Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, settembre 10, 2025

Gustav Holst

Gustav Holst (1874-1934)
Con la morte di Handel, avvenuta nel 1759 si assiste 
alla progressiva rarefazione di musicisti. Di fronte all'allarmante fenomeno l'Inghilterra reagisce importando compositori dall'estero e acclama quindi Geminiani, Cherubinj e Haydn. Si arriva così all'Ottocento, secolo parimenti dominato da figure minori. Si può dire infatti che l'Ottocento musicale inglese non è quasi esistito o, se è esistito per una inevitabile legge cronologica, lo stesso potrebbe definirsi «a century of musical nonsense», un secolo di sciocchezze musicali. Nella seconda metà dell'Ottocento si stabiliscono comunque in Inghilterra due musicisti interessanti: Hubert Parry e l'irlandese Charles Standford. Nasce Elgar. I primi due citati, per quanto prolifici, sembrano più consci della necessità di educare le future generazioni di musicisti, quasi a riscattare il vuoto pauroso che minaccia di allargarsi. Alla fine dell'Ottocento Elgar inizia a produrre. La sua prima composizione importante «Dream of Gerontius» avrà la fortuna di trovare un interprete che ne decreterà il successo in terra straniera: Richard Strauss. In patria, però, Edward Elgar trova subito una fitta schiera di detrattori, la esistenza dei quali è logica conseguenza del disorientamento in cui brancolava il pubblico da quasi un secolo. Si afferma che la sua musica è salottiera, orecchiabile e che reca tracce troppo marcate d'influssi teutonici. Nessuna delle critiche colpisce nel segno, né tiene conto della mancanza di una tradizione sinfonica continuativa per cui alle generazioni dei nuovi musicisti non restava che guardare alla Germania di Wagner o alla Francia di Debussy e Ravel. Elgar scopre onestamente le sue carte senza colpi di scena e offre il suo ingenuo lirismo spesso tinto di modi popolari alle generazioni disorientate ed affamate di novità. Queste però gli restituiscono l'ingenuo messaggio liquidandolo con frasi da sarcastico columnist. Non avvertono, prese come sono dall'accidia, che Elgar rappresenta il nuovo esordio della musica inglese, basato sul riproponimento di una forma sinfonico-corale, forse un'eco non ancora spenta dell'oratorio handeliano e raccolta dopo centocinquant'anni. L'esempio di Elgar verrà infatti ripreso da Vaughan Williams e dallo stesso Holst. Il primo infatti esordisce come sinfonista con la «Sea Symphony» per soli, coro e orchestra su testi di Walt Whitman e il secondo comporrà nel 1922 una «Choral Symphony» per soprano, coro e orchestra. E' difficile quindi non riconoscere in Elgar la paternità quantomeno putativa della rinascenza musicale inglese.
Holst, che nasce a Cheltnenham nel 1784 da una famiglia di musicisti d'origine svedese, si trasferisce nel 1893 a Londra per studiare alla Scuola Reale di Musica dove appunto insegna lo Standford. Qui egli trova come compagno di studi Ralph Vaughan Williams che dovrà diventare il massimo esponente del sinfonismo inglese. Lo Standford cerca d'infondere nei due allievi il magistero del contrappunto e il gusto per la melodia popolare, componente importantissima di tutto il Novecento musicale inglese. Holst disdegna il pianoforte e impara il trombone adattandosi a suonarlo nell'orchestra della Carl Rosa Opera Co. Dopo aver conseguito i necessari diplomi e titoli di studio, si dedicherà alla composizione ed all'insegnamento presso il Collegio Femminile di San Paolo per il quale comporrà la Saint Paul's Suite per archi (1913) che è una delle sue composizioni più note. Il 1934 sarà l'anno più triste per l'Inghilterra musicale perché vedrà la morte non solo di Holst, ma anche di Elgar e di Delius.
Una vita apparentemente poco interessante quella di Holst, ma ricca di problemi interiori e di ricerche incessanti. Già egli in compagnia dell'amico Vaughan Williams si era attivamente interessato di melodie popolari e le aveva amorevolmente raccolte, restituendone il fascino intatto in due composizioni autonome, «Six Choral Folksongs»› per coro maschile e «Twelve Welsh Folk-songs» per coro a cappella. L'interessamento di Holst e di Vaughan Williams per la musica popolare coincide anche con la fondazione della English Folk-songs and Dance Society ad opera di Cecil Sharp che fu il primo a stimolare la ricerca del patrimonio folklorico musicale inglese.
