Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

martedì, novembre 11, 2025

Lulu di Alban Berg

Alban Berg
(dipinto su tela di Arnold Schoenberg, 1910)
Nato nel 1885 a Vienna, da una famiglia 
di origine bavarese, Alban Berg fu dapprima autodidatta e subì gli influssi dei maestri del Lied romantico e tardo-romantico quali Schumann, Brahms e Wolf. Le sue composizioni giovanili appartengono di conseguenza prevalentemente al genere della lirica da camera. Dopo aver terminato il liceo scientifico, Berg studiò, tra il 1904 e il 1910, con Schoenberg al quale restò sempre profondamente legato. Insieme al Maestro e al condiscepolo Anton Webern, Berg doveva dar vita alla cosiddetta «Seconda Scuola viennese» (la prima essendo ovviamente quella dei grandi classici Haydn, Mozart e Beethoven). Senza voler stabilire alcun ozioso paragone qualitativo, si può dire tuttavia senza tema di smentita che, come la prima, così anche questa seconda scuola fiorita nella capitale austriaca, influenzò in modo decisivo gli sviluppi della civiltà musicale dell'Occidente. Nell'ambito di questa scuola (che solo più tardi doveva allargarsi oltre l'iniziale ristretta cerchia schoenberghiana), Alban Berg si distingue per la costante tendenza a «consolidare retroattivamente le scoperte schoenberghiane» più radicalmente innovatrici (per dirla con le parole del Leibowitz), e di «assicurare il raccordo storico» (Willy Reich) rappresentando dunque, nell'ambito della corrente schoenberghiana la «coscienza del passato». Oltre all'insegnamento schoenberghiano ebbero importanza per la sua formazione le forti impressioni ricevute dalla «Salomè» di Strauss (ascoltata per la prima volta a Graz nel 1906) e dall'«Ariane et Barbebleu» di Dukas (1908). Decisivi furono anche i contatti con pittori e letterati espressionisti come Kokoschka, Peter Altenberg e Karl Kraus. Il teatro di Frank Wedekind l'attirò ugualmente fin da quando era giovanissimo. Un'eredità avuta nel 1906 gli permise di dedicarsi interamente alla musica senza essere obbligato di togliere del tempo e delle energie alla composizione attraverso attività collaterali di interprete o di stabili impegni didattici. Quando, dopo la prima guerra mondiale le sue condizioni finanziarie peggiorarono, la salute costantemente cagionevole gli impedì di allargare la sua attività oltre all'insegnamento privato ed a una scarna, ma assai incisiva azione di conferenziere e pubblicista svolta soprattutto in favore della nuova musica. Se si ricorda che nel 1911, Berg aveva sposato Helene Nahowski la cui affettuosa fedeltà e premurosa partecipazione ad ogni momento della sua vicenda umana e artistica incisero sulla sua vita (in modi e misure che bisognerà ancora puntualizzare), si può ben dire che, per il resto, gli aspetti essenziali della ulteriore storia di Berg si identificarono con quella della sua creatività musicale. La fase della prima maturità di tale creatività prese l'avvio con la «Sonata» op. 1 per pianoforte (1908) e si dispiegò negli anni precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale in modo significativo, quanto meditatamente lento, fruttando un gruppo di 4 «Lieder» con pianoforte (op. 2), 5 «Lieder» con orchestra (op. 4), un «Quartetto» per archi (op. 3), 4 piccoli Pezzi per clarinetto e pianoforte (op. 5), 3 Pezzi per orchestra (op. 6). L'opera 7 sarà il suo capolavoro, il «Wozzeck», al quale Berg lavorerà fino al 1921. Dato questo lento ritmo della sua produzione, dovuto alla precarietà della salute, ma anche e soprattutto ad una estrema scrupolosità di lavoro, Berg si asterrà dal continuare la numerazione delle opere che gli sarà dato ancora di scrivere prima della prematura morte nel 1935, opere il cui numero non supererà comunque la mezza dozzina. In queste ultime opere Berg adotterà i procedimenti del metodo dodecafonico coniato da Schoenberg intorno al 1924. Lungi dall'attutire la peculiarità della sua poetica, quest'adesione di Berg alla dodecafonia ne renderà ancora più espliciti i connotati. Infatti Berg non si servirà della scrittura seriale per elidere o per eludere i nessi tonali, ma cercherà di innestare nello spazio pancromatico funzioni armoniche tradizionali, precorrendo in ciò una tendenza del tardo Schoenberg.
Altra caratteristica di Berg che andrà vieppiù accentuandosi è la connaturata ed intrinseca drammaticità. Veri e propri gesti drammatici abbondano anche nei suoi lavori cameristici e sinfonici, sì che a giusta ragione il Reich può considerare la «Suite lirica» per quartetto d'archi (1926) come «opera latente», il «Concerto» per violino e orchestra (1935) come «dramma latente» e l'Aria da concerto «Il vino» (su versi di Baudelaire e la loro traduzione tedesca di Stefan George) come «prolegomeno a Lulu». Lo stesso Berg confessava che un «programma nascosto» si celava anche nel «Concerto da camera» scritto nel 1925. Fu questa fondamentale disposizione drammatica a spingere il compositore verso le forme del teatro musicale permettendogli di creare col «Wozzeck» l'opera che insieme al «Pelléas» di Debussy è generalmente riconosciuta come il capolavoro della moderna letteratura operistica. La caratteristica più saliente dello stile operistico di Berg risulta dal fatto che in lui gli impulsi drammatici tendenti a spezzare le cornici formali, vengono bilanciati da quello che il Reich chiama «una mitica tendenza» ad assicurare la coesione e la solidità formula della sua musica mediante la giustificazione tematica anche del più minuto passaggio. La particolare maniera di dedurre tutte le figure sonore di una composizione da alcune fondamentali cellule generatrici aveva conferito già alla «Sonata» op. 1 e ai «Pezzi» op. 6 aspetti che anticipavano la tecnica seriale e che nei «Lieder» op. 4 e nella «Passacaglia» del «Wozzeck» portavano alla formulazione di vere e proprie costellazioni dodecafoniche, seppure non ancora metodicamente elaborate. Da simili tendenze strutturali nacque con «Wozzeck» un tipo di opera, nella quale azione scenica e trama musicale appaiono inquadrate in chiuse forme da concerto. Altro aspetto essenziale del «Wozzeck» e più ancora di «Lulu», è un nuovo stile di canto, sorto dallo «Sprachgesang» immaginato da Schoenberg nel «Pierrot Lunaire», ma sviluppato da Berg in vari sensi e integrato soprattutto in una ampia gamma di modi canori che Alban Berg in un ritratto di Schoenberg va dalla stilizzazione di inflessioni del linguaggio parlato, all'espressione melodica vera e propria e fino al virtuosismo di colorature che riprendono ed esaltano modernamente le tradizioni del bel canto italiano. Non sono comunque astratte qualità formali che determinarono il successo mondiale del «Woz-
