilii all'inizio dell'anno scolastico 1962-63. Il mio ingresso nel conservatorio coincise casualmente con il cambio del direttore: Giorgio Federico Ghedini, musicista illustre, andava in pensione, arrivava Jacopo Napoli, assai meno noto. In verità, Ghedini non era affatto contento di andare in pensione, e prima di cedere le aveva tentate tutte. Giulio Confalonieri aveva scritto, non ricordo più su quale giornale, un articolo intitolato ”L'arte non va in pensione a settant'anni”, uomini politici si erano mossi per vedere con il Ministero se si poteva fare un'eccezione, e Ghedini stesso era andato a perorare la sua causa presso il Ministro in persona, giocando una carta che gli era stata fornita da un professore espertissimo di leggi e di regolamenti. ”Maestro, purtroppo non posso far nulla", disse a Ghedini il Ministro, “perché la legge prevede che chi ha raggiunto i settant'anni, a meno che non sia stato sospeso dall'insegnamento durante il fascismo e non abbia perciò raggiunto il massimo degli anni di servizio, debba esser posto in quiescenza". Ghedini era antifascista, ma di sospensioni non ne aveva subite, e quindi... Però, però... “A dir il vero, Signor Ministro”, obbiettò, “c'è un precedente: Cesare Nordio - che aveva fatto la Marcia su Roma e che perciò... - andò in pensione a settantadue anni”. Il Signor Ministro rimase folgorato. Chiamò immediatamente il funzionario che gli aveva fornito le notizie sulla pratica e gli comunico quel che Ghedini gli aveva appena detto.
“È vero, Signor Ministro”, rispose prontamente il funzionario. “Il Maestro Nordio rimase per due anni oltre il limite d'età perché il direttore del Conservatorio di Bolzano deve parlare il tedesco. E siccome il Nordio era l'unico direttore che conoscesse il tedesco venne autorizzato a rimanere finché non fu espletato il concorso ad hoc”. ll Ministro aveva già aperto la bocca per dire “come vede, e mi dispiace, ecc. ecc.”, ma Ghedini lo bloccò fulmineamente. "Perfetto, allora non c'è problema: Nordio era l'unico direttore che sapesse il tedesco, io sono l'unico che sa la musica”. Il Ministro e il funzionario si fecero una bella risata... Ma a ottobre Ghedini dovette lasciare il conservatorio.
Io, arrivato fresco fresco, assistetti al passaggio delle consegne. Ghedini parlò, ascoltò il discorsetto di Jacopo Napoli - che non era un oratore, che balbettava leggermente quand'era emozionato, e che leggeva perciò da un foglio che aveva preparato - e poi avviò con il neodirettore, divertendosi a tenerlo sui carboni ardenti, un colloquio che divenne ben presto un interrogatorio.
Nei mesi precedenti i professori s'erano appassionati al caso-Ghedini, parteggiando pro-il-direttore o pro-il-regolamento, ed erano perciò molto eccitati durante la cerimonia del passaggio delle consegne. Io mi trovai casualmente seduto vicino a Cesare Ferraresi, che era stato un acceso pro-Ghedini e che commentò a bassa voce ogni frase del vecchio e ogni frase del nuovo direttore, spiegandomi le allusioni che io non avrei saputo cogliere.
Avevo conosciuto Ferraresi nel momento in cui m'ero seduto vicino a lui, presentandomi: “Da dove arrivi?", m'aveva detto, “Ah! da Trieste", e s'era messo a parlare di Gabriele Bianchi, direttore del conservatorio di Trieste per alcuni anni, che conosceva e di cui conosceva il Concerto per violino, e poi di altri musicisti triestini. Chiacchierammo - cioè parlò lui, mentre io interloquivo a monosillabi - per una decina di minuti, e quando i due direttori entrarono eravamo già amici.
Conosco troppo bene l'ambiente dei conservatori, e lo conoscevo già benissimo nel 1962, per non sapere che il nuovo arrivato viene in genere guardato con diffidenza. Fui perciò molto stupito per l'accoglienza di Ferraresi, e gli fui grato di non avermi lasciato lì impalato. Sapevo benissimo chi fosse, naturalmente; sapevo anzi più di quanto lui avrebbe mai potuto immaginare perché me ne aveva molto parlato un contrabbassista mio amico, che era stato con lui nell'orchestra dei Pomeriggi Musicali. Sapevo quindi non solo chi era ma com'era, e sapevo che subito dopo la guerra aveva sbarcato il lunario anche suonando tanghi nelle feste degli industrialotti brianzoli, facendosi poi la fama di grande tanghista ad un punto tale che con una serata in provincia riceveva una somma pari allo stipendio di un mese in orchestra. Nel 1962 Ferraresi aveva lasciato da tempo i Pomeriggi: era la "spalla" dell'orchestra della RAI.
Però era rimasto il musicista-musicista, quello che suona qualsiasi musica - che sia il tango o che sia Brahms - con la stessa passione e con la stessa proprietà stilistica. Suo fratello Aldo, gran virtuoso - mi disse in un'altra occasione -, con i tanghi sfolgorava. Ma anche lui aveva saputo cavarsela; e non si vergognava affatto del suo passato di tanghista-principe, perché per lui la musica era una sola, se era musica. Mozart, in fondo, non la pensava diversamente...