E proprio agli albori del Novecento si verifica un fatto sintomatico e di grande rilievo per le generazioni di musicisti europei che faranno astrazione dalla rivoluzione schönberghiana: la ricerca sistematica del folklore musicale e l'impiego di esso quale componente inscindibile del linguaggio. Troviamo quindi in Ungheria, Bartok e Kodaly, Janacek in Cecoslovacchia, in Francia, Debussy e Ravel adotteranno la scala esatonica e melodie basche, Hindemith in Germania, Respighi in Italia si rivolgerà a fonte ancora più antica: il gregoriano. Tale fervore è sintomo forse della necessità di un rinnovamento del linguaggio, rinnovamento attuato senza radicali rivoluzioni della sintassi. Certamente anche nell'Ottocento europeo numerosi compositori avevano attinto al patrimonio popolare, Liszt, Chopin, Brahms e Dvorak. Si trattava però di folklore abilmente travestito. Basta pensare alle rapsodie ungheresi di Liszt e di Brahms per rendersi conto che la melodia popolare vestita in abiti da sera suona troppo falsa!
Holst avverte in pieno la portata della rinascenza folklorica ed istaura con Vaughan Williams una corrente musicale tipicamente inglese e consapevole del fatto che il linguaggio deve progredire, mentre Elgar rimarrà pur sempre ancorato all'epoca vittoriana alla quale erano meglio accette le regole che le eccezioni.
Le influenze subite da Holst, ma assimilate soltanto in minima parte nel periodo formativo, possono riassumersi in un moderato wagnerismo iniziale. L'inf1usso del cromatismo wagneriano si evidenzia nei primi lavori meno impegnativi (buona parte dei quali reietti in seguito dallo stesso autore), ma si spezza e scompare con la scoperta del folklore il quale innesta una corrente neomodale. in Vaughan Williams l'esperienza neo-modale è più scoperta e si lega intimamente con l'impressionismo raveliano. Il Vaughan Williams era stato infatti allievo di Ravel a Parigi e subì in modo più diretto la lezione dell'impressionismo francese.
Anche Strawinski eserciterà su Holst un influsso modesto e comunque limitato all'ambito di certe soluzioni ritmiche e coloristiche. L'aver poi abbracciato una parte della cultura orientale (Holst studiò addirittura il sanscrito!) allargò vieppiù gli orizzonti del musicista. Ma non si trattò di evasione o di ricerca di un facile esotismo. Il Tovey giustamente vedeva in Holst «la vera espressione della nostalgia dell'occidente per l'oriente»Va rilevato inoltre che in quel periodo anche una buona parte della letteratura inglese denunciava una forte attrazione per le cose d'oriente. L'esperienza del sanscrito si ritrova soprattutto nelle opere «Rig Veda»«Sita», «Savitri» e «Beni Mora» che appartengono tutte ad un periodo creativo intermedio di Holst.
Complessivamente la musica dell'inglese ci appare tinta d'impressionismo. Non mosaico di frammenti, macchie sonore. Piuttosto, successione logica di momenti creativi in un quadro del tutto unitario. Si verifica in Holst, più che in Vaughan Williams, l'allentamento del tematismo e di conseguenza la impossibilità di continuare un discorso sinfonico secondo i canoni della sonata classica. (Tale impossibilità è più che mai evidente nelle opere della maturità di Leos Janácek, compositore atematico per eccellenza). L'impressionismo di Holst non è pura vernice; è risultante profonda, emozione sofferta e restituita in musica. «Egdon Heath» (1927) e «Hammersmith - Preludio e Scherzo» (1930) (i titoli delle composizioni corrispondono a precise località inglesi) sono capolavori del genere. Il primo ricrea il fascino straordinario di un bosco in autunno, colle sue atmosfere rarefatte e sospese e con un senso di desolazione rotto a tratti da una melodia popolare che si raggela come nebbia lontana. «Hammersmith» invece espone il dualismo tra vita quotidiana (il laborioso sobborgo di Londra dal quale trae il titolo) e vita contemplativa (il lento e compassato trascorrere del Tamigi).
Holst aveva scritto: «Studio soltanto le cose che mi suggeriscono musica». Anche «I Pianeti» composti tra il 1914 e il 1917 sono una interpretazione tutta personale e moderna della «musica mundana». Col suo senso di autocritica Holst arrivò persino a dispiacersi quando seppe che quest'opera era diventata popolare. Egli implicitamente affermava che un'opera d'arte diventava automaticamente superata nel momento stesso in cui era creata. Il passaggio continuo attraverso le più disparate esperienze testimonia tale sua costante insoddisfazione che e anche superamento, progresso. La definizione di Sir Malcolm Sargent: «he was a mystic, but not consciously a religious one» è doppiamente rivelatrice. Essa spiega sia il tentativo di conciliazione del dualismo antinomico su cui doveva poggiare tutto il mondo interiore di Holst, sia la tensione tutta trascendentale verso il superamento. «Hymn to Jesus» (1917) per coro e orchestra nella prima parte utilizza il testo e la melodia del «Pange Lingua» e del «Vexilla regis» e nella seconda, alcuni inni in lingua inglese. E' opera che può considerarsi religiosa nello stesso senso in cui sono religiosi i mottetti di Brahms op. 74 e op. 111. L'«Hymn to Jesus» è una delle composizioni che inoltre rivela la propensione degli inglesi per il genere sinfonico-corale a grande respiro cui prima accennavamo, ma non è la sola. Al pari di Vaughan Williams che esordì proprio come compositore di musica corale, Holst scrisse una messe di opere per coro e specialmente per quello femminile. Effettivamente i due compositori procedettero per un certo tempo affiancati, partendo da esperienze comuni e si influenzarono a vicenda, in quale misura è difficile stabilire. Sta di fatto che Vaughan Williams preferì avventurarsi sul terreno sinfonico con risultati veramente importanti per la musica inglese, mentre Holst raramente riusciva ad assestare il suo discorso in una forma costante nella quale il tematismo era il passaggio obbligato per giungere alla coerenza, anche se le leggi della forma sonata potevano interpretarsi con una certa elasticità. Cosa del resto avvenuta già nel secondo Ottocento mittel-europeo. Il Tovey scrivendo già nel 1929 su Holst avvertiva perspicacemente in quest'ultimo, nel differenziarlo dal Vaughan Williams, «l'ampia e chiara esplorazione delle regioni pre-armoniche». Holst fu infatti un esploratore che mai si fissò su una singola scoperta.