zeck», ma il fatto che, lungi dall'essere fine a se stesse, tali qualità sono sempre messe al servizio dell'efficacia teatrale, della verità drammatica e della espressione di un senso di pietà umana, intensamente sentita e vissuta. Rappresentato per la prima volta nel 1924, «Wozzeck»› costituì una definitiva testimonianza del genio e della vocazione teatrale del suo autore.
Dopo essersi affermato col «Wozzeck»›Berg pensò subito ad una seconda opera. Abbiamo già detto che egli conosceva da molto tempo il teatro di Wadekind. Infatti, fu nel 1905 (cioè nove anni prima che Berg vedesse per la prima volta il «Wozzeck» di Buechner) che egli assistette alla prima rappresentazione viennese della tragedia «Die Biichse der Pandora» (Il vaso di Pandora) di Frank Wedekind. Com'è noto, Wedekind fu uno dei principali artisti che aprirono la strada all'espressionismo teatrale tedesco. Egli aveva concepito questo dramma nello stesso spirito moralistico che informava anche il precedente dramma intitolato «Erdgeist» (Spirito della terra) scritto nel 1893 e in cui avvengono gli antefatti della vicenda che nel «Vaso di Pandora» conosce la sua tragica catarsi. Il personaggio della donna sensuale che rovina gli uomini da lei irresistibilmente attratti, fu concepita da Wedekind quale strumento critico contro la borghesia tedesca. Wedekind voleva scuotere questa classe e indurla a riflettere e a riscattarsi da quel coacervo di ipocriti compromessi morali e di complessi psicologici che Freud doveva diagnosticare e diagnosticare scientificamente.
Gli assunti etici di Wedekind non furono riconosciuti come tali e i suoi lavori rimasero circondati a lungo da un alone di scandalo e costituirono un bersaglio contro il quale si accaniva la censura.
Sembra anche che i congiunti più stretti e persino il venerato maestro Schoenberg abbiano cercato di dissuadere il compositore dalla scelta delle tragedie di Wedekind come materia per un libretto d'opera. Com'è noto Schoenberg aveva criticato già la scelta del soggetto di Wozzeck, affermando che secondo lui «la musica doveva avere a che fare con gli angeli e non con soldati e donne di malaffare». A maggior ragione egli dovette disapprovare la scelta del personaggio di Lulu come figura centrale della seconda opera di Berg, pur accettando in seguito che quest'ultimo gliela dedicasse. Purtroppo simili ostilità avrebbero contribuito a far sì che l'opera che Berg doveva lasciare completamente elaborata nella partitura orchestrale, restasse un torso non integrato fino al giorno d'oggi. Infatti, sia Schoenberg che Webern, per un motivo o l'altro rifiutarono di completarla e ancor oggi la vedova del compositore esita di concedere il permesso perché altri possano compiere il lavoro necessario per rendere rappresentabile l'intero terzo Atto di «Lulu». Lasciando per ora da parte ogni considerazione circa i problemi posti da questo stato di cose, bisogna ricordare che inizialmente lo stesso Berg aveva rivolto la sua attenzione anche ad altri lavori drammatici, come ad esempio al dramma hassidico «Il Dibbuk» di Anski (del quale si sarebbe servito poi Lodovico Rocca) e soprattutto al dramma fiabesco «Und Pipa tanzt!» di Gerhard Hauptmann che aveva interessato in precedenza anche Schoenberg. Quest'ultimo progetto era già stato portato avanti e Berg si era recato anche in Italia dove soggiornava Hauptmann per discutere con quest'ultimo la stesura del libretto. Finalmente alcune difficoltà editoriali indussero Berg a rinunciare alla collaborazione con Hauptmann e a far prevalere su tutte le remore esteriori le necessità interiori che lo spingevano verso il mondo di Wedekind. Nella primavera del 1928 decise così di procedere come già aveva fatto nel caso del «Wozzeck» di Buechner, cioè di riplasmare una preesistente materia teatrale piegandola alle proprie esigenze senza ricorrere alla collaborazione o all'aiuto di un librettista.
Nello stesso periodo 1928-1929 Georg Wilhelm Pabst stava girando un film sullo stesso soggetto. Pur assumendo il titolo del secondo dei due drammi («Die Buechse der Pandora») la trama di questo film conglobava «Lo spirito della terra» e «Il vaso di Pandora». Berg procedette in un modo analogo, fondendo cioè i due lavori. Una volta di più egli diede prova di possedere un sicuro, innato senso del teatro e particolarmente delle specifiche esigenze del teatro musicale. In una lettera a Schoenberg, Berg parla del tormento che gli causava la necessità di cancellare quattro quinti dell'originale testo di Wedekind e di coordinare il resto nel tessuto delle «più grandi e più piccole forme musicali senza distruggere con ciò il peculiare linguaggio di Wedekind». Nonostante quest'affermazione, un confronto tra il testo dell'opera berghiana e quello dei drammi di Wedekind dimostra che in moltissimi punti Berg ha modificato (in genere nobilitandola) anche la stessa formulazione delle frasi mutuate da Wedekind.
Anche l'epoca dell'azione appare spostata e precisamente di trent'anni: infatti, mentre i drammi di Wedekind sono ambientati nel periodo e nel clima della fine del secolo scorso, l'opera di Berg si svolge nell'atmosfera degli anni tra le due guerre mondiali. Per quanto riguarda la fusione de «Lo spirito della terra» e «Il vaso di Pandora», lo stesso Berg illustrò il modo in cui procedette per desumere il suo libretto da questi due lavori, nella citata lettera a Schoenberg, mediante il seguente schema sintetico:


Condensando i due drammi di Wedekind, Berg ha operato il taglio di molte scene e di non poche figure episodiche. In funzione del proprio mondo interiore e della sua peculiare sensibilità egli ha conferito anche un diverso rilievo a talune delle figure principali di questi drammi, mutando anzitutto l'importanza delle due principali figure femminili. Così, mentre negli originali di Wedekind la figura principale era quella della contessa Geschwitz e Lulu svolgeva un ruolo prevalentemente passivo, nell'opera di Berg l'interesse e la partecipazione umana del compositore si concentrano sulla figura di Lulu, ciò che spiega la scelta del titolo. La scelta dell'argomento è giustificata dalla profonda opposizione di Berg «verso un'Austria che lo rinnegò fino alla fine della sua vita e oltre la sua morte... di un'Austria (oggi da gran tempo passata nella storia, ma che in lui come in qualcuno dei più giovani sopravviveva come immanenza dell'anima)... che consentiva la schiavizzazione e la degradazione del laconico, inceppato moschettiere polacco-tedesco nel cortile della prigione di una prussiana gerarchia democratica: Wozzeck; e la danza macabra della prostituta apportatrice di voluttà, che viene stritolata dall'ingranaggio sociale del consorzio umano: Lulu»(Redlich) .
Nella primavera del 1929, ultimato il libretto, Berg iniziò la composizione della musica che lo impegnò per i successivi restanti sei anni della sua vita, con due interruzioni dovute alle composizione de «Il Vino» (1929) e del «Concerto» per violino e orchestra (primavera-estate 1935). Fin dall'aprile 1934 lo spartito dell'opera era praticamente ultimato e in quell'estate Berg raggruppò alcuni brani in una «Suite» intitolata «Pezzi sinfonici dell'opera Lulu», ma chiamata abitualmente, per l'analogia della sua configurazione con quella di alcune sinfonie di Mahler, «Lulu - Symphonie».
Nel novembre 1934, malgrado l'ostilità nazista la «Lulu - Symphonie» fu eseguita con successo a Berlino. La morte prematura non permise disgraziatamente a Berg di completare la stesura orchestrale dell'opera. Del terzo atto, infatti, se si escludono le 268 battute iniziali, l'intermezzo orchestrale in forma di «Variazioni» e l'«Adagio» finale accolti nella «Lulu - Symphonie», resta solo una prima stesura con parti vocali integralmente formulate, ma le parti strumentali abbozzate, però con una chiarezza sufficiente da aver permesso la riduzione per canto e pianoforte di Erwin Stein (1936).
Tutte le rappresentazioni che si sono avute di «Lulu» fino al giorno d'oggi hanno dovuto affrontare, con soluzioni diverse, il problema di questo terzo atto incompiuto, nel quale per la convergenza dell'azione drammatica e della vicenda musicale dovrebbe chiarirsi il significato intrinseco dell'opera.
Tali soluzioni sono comunque necessariamente provvisorie e non permettono di risolvere categoricamente il quesito se «Lulu» sia opera riuscita al pari di «Wozzeck», che senza discussione ha un posto di primo piano fra i capolavori del teatro musicale del nostro secolo, e se rinunciando alla tecnica libera impiegata nel «Wozzeck» per l'impiego in «Lulu» del metodo dodecafonico, Berg abbia ottenuto un maggior rigore grammaticale, ma una minore efficacia teatrale. In realtà, pur adottando il metodo dodecafonico, egli non mutò la propria poetica che gli consentiva di «mescolare dei pezzi e dei frammenti scritti distintamente in una tonalità data con altri brani e frammenti non tonali», poiché «un compositore d'opera non poteva rinunciare sempre - e ciò per delle ragioni di espressione e di caratterizzazione drammatica - al contrasto fornito dall'alternarsi dei modi maggiori e minori». In «Lulu», infatti, come negli altri lavori dodecafonici di Berg, la tecnica dodecafonica è continuamente piegata al costituirsi di nessi tonali e di assonanze diatoniche. I primi sei suoni della serie originaria di «Lulu» appartengono alla scala di si bemolle maggiore, mentre gli altri sei sono nella sfera della tonalità di do maggiore. A questa e ad un gruppo di serie sussidiarie derivate mediante processi permutativi sono riferite le principali figure sonore dell'opera: ne deriva così una materia sonora omogenea e pur differenziata, nella quale si realizzano i singoli personaggi e le varie situazioni sceniche. Mentre nel «Wozzeck» le forme musicali erano pensate in funzione del carattere delle singole scene, in «Lulu» è soprattutto il carattere dei personaggi, nel loro «aspetto totale» (come disse più volte lo stesso Berg) a determinare la forma del discorso musicale. A tal fine egli si vale anche del ritmo, dei timbri strumentali e vocali, e della stessa emissione vocale che va dal semplice parlato al «bel canto», fino al canto di coloratura.
I lineamenti musicali dei personaggi appaiono fin dal «Prologo», in cui un domatore (nel quale viene adombrato l'autore) presenta lo spettacolo come il numero di un circo dove ogni belva raffigura un personaggio. Fin dall'inizio le note degli ottoni alludono al clima sonoro dell'opera con la squillante volgarità di una fanfara da circo. La trama del lavoro è sostenuta dal motivo di questa fanfara che simboleggia lo «spirito della terra», cioe l'istinto sessuale, manifestazione delle cieche forze irrazionali che devono essere domate per non far infrangere all'uomo l'ordine sociale. Il secondo motivo musicale del «Prologo» è quello dell'«Orso» che rappresenta l'atletico acrobata Rodrigo Quast. Il motivo, ispirato dalla meccanica pianistica, è composto da due blocchi dei tasti bianchi e di quelli neri. Questi armonici che includono suoni rispettivamente ultimi sono percossi con l`intero avambraccio sinistro, tecnica atta qui a rendere mirabilmente, mediante suoni opachi e amorfi grappoli armonici, l'ottusità e la forza bruta del personaggio. Il motivo che segue e quello del Dr. Schön, rappresentato dalla «Tigre», ed ha sapore diatonico: l'angolosa ossatura ritmica rende il duro e volitivo temperamento del personaggio. Il conformismo sociale e la gretta ipocrita mentalità borghese del Dr. Schön saranno resi successivamente con la voluta convenzionalità di un movimento di «Gavotta». Questi due motivi diversi costituiscono nella seconda scena del primo atto il tema principale e il tema laterale di un «Tempo di Sonata»: la dialettica dei due temi contrastanti, tipica della classica forma di sonata, è usata qui come pregnante mezzo per raffigurare i lineamenti contrastanti di questo personaggio.