Non vidi mai Cesare Ferraresi fuori dal conservatorio, ma in conservatorio lo vidi molto spesso: in sala professori, nei corridoi, al bar. E con lui parlai moltissimo o, meglio, stetti moltissimo ad ascoltarlo. L'umanità di Ferraresi era senza limiti, la sua gioia di vivere e di far musica era straripante. Uno dei più frequenti argomenti delle nostre conversazioni furono i direttori d'orchestra che venivano invitati nella stagione milanese della RAI, e che io valutavo dalla platea, di schiena, mentre lui li valutava dal palco, di fronte. Da lui imparai a capire la differenza fra l'orchestra che suona volentieri e 1'orchestra che suona, magari benissimo, malvolentieri. Malvolentieri perché il direttore non se l'è fatta amica durante le prove.
Ferraresi prediligeva i direttori che parlano molto con la bacchetta, e detestava quelli  che parlano molto con la lingua. “Grande direttore, grandissimo”, mi disse di uno che era effettivamente grandissimo, "ma dopo due giorni di prova non se ne può più, si comincia a pensare con fastidio al mattino dopo”. Era una grande spalla, Ferraresi, un trascinatore che teneva compatta la fila dei primi violini. Ci sono spalle che durante le prove discutono con il direttore arcate e diteggiature e poi le spiegano alla fila e si arrabbiano se la fila non ha pronta la matita per mettere sulle parti i segni, ci sono spalle che fanno anche studiare la fila, magari per pochi minuti ma portando allo scoperto i pigri e inducendoli indirettamente a guardarsi poi la parte a casa. Però, all'esecuzione, ciò che conta sono la punta dell'archetto della spalla, che tutta la fila vede, il suo gesto di preparazione degli attacchi difficili, la fulminea occhiata in tralice che scambia con il compagno di leggio, il ”concertino”. Ferraresi, sentiti i desiderata del direttore, sceglieva arcate e diteggiature, le faceva vedere alla fila e non si curava di controllare se ciò che aveva deciso veniva o no riportato sulle parti. Tuttavia la fila, al momento del concerto, era pronta ed aveva raggiunto la compattezza di una testuggine romana.
Il fatto è che le diteggiature e le arcate di Ferraresi erano connaturate ad una finalità musicale semplice, immediata, vorrei dire fisiologica. Una volta, dovendo fare delle trasmissioni radiofoniche sugli studi didattici per pianoforte, per violino e per violoncello, chiesi la disponibilità di alcuni strumentisti. Ricordo che Franco Gulli rifiutò: “Per far bene gli Studi di Kreutzer”, mi disse, “dovrei star fermo per tre mesi e dovrei richiedere perciò un onorario che la RAI non potrebbe darmi”. Un altro violinista mi comunicò che accettava con piacere, aggiungendo però che gli Studi di Dont li avrebbe eseguiti, cioè che io avrei dovuto accontentarmi di un'esecuzione più musicale che tecnica. Ferraresi accettò con entusiasmo. Poi, ogni volta che l'incontravo, mi diceva: "Sai, in quel Libon non riesco a trovare la musica. E se non la trovo non so suonarlo”. Alla fine la trovò, e la sua esecuzione non fu né “musicale” né “tecnica” ma semplicemente giusta.
Ferraresi lavorava in un'orchestra italiana ma era come se lavorasse in un'orchestra tedesca, perché aveva formato un complesso d'archi con cui teneva dei concerti extra, aggiungendo a volte dei fiati per fare l'operina.  Era un po', in piccolo, come Renato Fasano, che con i suoi Virtuosi di Roma alternava i concerti e il teatro da camera, e si divertiva ad avere occupata tutta la giornata con la musica. Un giorno - inusitatamente, perché ci incontravamo sempre per caso - venne a cercarmi in classe, per dirmi che aveva formato un trio con Bruno Canino e Rocco Filippini.
E mi chiese - ero allora direttore artistico dell'Istituzione Universitaria dei Concerti di Roma - se il complesso avrebbe potuto interessarmi. Gli dissi di sì, ma gli obbiettai che forse un trio nuovo non avrebbe trovato molte aperture, visto che c'erano il Trio di Trieste e il Trio di Bolzano. Mi rispose dicendo di averci pensato, ma di esser convinto di  poter coprire i periodi che l'orchestra gli lasciava liberi, e di voler comunque tentare.  Ed ebbe ragione.
Era sorprendente, per me, che si formasse un nuovo trio non con giovani ma con professionisti affermati. Ed era sorprendente che i tre non appartenessero alla stessa generazione. Però Ferraresi doveva aver preferito due che gli somigliavano e sui quali poteva - come dire? - esercitare artisticamente la patria potestà. Fatto sta che il Trio di Milano partì molto bene e che si affermò rapidamente. Cesare Ferraresi scomparve prematuramente: nel 198l, a sessantatré anni non ancora compiuti. E la sua, mi fu detto, fu una morte serenamente accettata. Il Trio  di Milano continuò ad esistere dopo di lui, ed esiste ancora, ormai con quasi trent'anni di attività alle spalle. Fa piacere a me, e credo farà piacere ai miei lettori, ascoltarlo nella prima formazione. E fa piacere a me poter ricordare, e fare conoscere a chi non lo conobbe, Cesare Ferraresi: un uomo verso cui non si poteva non provare simpatia, un musicista a trecentosessanta gradi.
Piero Rattalino
("Symphonia" N° 63 Anno VII, Giugno 1996)