Per Holst la politonalità e la poliritmia sono elementi già acquisiti mentre per Vaughan Williams fanno ancora parte di una avventura o di una occasione. Anche nei procedimenti politonali di Holst possiamo vedere un tentativo di conciliare un'antitesi.
Si pensi al «Terzetto per flauto, oboe e viola» (1924), composizione veramente unica, nella quale gli strumenti in una formazione già rara e inconsueta, dialogano tra loro in tre tonalità differenti. E' un viaggio ideale lungo tre strade parallele che non si incontrano mai sotto il profilo tonale, ma che procedono tutte verso un unico punto comune che è unità di pensiero. Secondo quanto riferisce Imogen Holst in uno studio straordinariamente obiettivo « The music of Gustav Holst » (Londra, 1951) fu sufficiente che il «Terzetto» fosse scritto in tre tonalità diverse perché noti artisti lo giudicassero ineseguibile. Ma il tritonalismo non è la sola difficoltà. La partitura abbonda di indicazioni dinamiche, repentini cambiamenti di tempo, il tutto nell'ambito di poche battute, oltre a gustosi effetti poliritmici. E' un gioiello finemente cesellato, uno studio di atmosfere che ora si distendono nella enunciazione all'unisono di un tema modale che ricorda il «Dies irae», ora si rapprendono nei cinguettii del flauto in «staccato», ora si liricizzano nel motivo popolare esposto dall'oboe che, alla fine, viene interrotto dal flauto e dalla viola in un morendo da romanza schumanniana.
Altri esempi di politonalismo, però meno impegnato, sono reperibili in alcune composizioni pianistiche, tutte improntate a motivi popolari. A questo proposito, si potrebbe affermare che la musica popolare sta a quella classica, come il dialetto sta alla lingua colta. Sotto questo profilo, certa musica di Holst potrebbe definirsi «dialettale» come quella di Bartok. Anche quest'ultimo era giunto al bitonalismo attraverso lo studio sistematico del folklore non solo magiaro, ma anche rumeno e arabo. Imogen Holst, scrivendo sul padre, sostiene che il linguaggio della musica popolare costituiva una guida per Holst, pur non essendo il linguaggio suo proprio. Infatti, la lezione del folklore era stata assimilata da Holst in tanto in quanto offriva un nuovo modo espressivo, ancorché avesse radici antichissime. Non si tratta pertanto d'imitazione di uno stile. La musica di Holst ci appare talora «pensata» secondo i modi popolari, quando essa già non contenga chiare allusioni a terni e melodie folkloriche, come si verifica nella «Seconda Suite in fa maggiore per banda» (1911) che utilizza melodie dello Hampshire. Nell'ultimo movimento di quest'opera si rinvengono addirittura due canzoni distinte («Dargason» e l'ormai notissima «Greensleeves») sovrapposte simultaneamente.
A distanza di trent'anni, che esattamente tanti ci separano dalla scomparsa di Holst, la sua musica non ha perduto di freschezza, come se fosse stata composta ai giorni nostri. Anche se essa appartiene storicamente alla prima metà del Novecento, la sua stessa poliedricità e molteplicità d'intenti,. ne impediscono una collocazione definitiva Né d'altra parte può dirsi che sia espressione caratteristica di una scuola o di uno stile. E' summa di esperienze sovente disparate tra loro e mai esaurite. N\a assurge anche a simbolo già progredito della rinascenza della musica inglese che, grazie a Holst e a Vaughan Williams è riuscita a riconquistare la propria autonomia. Un bene perduto che ritorna rinnovato in meglio.