Nel prologo compare, poi, il tema di «Lulu», rappresentata dal «Serpente», «creato per seminare disgrazia». Alla parola «disgrazia» corrispondono le note centrali del tema disposte in un disegno che rievoca uno dei motivi principali del «Tristano»; in seguito questo patetico riferimento si annullerà e il tema tradurrà più direttamente il carattere della protagonista. L'andamento danzante, la leggerezza delle note staccate, la fatua grazia della «Canzonetta», della «Cavatina» e dell'«Arietta», motivi con i quali accompagna i suoi misfatti, rispecchiano la sua ambiguità e la sua totale irresponsabilità morale. Un tema importante formato da quattro triadi è quello che accompagna l'esecuzione del ritratto di Lulu in costume di Pierrot da parte del pittore Schwartz nella scena iniziale dell'Atto primo. Tutti questi motivi sono riferibili a costellazioni seriali desunte dalla serie principale. Questa si rivela solo nel «Lied» di coloratura che costituisce il più alto momento di rallentamento lirico dell'azione nella scena in cui il Dr. Schön, prima di essere ucciso da Lulu, la spinge a suicidarsi. Sulla partitura Berg ha indicato il tempo di questo brano come «Tempo del battito del polso» quasi per significare che Lulu deve cantare qui con la
stessa voce del sangue per manifestare il suo essere più intimo. Questo punto focale dell'opera è forse il momento sommamente caratterizzante di tutta la musica di Berg, musica che nei suoi tratti più tipici sottintende un «ritmo somatico», fisicamente corporeo, ponendosi così in assoluto contrasto con la musica di Webern in cui si riflette un ideale «ritmo dell'anima». Nel «Lied» in questione, mentre le strutture ritmiche colgono il lato più concretamente umano di Lulu, quelle melodiche, stilizzate in plananti («schwebend» indica l'autore) arabeschi di coloratura, ambientano il personaggio della protagonista in una irreale regione onirica, dove questa «sonnambula dell'amore» si muove inconsapevolmente al di fuori della umana responsabilità.
In un modo quanto mai sottile sono scolpiti anche gli altri personaggi dell'opera. La triste figura di Alwa, perdutamente innamorato di Lulu nonostante che essa abbia ucciso suo padre, è costituita musicalmente da motivi in modi minori che ingenerano forme simili a quella del «Rondò». Con le loro roteanti strutture circolanti queste forze simboleggiano il vortice sensuale dal quale il giovane non può divincolarsi. L'anormale contessa Geschwitz, lesbicamente innamorata di Lulu, viene delineata mediante figure tematiche di un'esotica configurazione pentatonica. Il «cadente e asmatico» Schigolch, decrepito suonatore ambulante che, dopo esserne stato l'amante, si spaccia per il padre di Lulu, viene caratterizzato per mezzo di una «Kammermusik» («Nottetto per legni») i cui ansanti disegni cromatici sembrano provenire da una sgangherata fisarmonica. Nel terzo atto Berg non esita poi a rompere la trama dodecafonica inserendovi come Tema di Variazioni una banale canzonetta in do maggiore, il «Lautenlied» n. 10 («Canzone da liuto») composta dallo stesso Wadekind. E questo al fine di raffigurare efficacemente la totale decadenza e depravazione di Lulu. Quest'ultima, dopo infinite umiliazioni, troverà infine la morte, insieme ad Alwa e alla Geschwitz per mano di personaggi che secondo un'intenzione esplicitamente formulata da Berg, dovrebbero venire interpretati dai medesimi cantanti che nei primi due atti impersonavano figure maschili che avevano trovato la morte per colpa di Lulu. Con una simile simmetria Berg voleva rende esplicito quello che Karl Kraus aveva definito «la rivincita di un mondo maschile che osa vendicare le proprie colpe». Per Berg una tale vendetta non assume certamente il significato di una punizione del destino dei peccati della protagonista, ma appare invece come una nemesi, tragicamente fatale. In «Lulu», come prima nel «Wozzeck», le colpe del personaggio centrale e delle altre figure vengono attribuite alla società che li ha posti nella condizione di subire l'azione letale del primigenio istinto sessuale, avvelenato e distorto dai preconcetti e dai repressivi meccanismi psicologici fino ad assumere virtuali aspetti demoniaci.
La pietà umana con cui Berg plasmò la figura di Lulu si desume dalla stessa frase con cui egli definì la scena d'amore con Alwa: «come l'artista vede Lulu - e come essa deve essere vista, perché si possa comprendere che nonostante tutto il terribile che accade per lei - essa viene tanto amata». Berg considerava Lulu come il corrispondente femminile del Don Giovanni. Egli fu perciò molto toccato dalla frase con la quale un critico boemo pronosticava: «dopo il Wozzeck, Lulu vivrà eternamente; essa avrà meno difficoltà del povero Wozzeck, perché con Don Giovanni e Faust appartiene a quelle figure sempre rinascenti che camminano tra noi e che lo sguardo d'un poeta non aveva bisogno di formare, ma solo di cogliere».
Roman Vlad
("Disclub" 26, anno VII, marzo/aprile 1968)

lunedì, novembre 03, 2025

Musica e poesia a San Maurizio

Comincia stasera in San Maurizio al Monastero Maggiore (corso Magenta 15) una serie di concerti di musica antica eseguita su strumenti antichi o ricostruiti su modelli d'epoca. Un nuovo spazio musicale si aggiunge così alle sedi tradizionali della musica milanese. Il primo concerto della serie, che si concluderà il 3 dicembre, sarà sostenuto da Hannelore Müller, viola da gamba, e Emilia Fadini, cembalo; comprenderà musiche di Frescobaldi, Ruffo, Couperin, Marais.

Era il 13 ottobre del 1976: sul «Corriere della Sera» così veniva dato l'annuncio dell'inaugurazione di quella che, nel tempo, sarebbe divenuta la più importante e prestigiosa rassegna di musica antica a Milano, e non solo. Sotto la pioggia autunnale, una fila di ombrelli si accalcava lungo il marciapiede di corso Magenta; la chiesa traboccava di un pubblico «coinvolto intellettualmente e profondamente ammirato. [...] Peccato che possa contenere solo trecento persone circa. Il pubblico è accorso numeroso e purtroppo molte persone non hanno potuto entrare»: «Musica e poesia a San Maurizio» iniziava la sua storia.
Sandro Boccardi, ideatore e poi, per oltre trent'anni, direttore della rassegna, ama ripetere che non è stato lui a scegliere San Maurizio: è il luogo ad aver condizionato le sue scelte. Funzionario del Comune di Milano, Boccardi un giorno si ritrova ad accompagnare un collega del Settore Cultura in un sopralluogo in quella chiesa dimenticata. Nelle intenzioni del Comune il coro di San Maurizio avrebbe forse potuto ospitare delle mostre. «Lascio immaginare - ricorda Boccardi - la sorpresa di trovarmi di fronte ad una chiesa che era ed è essa stessa una mostra vivente dell'arte del tardo Rinascimento lombardo e del primo Barocco. Assurdo farne uno spazio in cui esposizioni ne coprissero le bellezze.» Boccardi, da amante della musica (studiava pianoforte), percorre rapito l'iconografia degli affreschi: «Angeli con piccole arpe medievali, liuti, viole da gamba, flauti senza chiavi, ribeche», ad incorniciare un'aula in cui nel Cinque-Seicento monache di clausura avevano cantato e suonato. Sgorga così, dallo stesso contatto estetico ed emotivo con il luogo, l'idea di renderlo spazio per la musica, per una musica in grado di realizzare una compiuta sonorizzazione dello spirito che in quell'intimo e incantato anfratto d'arte e di storia pareva aleggiare: per la musica antica. Attraverso scambi di idee con Ermanno Arslam, direttore dell'attiguo Museo Archeologico, il progetto inizia a profilarsi nei suoi contorni, scandagliato ed elaborato con passione in seno a una commissione informale che, in «incontri quasi carbonari», accoglieva suggerimenti e stimoli dal mondo letterario e musicale, da Maria Corti a Renato Fait. Conquistato l'appoggio del Comune - che investe Sandro Boccardi della figura di direttore responsabile -, ecco i cicli di musica e poesia tradursi in realtà «La poesia moderna accanto alla musica antica», rievoca Boccardi «due linee parallele: le letture poetiche in orario pomeridiano, i concerti alla sera, con cadenza settimanale.» Era una novità, allora, udire i poeti leggere le proprie composizioni: Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, Mario Luzi, Edoardo Sanguineti, Andrea Zanzotto, ognuno introdotto da relatori del calibro di Maria Corti, di Cesare Segre, di Gianfranco Contini. Anche se, dopo due anni, gli incontri di poesia furono abbandonati, «la poesia - precisa Boccardi - restava e resta nel titolo della rassegna sanmauriziana: poesia in senso lato, come momento dell'avverarsi del messaggio artistico (del poiein), così naturale e accessibile nel contesto magico, architettonico e pittorico, spaziale e acustico di San Maurizio». Che in quel luogo si facesse e vivesse poesia dovette essere chiaro fin da subito, già al concerto inaugurale:

È un luogo splendido, insigne monumento cinquecentesco ricco di affreschi di scuola leonardesca (Luini, Boltraffio, Lomazzo): l'acustica è perfetta [...]. Il programma [...] è risultato eccellente per la presenza di due artiste di elevate qualità, Hannelore Müller (viola da gamba) e Emilia Fadini (cembalo), che dai loro preziosi strumenti hanno tratto suoni di sicura bellezza. (Corriere della Sera, 15 ottobre 1976)

A risuonare, percorso dalle mani di Emilia Fadini, era un prezioso cembalo Taskin del 1780, proveniente dalle Civiche Raccolte del Castello Sforzesco, gentilmente prestato per l'occasione: per circa vent'anni sarebbe rimasto a San Maurizio, anch'esso da protagonista; e Boccardi ricorda «l”apprensione amorevole di Clelia Alberici, direttrice delle Civiche Raccolte del Castello, che raccomandava di mettere al Taskin, durante l'inverno, una copertina di lana».
Il concerto affidato a Emilia Fadini e Hannelore Müller dell'ottobre del 1976 inaugura il susseguirsi di appuntamenti, stagione dopo stagione, con esecutori divenuti oggi i più acclamati interpreti della musica del passato: già limitandosi ai primi dieci anni di attività di San Maurizio, si incontrano i nomi (qui in ordine sparso e tutti d'un fiato, così da rendere la vertigine di simili abbacinanti proposte concertistiche) di René Jacob, Sigiswald, Barthold e Wieland Kuijken, Kenneth Gilbert, Alan Curtis, Ensemble Sequentia, Musica Antiqua Köln, ]ordi Savall e il suo Hespèrion, Ton Koopman, Gustav Leonhardt, Hilliard Ensemble, Nikolaus Harnoncourt, Christophe Rousset, Gabriel Garrido, James Bowman, Christopher Hogwood, Frans Brüggen, Anner Bijlsma. E, parallelamente, oltre a portare in Italia fin dagli anni Settanta le avanguardie della musica antica, San Maurizio contribuisce a dare spazio e a far emergere le nuove forze italiane impegnate nella prassi esecutiva storica, «con il loro timbro particolare e la loro fantasia istintiva, e con un bagaglio di studi fatti seriamente all'estero. Partiti in ritardo, ma - è Boccardi a parlare - già protagonisti di primo piano, quando non riposassero sui primi allori»: tra gli altri, Chiara Banchini, Roberto Gini, Lorenzo Ghielmi, il Giardino Musicale (che negli anni sarebbe divenuto «armonico»). Il successo della rassegna prosegue nel tempo, attraversando la Milano da bere degli anni Ottanta - in cui San Maurizio talora diviene anche un'occasione à la page, con le fotomodelle sedute per terra a gustarsi i concerti -, sino al monumentale progetto dell'esecuzione integrale delle Cantate di Bach, avviato e concluso in dieci anni a partire dal 1994, che, per quanto gestito dalla Società del Quartetto e dal Comune di Milano, del seminato di San Maurizio è stato in qualche modo una luminosa emanazione.
Molti gli appuntamenti sanmauriziani rimasti memorabili, dalla Messe de Notre-Dame di Guillaume de Machaut proposta dall'Ensemble Musica Antiqua nel 1978, fino al concerto dell'Ensemble Sequentia di Colonia dedicato a Dante e i trovatori, con gli strumentisti che si muovono nello spazio, tra il pubblico, o ancora, nel 1979, al concerto dell'Hespèrion XX di Savall che vede i musicisti dislocati in parte sui matronei, in parte dietro gli stalli lignei, in parte sulla pedana, con effetti stereofonici di grande suggestione, a ribadire, nel suggestivo incantesimo acustico, l'assoluta simbiosi della musica con un luogo capace di incarnarsi in pura vibrazione sonora. E vivo nei ricordi di Boccardi è il momento dell'inaugurazione nel 1982 del cinquecentesco organo Antegnati fresco di restauro.