Edward D. R. Neill
("Disclub" 8, anno II, giugno 1964)

lunedì, settembre 01, 2025

Isolde Ahlgrimm: L'Offerta Musicale, le Sonate per viola da gamba e gli Harnoncourt

Philips A 00300 L
Il decimo volume delle Opere Complete per Clavicembalo comprendeva l'Offerta Musicale completa, suonata da Ahlgrimm, Rudolf Baumgartner, Alice Hamoncourt, Kurt Theiner, Nikolaus Hamoncourt e Ludwig von Pfersmann. Il saggio di accompagnamento trattava di Federico il Grande di Prussia e della storia dell'esecuzione e della ricezione dell'Offerta Musicale, in cui Ahlgrimm notava il declino della fuga nel XIX secolo. Particolare risalto veniva dato al flauto, e l'esecuzione di von Pfersmann, ancora una volta su un flauto in legno del 1835, era uno dei punti salienti di questa pubblicazione. L'Offerta Musicale, come l'Arte della Fuga, era stata a lungo considerata di natura teorica, in particolare i criptici piccoli canoni. Questa fu la prima registrazione completa dell'opera e ripristinò la strumentazione originale di Bach. La successiva registrazione autentica non sarebbe avvenuta prima di vent'anni dopo, sebbene negli anni '60 esistessero diverse versioni che trascrivevano i ricercari per clavicembalo per orchestra.
L'undicesimo volume era dedicato alle tre sonate per viola da gamba, registrate nel gennaio 1955 da Isolde Ahlgrimm insieme al ventiseienne Nikolaus Hamoncourt, allora violoncellista della Vienna Symphony e allievo di Paul Grümmer. Il suo primo ensemble barocco era stato il Wiener Gamben-Quartett, fondato nel 1950 con Alice Hoffelner ed Eduard Melkus. Questo gruppo aveva anche eseguito l'Arte della Fuga poco dopo, ricevendo recensioni contrastanti. Quando registrò con Ahlgrimm, Hamoncourt, ora sposato con Alice Hoffelner, aveva da poco formato il suo ensemble, il Concentus Musicus Wien. Il violinista e violista Kurt Theiner, cognato di Hamoncourt, nonché membro fondatore del Concentus, si unì agli Harnoncourt nella registrazione di Ahlgrimm dell'Offerta Musicale (BWV 1079). La seguente nota fu aggiunta alla versione originale:

In questa registrazione sono stati utilizzati solo antichi strumenti ad arco italiani della scuola di Amati. Eventuali modifiche e modernizzazioni apportate nel corso del tempo sono state accuratamente rimosse e il carattere sonoro originale è stato ripristinato.

Philips A 00 327 L
Per le sonate per viola da gamba, con Hamoncourt alla parte solista, Josef Herrmann ancora una volta suonava il basso. Nelle note alla sua registrazione del 1956 con Desmond Dupré, Thurston Dart sottolineava che la parte del basso dovesse essere suonata a 16' (sul clavicembalo) quando la parte solista rientrava nell'estensione del basso di 8'. Gli ammiratori dell'opera odierna di Nikolaus Harnoncourt troveranno queste prime registrazioni molto interessanti e, sebbene non corrispondano tecnicamente ai suoi sforzi successivi, lo spirito era certamente propositivo. Ahlgrimm suonava il clavicembalo Ammer del 1937 senza il suono di 4', per ottenere la massima integrazione con gli strumenti ad arco. Ritmo, fraseggio e articolazione in queste esecuzioni sono tutti molto avanti rispetto ai loro tempi.
La viola da gamba, allora ancora agli albori, ha tuttavia fatto grandi progressi da quando queste registrazioni furono realizzate, grazie al lavoro di August Wenzinger a Basilea, dello stesso Hamoncourt e, in misura ancora maggiore, del belga Wieland Kuijken e del suo allievo di punta, lo spagnolo Jordi Savall. Queste prime esecuzioni, le prime delle sonate di Bach realizzate utilizzando una viola da gamba anziché un violoncello moderno, sebbene ben al di sotto degli elevati standard di competenza odierni, sono ancora interessanti dal punto di vista storico. Hamoncourt suonava uno strumento a sette corde costruito nel 1683 da Christoph Klingler, successivamente convertito in violoncello, che Fiala aveva fatto restaurare alle sue condizioni originali nel 1937. Durante il restauro, gli accessori da violoncello del XIX secolo furono rimossi e lo strumento fu dotato dei suoi tasti originali, cosa insolita per suonare la viola da gamba a quel tempo. Per la parte del basso continuo, Hermann suonava il vecchio strumento Johannes Maria del 1530.
Oltre alle tre sonate, era inclusa anche la Trio Sonata (BWV 1038), il modello originale di Bach per la Sonata per gamba in sol maggiore, con Rudolf Baumgartner che suonava un violino della scuola di Amati del 1680, e von Pfersmann che utilizzava ancora il Bürger del 1835. flauto, e Hamoncourt, un violoncello di Francesco Ruggieri, Cremona 1683. Baumgartner, per il quale Ahlgrimm nutriva sempre grande stima personale e professionale, suonava perfettamente a suo agio sul violino barocco (sebbene usasse ancora la mentoniera), e von Pfersmann, che Ahlgrimm considerava uno dei migliori e più sensibili suonatori di Vienna, era anche lui un esecutore elegante, sebbene il suo modo di suonare non fosse propriamente idiomatico come lo intendiamo oggi. La vera rinascita del flauto barocco era ancora lontana.