È un momento di alta suggestione quando Gustav Leonhardt, prima di dare inizio al concerto, apre le ante dello strumento. Il gesto è immediatamente compreso nel suo significato simbolico e scoppia l'applauso del pubblico. Al recital di Leonhardt, seguono nei giorni immediatamente successivi quelli di Luigi Ferdinando Tagliavini e di Michael Radulescu.

Sandro Boccardi oggi sorride ricordando i primi anni di San Maurizio, quando la possibilità di organizzare una nuova stagione era ogni volta un'incognita, quando gli amici che giungevano al concerto e lo vedevano vendere i biglietti si fermavano ad aiutarlo. Di incommensurabili esperienze umane e artistiche di cui è stato il motore narra con un'umiltà disarmante, ma lo sguardo (a ragione) tradisce la gioia orgogliosa del proprio operato. Ora, soprattutto, si concentra sull'altro suo amore, la poesia; e confida come nel leggere e porgere i propri testi poetici ripensi al musicista che si sposta nell'aula di San Maurizio, sperimentando verso quale punto e con quale intensità sia più opportuno indirizzare la voce. Nei versi di Boccardi ritorna, rarefatto, il binomio musica e poesia, a mo' di suggello di un credo fattosi realtà, e generosamente donato a Milano:
Il gesto il suono il logo
sono scintille rapide nel cielo
piccole tracce dell'effimero.
Eppure eppure Icaro ripunta l'ala precaria
dove il verbo s'incarna e il tempo s'ineterna.
Davide Verga
(da "Milano, laboratorio musicale del Novecento", Archinto, 2009)

martedì, ottobre 21, 2025

La «La cravatta bianca» di Beniamino Dal Fabbro

Beniamino Dal Fabbro (1910-1989)
Non sembri strano che di un libro di 
prose, apparso in una collezione di poesia, si parli in una rivista di musica. Ma «La cravatta bianca» (Mondadori editore, collezione «I poeti dello specchio») è di Beniamino Dal Fabbro, uno dei quattro o cinque critici musicali cui bisogna portare rispetto. Ciò non vuol dire che si possa o si debba, per cortigianeria o pavidità, essere sempre d'accordo, con lui. Vuol dire soltanto riconoscere, se non si è degli sciocchi presuntuosi o dei saccenti in malafede, la sbalorditiva cultura e la specifica preparazione di un uomo che combatte e ha sempre combattuto a visiera alzata senza essere scoraggiato dalle sconfitte né esaltato dalle vittorie.
Poeta e traduttore di poeti (esemplari al punto da assurgere a paradigma le sue versioni da Paul Valery, raccolte in un volume edito dal Feltrinelli) ha fra l'altro il dono di possedere la lingua italiana come pochi. Di essa si serve per la costruzione di un linguaggio che proprio nell'esercizio della sua attività di critico musicale piega, nel fervore della polemica o nell'analisi illuminante di una composizione o di una esecuzione, ad impensate e impensabili modalità narrative o ad un`acre ironia di natura enciclopedistica. La prosa critica di Dal Fabbro non grava mai sul lettore, piuttosto lo stimola e talvolta lo eccita, Tal'altra lo ingolosisce e perfino lo irrita sottilmente, sempre lo interessa, facendosi divorare fino all'ultima riga, non compiutamente saziandolo. Perché questo è un po' il segreto del Dal Fabbro esegeta: lasciare aperta ogni possibilità di sviluppo del discorso per le successive puntate. Occasionalmente, il periodare si allarga in ampie volute, ove i vocaboli anziché attingere al barocco (come si potrebbe supporre vistone l'aspetto da lontano) sgorgano con disinvoltura dai grandi movimenti dell'epoca nostra: il simbolismo, il surrealismo e, perché no, il cubismo, il futurismo, il dadaismo.
«La cravatta bianca» si denomina dall'ultimo capitolo, tragico, pietoso e crudele («...potrei scegliere i giorni in cui mi mettevo al collo una cravatta bianca, la mia bella cravatta di seta bianca, in opposizione d'odio e di sfida a quanti indossavano nere insegne, issavano sul nero berretto uccelli rapaci, si decoravano il petto con teschi umani di pirateria e di farmacia su fondo nero...»). Raggruppa prose liriche, saggi, dialoghi, aforismi, caratteri, ricordi, note di viaggio e di taccuino fino a comporre un perfetto ritratto intimo dell'autore. Si tratta, in sostanza, d'una serie di confessioni e non v'è bisogno di leggere tra le righe o di seguire dei corsi di psicanalisi o di psicologia onde comprenderle: l`uomo che si consegna nelle pagine de «La cravatta bianca» è due volte moderno: nella mancanza di esitazioni e nella denuncia della sua condizione di solitario. Le sue debolezze e i suoi furori, le sue passioni e le sue nostalgie, la sua melanconia e la sua esaltazione contrappuntano la carta geografica della memoria da lui disegnata a poco a poco. Colorata con l'ingenuità disarmante della fanciullezza («Firenze dopo il diluvio», con un'interpretazione della citta destinata ad avvinghiarsi ai ricordi personali del lettore in maniera inobliabile); con gli slanci e il ritegno, le effusioni e i pudori della giovinezza, appena stemperati da un'oggettività che sfiora l'indifferenza voluta («Quaderno di Villapluvia» e «Tre stagioni marine», per fare degli esempi); con l'esperienza, da tante prove filtrata, della maturità («Das Leben in Venedig», «Carte veneziane», «Interno I» e «Interno II», tanto per fare altri esempi).
I lombardi in genere e i milanesi in particolare nel capitolo «Carte milanesi» hanno modo di sentire il profumo, tutto e veramente poetico, di una città perduta e chi non ne ha mai vissuto le ore e i giorni rievocati da Dal Fabbro, scopre nello stato emozionale dell'archeologo (ma potrebbe trattarsi di un alluminatore intimista) i costumi e le civiltà di un altro mondo.
L'intero libro trabocca di musica e non solo e non tanto per l'armoniosità del linguaggio, quanto per la presenza vorrei dire fisica della più umana e della più divina delle arti, estrinsecata dalla creazione di atmosfere o dalla rievocazione di compositori e di esecutori o dal tratteggio degli strumenti. «Fu nella sala grande della Pensione Demidoff, dov'era uno strumento di mogano chiaro eccessivamente incrostato di madreperla, che per la prima volta ebbi a sedermi davanti agli avori d'una tastiera, con l`atteggiamento di chi si prepara a trarne dei suoni secondo una qualche regola o tecnica dell'arte» (pag. 21). Ancora qualche citazione. «Al segnale dell`ultime trombe faticherà Rossini a smuovere i suggelli dorati della sua dimora di marmo, a farsi largo tra le opulente figure femminili del trionfo funebre. Dietro l`alto spigolo della navata di Santa Croce, Cherubini aspetterà qualche minuto per non incontrarlo» (pagg. 39, 40), «D'una giovane pianista che ha dato un pubblico concerto nessun giornale osa dare un meritato giudizio negativo e nemmeno alludere a un suo grave fallo di memoria, mentre a insigni e anziani concertisti si sogliono addebitare le note false incidentali. Si viene poi a sapere che alla virtuosa è padre un colonnello dei carabinieri» (pag. 50) E Donna Laura? (pagg. 66, 67). E la musica in Via San Marco? (pagg. 112, 114). E i vari aspetti della musica a Venezia (pagg. 150, 151; 160, 161; 165, 166) e anche a Villapluvia? (pagg. 231, 235). E poi «Un alloggio nel melodramma» e il «Dialogo di Florestano e di un amico» e la recita della «Mignon» di Thomas.
Su tutto il libro s`innalza una testimonianza d'amore tenero e disperato per quel pianoforte nel cui crepuscolo (oggetto di un indimenticabile libro di Dal Fabbro, edito da Einaudi) sono destinate a dissolversi alcune delle pagine più belle della storia della musica. Questa testimonianza s'intitola «Pianoforte sul mare» e va dalla pagina 193 alla pagina 196, terminando con la seguente frase: «Stanotte vorrei ascoltare da questo muretto sepolcrale rosicchiato dalla salsedine gli echi del concerto, il piccolo, gracile, futile grandinìo del pianoforte laggiù, lontano dalla vita come dalla morte».
Giovanni Attilio Baldi
("Disclub" 19, anno IV, marzo-aprile 1966)