Tuttavia, l'esecuzione sullo strumento originale doveva pur iniziare da qualche parte, e l'esecuzione di von Pfersmann si collocava forse a metà strada tra il flauto moderno standard e quello del XVIII secolo.
Peter Watchorn
("Isolde Ahlgrimm, Vienna and the Early Revival",Routledge, 2007)

giovedì, agosto 21, 2025

Elijah di Felix Mendelssohn


L'Italia com'è largamente noto ed autorevolmente si 
deplora è il paese più antimusicale del mondo. Nonostante i grandi tenori, i loggionisti di Parma, i mandolini, San Remo e Napoli, o forse proprio a causa di essi, in Italia la musica è la Cenerentola nelle scuole. Non può quindi meravigliare il fatto che un festival dedicato all'Espressionismo come il XXVII Maggio Musicale Fiorentino, generoso tentativo di far capire alla gente che qualcosa si è pur mosso ai primi di questo secolo al di fuori della cinta daziaria di Firenze sia stato accolto dalla grande maggioranza del pubblico e, cosa ben più grave, da quasi tutti i più qualificati rappresentanti della fauna musicale locale come un vero e proprio crimine di lesa patria.
Questo recente episodio di malcostume civile oltre che di ignoranza non solo è tipico di tutta una situazione, ma fornirebbe utilmente lo spunto ad una parabola o ad un apologo critico sulla grama condizione delle cose musicali nel bel paese la dove il si suona, ridotto oggi ad una morta gora provinciale afflitto dal gracidio di burbanzosi e vacui retori, i quali si ammantano dei cenci di un Umanesimo che non ha più senso alcuno.
Non ci si stupirà, stando così le cose, se l'oratorio che è un genere musicale nato in Italia, come dice il nome, e fu illustrato da un Caldara e un Alessandro Scarlatti, musicisti ai quali tesero attento orecchio Bach e Haendel, abbia poi vigoreggiato in Germania e in Inghilterra assumendo col passare dei secoli fisionomia specificamente protestante e sia oggigiorno al di qua delle Alpi un rarissimo genere di importazione e come tale avvicinabile e fruibile solo attraverso rare esecuzioni soprattutto radiofoniche o per mezzo del disco.
Chi voglia coltivare questo fertilissimo settore della storia della musica e non si accontenti di aspettare ogni anno il settembre e prendere il treno per Perugia (almeno finché i valorosi organizzatori della Sagra Umbra resisteranno nella loro disperatissima lotta contro gli scarsi finanziamenti e l'indifferenza locale e romana) dovrà consultare attentamente i cataloghi delle case discografiche e potrà allora colmare molte gravi lacune, sempre che abbia anche il coraggio di sfidare le ire dei soloni della critica per i quali dischi ed analfabetismo musicale sono sinonimi. Noi non dubitiamo, anzi siamo sicurissimi che tutti i nostri illustri critici possiedano perfettamente a memoria la partitura dell'Elia di Mendelssohn, anzi abbiamo la certezza morale che se lo vanno fischiettando per la strada tutti i giorni, ma da poveri dilettanti e ignoranti quali siamo non possiamo non plaudire all'iniziativa della Decca, che nella collana Ace of Clubs, ad un prezzo accessibilissimo, ci mette a disposizione proprio quel raro Oratorio che Mendelssohn scrisse per la città di Birmingham e nella quale fu eseguito il 25 Agosto l846.
Resta per noi un piccolo e affascinante mistero para-musicologico il fascino che il grande profeta solare evidentemente dovette esercitare su quella squallida cittadina industriale (una specie di Campobasso su grande scala) se i suoi musicalissimi abitanti sentirono il bisogno di commissionare nove anni dopo un altro Elia al celebre direttore e compositore Michele Costa. È un inquietante quesito che giriamo al primo solerte critico di tendenza sociologica post-adorniana non riuscendo con i nostri deboli lumi a cogliere il rapporto dialettico tra la produzione di forbici e coltellerie e il fiero nemico di Jezabel e di Achab.
Ci limiteremo pertanto a registrare obbiettivamente il fatto che in una modesta cittadina inglese (e non a Londra o a Dublino) fu allestita la prima esecuzione di questo Elia, con cui l'apollineo Mendelssohn, musicista viziato dalla fortuna, colmato di doni aurei dalle Grazie più di quanto non fosse squassato dal soffio terribile delle Furie, gran signore e supremo dilettante della musica, si accostò per la seconda volta alla Sacre Scritture, dopo aver composto nel 1836 un Paulus, che è arrivato in Italia solo nel 1953. E non si può a questo punto non lodare Gianandrea Gavazzeni per la sua recente ripresa (Aprile 1964) di questo oratorio in un concerto romano che ha avuto accoglienze lietissime di pubblico e di critica. Ma per tornare ad Elia o meglio ad Elijah (che in inglese suona incredibilmente Ilaigia), ad un primo ascolto ci pare che esso si inserisca in uno dei due filoni nei quali il genere dell'oratorio si biforca. Su un versante del sacro monte troviamo Schütz, Bach e Brahms, tutti chiusi nella loro severa corazza polifonica e austeramente ripiegati nella meditazione fervida e in un intimo lirismo che fiorisce, specie nelle arie di Bach, in esempi definitivi e riuscite altissime. Questo filone scorre sotterraneo e ci sembra riconoscerlo solo due secoli dopo nella sovrumana e spoglia grandezza delle due postreme cantate di Webern o nell'affresco di Moses und Aaron. La seconda e più produttiva tendenza prende le mosse dalle gioiose ed estroverse creazioni del musico di Halle ed ha come carattere più evidente il giubilo alleluiatico e la piacevolezza illustrativa. Siamo qui alla Bibbia per i poveri (non c'erano ancora i Fratelli Fabbri), alla divulgazione del verbo sacro in grandi affreschi coloriti e mossi, nei quali tace ormai la voce severa dello storico e scompaiono le pause di fervore religioso dei corali nei quali la Gemeinde si univa agli esecutori, entrando attivamente nel gioco. Il diavolo del teatro fa capolino ad ogni istante a sommo dispetto del Lord Ciambellano che in Inghilterra vegliava geloso affinché non si trascinassero sulle tavole polverose i sacri argomenti. Da Haendel prendono le mosse Haydn con i suoi due oratori così moralistici e biedermeier ante litteram, il Berlioz dell'Infanzia di Cristo e tutta la fioritura dell'Oratorio inglese fino al Sullivan di The Prodigal Song e all'Elgar di The apostles. È un genere narrativo e piacevole in cui al momento giusto si inserisce Mendelssohn con il suo Elijah che può a buon diritto considerarsi cittadino inglese, come The Seasons o il Messia.
Si accennava sopra al dilettantismo di Mendelssohn e sarà bene chiarire che il termine è da intendere in una particolare accezione. È infatti noto come il ricco amburghese fosse un musicista fin troppo esperto ed astuto, grande direttore d'orchestra e fine musicologo. A lui si deve il recupero della Matthäus Passion nel 1829 e basterebbe questo a garantirgli la gratitudine dei posteri. Se si può parlare di un dilettantismo di Mendelssohn, noi lo vedremmo piuttosto in quella sua eterna e un po' sospetta felicità inventiva così priva di sottofondi inquietanti, in quell'essere sempre disposto a tutte le occasioni. Schumann lo esaltò novello Mozart, ma si tratta purtroppo di un Mozart senza il demonismo del Don Giovanni e senza l'orrido della Sinfonia in Sol Minore. È un musicista che ammiriamo e ascoltiamo volentieri, ma che non riusciamo ad amare, in quanto non ci propone mai interrogativi inquietanti. La sua imperturbabile olimpicità di agiato petit-maitre può a volte irritarci. Orbene questi caratteri non sono certo contraddetti da Elia; solo che in questo lavoro, nonostante la consueta lucentezza dell'involucro e la eleganza della confezione, ci pare avvertire un maggiore e più profondo e più sostanziale impegno umano del compositore.
La prima delle due parti in cui l'oratorio si divide è la più convenzionale e specie nella grande ed abilmente impostata scena della sfida di Elia ai sacerdoti di Baal, preceduta dal drammatico scontro con Achab, il modello haendeliano (e soprattutto del Belshazzar) traspare continuamente. Le suggestioni gestuali e teatrali sono continue soprattutto nella condotta delle voci. Non stupisce apprendere che Elia fu rappresentato nel 1923, a Worcester, come dramma musicale, a cura di Charles Manners. Un grande pezzo di teatro è la scena dell'invocazione del popolo per la pioggia, con la voce di fanciulli solisti, che si staglia sullo sfondo del coro.
All'inizio della seconda parte la figura della Regina Jezebel ci mantiene in un clima che con tutte le cautele definiremmo sempre un po' melodrammatico. Il motivo della Regina proterva adoratrice di Baal e persecutrice di Israele doveva affascinare Mendelsson che qualche anno dopo scriverà delle musiche di scena per Athalie.