sabato, ottobre 11, 2025

Magister Umidus

Claude Debussy (1862-1918)
Non molti giorni or sono, nella Sala Regia di Palazzo Ve
nezia, in uno dei concerti di musica da camera organizzati dalla Radio, ho riudito La Sonata per violino e pianoforteil Trio per arpa, viola e flauto di Claude Debussy. E una volta ancora la sonorità larvale di queste musiche mi ha rammentato la disperata maledizione che il pellerossa pronuncia contro se stesso.
Silenzio!
Ecco attaccano le prime note del Trio:
«Mia madre mi ha generato nella pioggia e nella nebbia, perché io pianga come la pioggia e sia lacerato come le nubi. Maledetto il giorno della mia nascita, maledetta la notte nella quale fui concepito».
Mirabile relazione tra le leggi biologiche e le leggi religiose che lo spirito dell'uomo si è creato quaggiù. La biologia insegna che la condizione necessaria alla fecondazione dei germi è il buio perfetto. Come non scoprire una ineffabile relazione fra questa legge e la legge «religiosa» che impone di chiudere l'accoppiamento dentro l'angusto buio della notte? Uomini e donne si accoppiano anche in altre ore del giorno, e gli adulteri usano incontrarsi per lo più nel medio pomeriggio; ma sono accoppiamenti sterili.
Musica «geografica». Tale soprattutto la musica spagnola. Tale anche la musica russa. E s'intende che musica in cui il carattere geografico è dominante, è una musica inferiore - anche la musica dei «Cinque» dunque, con tutto che così bella e sonora di nostalgie - ma la sua tanta bellezza trae principalmente dall'anima del territorio, e dunque ha sempre un che di infinitamente patetico ma assieme di caduco, di mortale.
Anche la musica francese è «geografica», e questa sua sommissione alle ragioni terriere determina un suo costante stato di inferiorità, la vieta un alto e libero volo.
Da qui il suo perpetuo sforzo di volare -la sua insistente «leggerezza».
Mi riferisco soprattutto a Debussy, ossia al più francese dei musici francesi. Il quale, come una perfetta guida meteorologica, avverte che la Francia è paese umido e ventoso.
Ventosa è anche la musica di Franck il belga, la cui opera rientra nell'aura della musica francese. Costui diceva «les éoliennes», ma in verità si tratta della morne plaine di Waterloo percorsa da venti continui e di onda lunga. (Cfr. soprattutto la Sonata per violino e pianoforte, che propriamente è la messa in musica di una corrente d'aria).
La musica di Debussy è molle, fradicia, sgocciolante. Anche quella dell'ultimo periodo è più corposa, come la Sonata per violino e pianoforte citata in principio. Essendo bagnate le sue ali, il suo volo è basso e greve.
La voce di Claude Debussy suona gemente fra le nebbie. Dalle quali emerge talvolta come un liquido un fantasma, un fantasma di annegato, la faccia melmosa e lunare di lui: magister Urnidus.
Non riesco a sentire musica di Debussy, e non vedere assieme la faccia del suo autore. Pochi musici somigliano fisicamente alla propria opera, quanto colui che Gabriele D'Annunzio, nel Mistero di san Sebastiano, chiama magister Claudius. In questa mania di Gabriele D'Annunzio di cambiare i nomi anche delle persone, e di Ildebrando Pizzetti fare Ildebrando da Parma, di Claude Debussy fare magister Claudius, di Daniela Palmer fare Palma Palmer (di Giovanni Pascoli, D'Annunzio aveva tentato di fare «Giovanni di San Mauro»), è la spiegazione di quella lingua specialissima di Gabriele, nella quale le parole hanno un aspetto, un suono e un sapore diversi da quelli delle parole usuali, aderenti alle cose che esse nominano e piene del loro significato. Alcune musiche di Beethoven sembrano scritte da un volto giovanile, altre da un volto senile, ma diversissimi entrambi dal volto giovanile e dal volto senile di Beethoven. Debussy invece sembra non avere altra cura nella sua attività di musico, se non di scrivere il proprio ritratto perennemente, con una scrittura sonoramente diffusa e soprattutto liquida. Perché Debussy non è soltanto un nome scritto sull'acqua, ma è un volto ancora scritto sull'acqua, questo musico ofeliano. E non appena laggiù sul podio il maestro direttore, nero e preciso nella sua coda di rondine, e così diverso da Monsieur Croche «antidilettante», attacca le prime battute di Iberia, ecco che il volto di Debussy mi riappare nella mente; emerge sullo specchio d'acqua della mente; trapela sull'acqua stagnante della mente; si stende gonfio di sonno tra le ninfee immobili e marcescenti che le mani di un altro Claude - Monet - hanno sparso su questo stagno immobile come la morte, nel quale si fondono e muoiono per annegamento tutti i colori; i tratti ingreviti e allungati dal tempo, le palpebre pesanti e lunghe, e lunghi e pesanti i lobi delle orecchie, e lunghe e pesanti le labbra. E guardando questo volto che lentamente si sfalda nell'acqua e sul quale pesa a tocchi leggerissimi le sue zampe di vetro filato una zanzara gigantesca; soffocato da questo silenzio, da questi fiori di nebbia, da quest'aria di gomma strutta in cui non una eco rimane, non il più pallido ricordo sopravvive di un cielo turchino, di un cirro bianco, di una folgore che balza fuori dalla nube, di una voce che canta, di un uomo che chiama, di una donna che grida, di un bimbo che piange, di un uccello che passa, di un pesce che guizza, di una ghianda che cade giù dal platano, di un'acqua che corre, di un bue che muggisce, di un cane che abbaia, di un asino che raglia, di una gallina che chioccia, di una foglia che stormisce al vento, di un dormiente che sospira, di un treno che passa, di un piroscafo che fischia, di un motore che romba; mi torna su da un lontanissimo fondo di immagini dimenticate, spinta su da un fiato prigioniero, da un'umida angoscia, questa considerazione assurda: «Guarda, guarda Ofelia che ha messo la barba...» E a