Ma al momento in cui il profeta solo si rifugia sulla vetta del monte Horeb per sfuggire alla furia di Jezebel, l'ispirazione del musicista prende veramente ala e tutta l'ultima parte dell'oratorio è una grande meditazione sulla solitudine dell'uomo di fronte ai problemi massimi. Elia non è solo. Lo circondano e lo confortano gli angeli (si ascoltino il trio e il coro stupendi all'inizio della quinta facciata) e la Stimmung di questo finale che è unicum nella storia dell'oratorio è quella di una serena accettazione del destino, premiata dal Dio di Israele con la vittoria definitiva sugli infedeli. Abbiamo brevemente sottolineato le tre grandi scene in cui si articola il testo (Elia e i sacerdoti di Baal, Elia e la Regina, Elia sul Monte Horeb) ma non si può dimenticare il breve episodio iniziale della vedova a cui il profeta fa risuscitare il figlio, piccola scena intima o quadretto di genere in cui splende il timbro lucente del soprano Jacqueline Delman, interprete appassionata e rigorosa. Quanto agli altri interpreti non si saprebbe immaginarne di più immedesimati e fervidi. E' questa una edizione autentica e di puro stile che molto deve alla bacchetta sensibile di Joseph Krips e all'apporto dei due cori, dei quali si segnala in modo particolare Io stupefacente coro dei ragazzi della chiesa parrocchiale di Hampstead che sotto la guida di Martindale Sidwell non fanno rimpiangere i piccoli cantori viennesi, per lo smalto delle voci e la limpidezza della emissione. Una lode particolarissima va al tenore George Maran che nella sua prima aria, If with all your hearts you seek Me centra un tono di dolce intimità che ritroviamo con uguale eleganza e rigorosa calibratura, nella deliziosa romanza dei tenori di Sullivan. E non sembri irriverente l'accostamento. La contralto Norma Procter piega una voce caldissima alle sfumature di un'interpretazione che per la tenuta e il livello ricorda la grande Ferrier. Quanto al protagonista, il baritono Bruce Boyce, dotato di voce gradevole e di bello squillo, si cala perfettamente in un personaggio ricchissimo di sfumature psicologiche che vanno dall'ironia e dallo scherno nel dibattito coi sacerdoti di Baal al fervore dell'aria con viola obbligata It is enough, o Lord, nel classico schema tripartito (ABA). Essa è il vero culmine dello spartito e non sfigurerebbe al confronto con le più celebrate pagine di Giovanni Sebastiano.
Tornando alla fisionomia individualissima dell'opera, della quale non ci si stancherebbe mai di illustrare la singolarità, vorremmo segnalarne il carattere prevalentemente intimistico, quasi di oratorio da camera. Infatti Mendelssohn non mira qui ad effetti di grandiosità nei cori o di forte spicco nelle arie. Il suo oratorio è una serie di gemme amorosamente sfaccettate dalla sapiente mano di un prezioso orefice dei suoni, la cui misura è veramente mozartiana. Non c'è la voce dello storico a guidarci nei meandri dell'azione ma entriamo subito e agevolmente in medias res dopo una brevissima introduzione di Elia, seguita da una ouverture. Le arie sono relativamente poche e tendono a confondersi con gli stupendi ariosi (nei quali sono alcune delle più alate riuscite dello spartito) in un tono medio elegiaco ed auletico. Accompagnano caldi gli archi e parsimoniosamente cantano gli strumentini. I tratti descrittivi di marca haendeliana (si pensi alla descrizione delle piaghe nella prima parte di Israele in Egitto) sono relativamente pochi ma discretissimi.
Sarà azzardata l'ipotesi di un influsso diretto di questo oratorio su l'Enfance du Christ di Berlioz (I854)? Comunque ci pare indubbio che questi due piccoli capolavori del romanticismo minore siano molto vicini come atmosfera e ne suggeriremmo un ascolto comparativo.
Nel ringraziare nuovamente la Decca per la sua iniziativa deploriamo la mancanza assoluta di dati storici e di note illustrative, anche se siamo grati per il testo integrale dell'oratorio, che certo non è facile da reperire. L'incisione è buona anche se i cori non hanno un particolare rilievo.
Giulio de Angelis
("Disclub" 9, anno II, luglio 1964)
Nota discografica
Felix Mendelssohn - Elijah, Op. 70
Jacqueline Delman (s), Norma Procter (c), George Maran (t), Bruce Boyce (br), Michael Cunningham (ragazzo - soprano) - London Philharmonic Choir dir. da F. Jackson - London Philharmonic Orchestra dir. da Josef Kríps.
DECCA ACL 220/222 (SERIE ACE OF CLUBS)

lunedì, agosto 11, 2025

I sorci di Barilli

Bruno Barilli (1880-1952)
Tempo fa trovandomi col Maestro Ghedini si venne a par
lare di Brahms e Strawinski e sulle definizioni che di costoro potevano darsi. Ricordo che in proposito egli mi disse: «Veda quel che ne scrisse Bruno Barilli. Legga "Il sorcio nel violino"». Cosi mi diedi subito alla ricerca di quel volume che purtroppo risultò esaurito da tempo, ed introvabile. Neanche a farlo apposta, dopo qualche mese, Vallecchi ristampa tutti gli scritti di Barilli, riunendoli in un volume dal titolo «Il paese del melodramma» e facendoli precedere da una nitida prefazione di Enrico Falqui. Devo dire che niente in questo libro ci lascia delusi tranne il prezzo e quella maledetta mania che aveva Barilli di fare di Verdi la pietra di paragone del tutto. Ma forse dobbiamo credere a De Robertis quando afferma che Verdi fu per Barilli «una torre di dove ferire»? È certo che Barilli non aveva peli sulla lingua se si trattava di demolire, quando non ricorreva a quella eleganza piena di sorprese, basata su un fuoco di fila di aggettivi che solo uno spirito poetico sarebbe capace di sprigionare. E vediamo subito qualche esempio: Brahms: «Costruttore sapiente, autore bucolico e familiare. Si sente in lui la tranquillità del gran mangiatore che ha un grosso cervello da nutrire... Natura dura e massiccia... Severità serena, misura, ordine religioso e moderazione poetica composti insieme con la larghezza un po' tetra d'un nordico riflessivo sono i caratteri che distinguono Brahms dagli altri classici che lo precedono nella storia, e lo superano». La conclusione, per cosi dire, a sorpresa di questo giudizio ha qualcosa di entusiasmante.
Strawinski: «egli aveva nel muoversi, l'aria intristita e pigra di un topo, che ha mangiato l'arsenico».
Casella: «Là dove passa la sua musica, l'erba non rinasce più».
E infine Rubinstein: «Bocca di ranocchio, testa orientale, occhietti rossi d'ebreo, profilo greco tirato per i capelli».
Vivaci ritratti, spiritosi e caricaturali come la sua stessa faccia, inesorabilmente brutta e difficile al sorriso, disarmante. In uno stupendo disegno di Scipione (un pittore che sapeva scavare nell'animo dei personaggi da lui ritratti) Barilli potrebbe essere scambiato per una vecchia signora negata ad ogni propensione per l'indulgenza verso la specie umana. Ma Barilli fu tutt'altro. Era un uomo dotato di troppo buon gusto, intenditore d'arte, viaggiatore (Vallecchi ha ristampato anche il suo «Libro dei viaggi» deliziosissimo), critico, musicista e... poeta in tutte le sue cose e in quelle in cui gli altri si sarebbero invece abbandonati alla comodità della pedanteria accademica e dell'ermetismo.
Si legga quell'impareggiabile ritratto di Bottesini col quale s'inizia il volume. Questo è forse lo scritto più gustoso che sia mai stato dedicato ad un musicista, un rutilare d'immagini, un fuoco artificiale di aggettivi che sbalzano fuori plasticamente la figura del grande virtuoso di contrabbasso. E al povero Bottesini dimenticato da tutti, verrebbe voglia d'innalzare un monumento. E Willi Ferrero? Le pagine dedicate al fanciullo prodigio traboccano d'affetto: ma proprio in queste pagine mi è parso di cogliere un lato oscuro della personalità indubbiamente forte del Barilli, un lato che si presterebbe benissimo ai topi dai quali lo scrittore sembra ossessionato. Egli vede topi dappertutto, parla di topaie, intitola un suo libro «il sorcio nel violino», assimila musicisti a sorci (vedi Strawinski) e sogna sorci che lo assalgono mentre dorme, divorano i suoi manoscritti e infine, da lui scacciati, calano lestamente nel pianoforte come un esercito in ritirata. Il mio sospetto fu poi convalidato dallo stesso Maestro Ghedini il quale, riparlando del Barilli che gli fu amico, mi mostrò la riproduzione di un manoscritto di Schumann, raffigurante un pentagramma costellato di gatti e topi che si rincorrono. «Vede, mi disse, è la pazzia!». Certamente Barilli pazzo non fu, ma l'ipotesi che egli fosse affetto da un qualche complesso, sia pure innocentissimo, non mi pare priva di fondamento. Comunque fa parte della sua arte e per questo mi sento di rispettarlo ancora di più.
Venendo ora alla famosa questione di Verdi e di Puccini, bisogna esser grati al Barilli per aver coniato una gustosa definizione del primo: «ll suo alito ha un sano odor di cipolla», ma il guaio è che, scrivendo di Wagner, egli non riesce ad essere ugualmente originale, appunto perché da bravo verdiano egli è troppo preso dallo spirito di partigianeria. Ma è mai possibile che verdiani e wagneriani non riescano a coesistere senza escludersi reciprocamente? Questo appunto si domandava Furtwaengler in uno scritto che «Disclub» ha pubblicato recentemente, a proposito delle fazioni brahmsiane e bruckneriane. Comunque, Barilli è troppo intelligente per fare dei suoi operisti prediletti oggetto di apologie sperticate! E' un fatto, però, che essendo Barilli un musicista mediocre e forse mancato (ma un critico riuscito) egli non riuscì a frenare il proprio astio elegante verso chi ebbe più fortuna di lui come compositore.
Se il suo libro esordisce in chiave satirica e nello stile di un futurista che prende in giro il futurismo, le ultime pagine sono di una malinconia struggente. Qui assistiamo al decadimento progressivo del suo fisico, alla sua povertà sempre più incalzante, che arriva alla tragica proposta di un suicidio. Leggendo «Il diario di un vegliardo» è difficile non provare un profondo senso di commozione, così come le prime pagine ci hanno fatto ridere di gusto. Un libro, appunto, da leggersi sorridendo, ma con le lacrime agli occhi.
Edward D.R. Neill
("Disclub" 11, anno II, ottobre/novembre 1964)