proposito delle orecchie di Debussy, giova anche ricordare quel turco che era arrivato all'età di centocinquantaquattro anni, quando fu chiesto in isposo da un'americana, il quale ogni cinque anni aveva come una spinta di crescenza, che gli aveva allungato i lobi delle orecchie fino alle spalle.
Eppure Iberia, questa sequenza di immagini sonore ispirate dalla Spagna e alla Spagna dedicate, è la meno debussiana delle musiche di Debussy; tanto vivo è il sangue della Spagna, ostinato a non lasciarsi sopraffare da quel sinuoso, da quel dolciastro, da quell'avvolgente e asfissiante invito alla morte che sono i suoni di Debussy. Perché della morte la Spagna ha il gusto, né giova in questo luogo ricordare quanto e in quale modo lo ha saputo dimostrare, ma la morte spagnola non conosce preparazione, è una morte viva, un salto improvviso e spensierato nella morte; diversamente dalla musica di Debussy che è tutta una preparazione alla morte, e forse per questo in fondo essa è una maniera esangue di non morire, una vita minima e allungatissima, una debolissima e pallidissima forma di immortalità. Un giorno d'altra parte bisognerà disegnare l'atlante della moda nelle arti, seguire i suoi spostamenti sulla palla dell'orbe, indicare come fino a Berlioz l'Italia ispirò i musicisti francesi (Carnaval romain, Benvenuto Cellini, Aroldo in Italia) e come di poi questo compito se lo è preso la Spagna, ispirando Bizet, Debussy, Ravel.
Torno a guardare la faccia lunare di Debussy, immersa nell'acqua verdastra dello stagno. E a poco a poco la faccia di Debussy sparisce e solo l'orecchio rimane visibile, unica parte essenziale della testa di magister Claudius. Debussy è il più immusicato dei musici.
Colui nel quale la musica come vizio inibitore di tutte le facoltà che non sono quella dell'audizione esterna e dell'audizione interna dei suoni: facoltà di pensare, facoltà di guardare, facoltà di sentire, arriva alle sue conseguenze ultime. E l'orecchio di magister Claudius, enorme e grasso come una molle conchiglia, si posa più che in ascolto, si posa in ascoltazione sulla pelle della natura; e diventa microacustico per cogliere l'infinitamente piccolo dei suoni, siccome il microscopio coglie l'infinitamente piccolo degli aspetti. Perché il moto di avvicinamento dell'arte alla vita iniziato da Bizet, e del quale ho parlato un'altra volta a proposito della Carmen, continua ancora. E siccome Bizet ha staccato la musica dalla sua sublime convenzionalità e l'ha avvicinata alla vita naturale, Debussy per parte sua accorcia ancora le distanze, le abolisce addirittura, e il suo orecchio tocca, aderisce, s'incolla al corpo della natura, per cogliere le sue voci più piccole, le sue confessioni più gelose, come l'orecchio del medico si posa sulla schiena dell'ammalato per cogliere il canto profondo dei suoi bronchi. E ogni prospettiva manca nella musica di Debussy, questo più «naturale» dei musici, quella prospettiva che fa maestosa l'arte e solitaria, e sacra come un altare. E i suoni naturali sono colti nella loro nuda intimità, nel loro naturale disordine, nella loro disperata alogicità, nella loro distesa noia nel tempo, nella loro abbandonata inerzia nello spazio. E il tema manca, che è creazione e arbitrio dell'uomo, e non rimane se non un pulviscolo di elementi per terra che appena appena si muovono come dei vermi neonati, uno sciame di elementi minimi nell'aria, un nugolo di bollicine che salgono dal fondo del mare a un pieno così totale di esistenza, che non lascia buco, di una volontà di uomo. Natura sommerge l'uomo come una foresta tropicale, come un mare di sabbia, in un correre continuo di cose che sfuggono all'esame, si sottraggono al giudizio, e passano attraverso i filtri più stretti della volontà umana; un ondeggiare senza posa, un brulicare senza fine, un brillare ininterrotto in tanto continuo e universale essere, che l'essere stesso dell'essere si disgrega e sparisce. Quale altra causa cercare a questo non essere della musica di Debussy, a questo suo non lasciare traccia di sé, non memoria di suono; quale altra causa di questo suo essere troppo, di questo suo essere tutto? L'alleanza tra arte e natura è ormai perfetta. Nessun di più è consentito. Ed è per questo che la musica arrivata a Debussy, è come una locomotiva arrivata ai respingenti di un binario morto; e le tocca tornare indietro, ritornare a Bach, ritornare alla sua regione solitaria e astratta, lontana dalla natura allettatrice e deleteria.
Alberto Savinio
(da "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, Einaudi 1977)