Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, marzo 21, 2025

Parola d'ordine nella pubblicità: far finta di non conoscere la musica classica

Non è incompetenza, è saccheggio premeditato.

Un fatto. Ripresa stuzzicante su gambe femminili nude, poi la caduta molle di un asciugamano, presumibilmente allacciato ai fianchi, che lascia presumere più peccaminose immagini. Seconda inquadratura: le gambe e il resto sono già nella vasca da bagno. anzi praticamente ne stanno uscendo; tra il visto e il non visto (sali da bagno sulfurei?) la nostra eroina, verso lo scoccare dei fatidici 30 minuti secondi, si riappropria di un accappatoio candido. appena in tempo perché una suadente voce fuori campo insuffli in orecchie ormai corazzate la marca del bagno. Finisce così troncato anche l'arpeggio del beethoveniano Chiaro di Luna che aveva obbedientemente accompagnato (anche se leggermente a disagio nel settore igienico sanitario), le sequenze.
Un antefatto. Tanti anni fa, alla preistoria della televisione. Il cartone animato con un personaggio simpaticissimo mezzo Rascel e mezzo Eta Beta che nelle praterie più ampie concesse dal leggendario Carosello. faceva e disfaceva e poi scappava sempre sul ritmo irresistibile della mozartiana Marcia turca adattata ai suoi passi. Sì, era proprio Angelino. felice parto di un qualche detersivo di epoche remote. L'antefatto è quasi storico mentre il fatto è casuale, uno dei tanti acchiappati involontariamente giocherellando con il telecomando in un uggioso pomeriggio invernale. Ma sono lo spunto per la nostra ricerca.
Perché la pubblicità sente il bisogno di associare a determinate immagini la musica «colta» o più genericamente classica. Perché l`uso fatto e in linea di massima deprimente per la categoria musica classica in toto. Secondo quali principi viene selezionata, più spesso sezionata, quasi sempre trasfigurata. Il discorso poteva essere impostato in due modi. O riferendoci alle più recenti conquiste della semiologia musicale e delle scienze legate ai mass media per teorizzare, con l'apporto dei vari Eco & C., una precisa casistica di sfruttamenti da cui torchiare ed estrarre tutta una serie di principi di comunicazione e/o di sfruttamento sostanziale; un repertorio da complementarizzare con quello già operante nel campo dello specifico visivo per aver un quadro spaventosamente esauriente dell'ambito sempre più scientifico in cui si muove tutto il mondo della pubblicità.
Si poteva farlo, e non è escluso che se ne riparli. Per questa volta ci siamo accontentati di una piccola ricerca «sul campo». Parlando con alcuni tra i più  esperti e famosi creative-man, con registi, responsabili di produzioni musicali varie, soprattutto nella prospettiva di raccogliere qualche dato di partenza concreto sulla funzione della musica classica in questo campo così sensibile ai mutamenti di umore, all'aggressività dei creatori, alla frequente incompetenza dei committenti, ai refoli di gusto imprevedibili, causati o sofferti dall`industria stessa.
Suono e immagine -  La pubblicità parte dal concetto realistico espresso in modo lapidario dal sociologo americano Marshall McLuhan quando scrive che «l'oggetto della comunicazione non + tanto importante per sé, ma per il modo in cui ci viene comunicato». Semplificando tutte le teorie annesse e derivate, per quel che interessa la nostra ricerca è sufficiente ritenere il concetto di base e che vuole la pubblicità affidata principalmente a tre fattori: immagini, parole e musica. Se sull'importanza dei primi due elementi nessuno nutre dubbi, sul ruolo della musica come vedremo non tutti sono d'accordo (tanto per intenderci ci riferiamo. e lo sottintendiamo quindi. solo alla pubblicità audiovisiva).
In un intervento sullo Speciale Pubblicità Domani del maggio scorso Sandra Mazzucchelli di 'Le Parole e le immagini' indica per la musica un'utilizzazione che tenga conto della specificità simbolica «al di la della sua funzione ludica o di accompagnamento, o di sottolineatura, o di 'tappabuchi'. In un film pubblicitario la musica è un po' la spina dorsale: può raddrizzare. rinforzare indebolire, stonare il tutto (...) può insomma aggiungere sfumature che le altre espressività difficilmente riescono a raggiungere. regalandoci una nuova forma di linguaggio nel linguaggio: la stessa cosa con musiche diverse cambia completamente di significato o di intenzione».
Poiché la dichiarazione viene da un esperto del settore l'assumiamo come punto di partenza. Cioè si postula - per usare le parole di Gino Stefani - che «la musica non è da capire ma da usare». Il semiologo però circoscrive subito il problema: intanto ponendo l'affermazione apparentemente paradossale nel quadro di una serie di ipotesi, anzi di 'punti di vista' di base per Capire la musica. In secondo luogo svolgendo l'assioma: «dietro questa idea si intravede lo schema produzione-prodotto-consumo, analogo a quello della comunicazione. Ora, mentre per il destinatario era essenziale preoccuparsi delle intenzioni del mittente per capire il messaggio, il consumatore invece può prescindere tranquillamente dalle idee del produttore; d'altra parte il prodotto, ossia l`oggetto musicale, non impone di per sé all'utente un modo unico di fruizione, come dimostra la storia delle funzioni e funzionalizzazioni della musica classica e popolare. Conclusioni: libertà di uso (...). Prendiamo pure la musica come oggetto; ma capire un oggetto vuole dire cercare di vedere com'è fatto, a che cosa serve e che cosa significa».
Questo problema non si pone al pubblicitario che, realisticamente. tratta la musica come oggetto, e basta.
Un oggetto non sempre comodo; scomodissimo se si tratta di quella classica difficile da far rientrare nel limite temporale dei famigerati 30 secondi che rappresentano la durata media dello spot. Diventa quindi necessario un ridimensionamento dell'autonomia musicale. Ecco che nasce l`unità di misura musico-pubblicitaria, il 'jingle'. Letteralmente cantilena, melodia ripetitiva; nell'applicazione pratica quel motivo musicale ripetuto (anche poche volte, ma al momento giusto) che non da l'assuefazione ma costringe la gente a memorizzarlo, nell'associazione, con un determinato prodotto. Gli esempi sono innumerevoli, e ognuno ha i suoi.
E chiaro che per definizione il jingle è qualcosa che si contrappone al respiro della musica classica, regolato unicamente da metri di ordine formale o stilistici.
La mentalità comune, in compenso, assegna alla musica classica una serie di convenzioni di significato facilmente commerciabile. Non è una scoperta  recente, questa. Anche storici della  musica attendibili hanno in varie occasioni tentato di associare stabilmente determinati stati d'animo o situazioni ambientali a singoli accordi o tonalità (non consideriamo quella dichiaratamente descrittiva, che comunque tiene per sé ancora tale autonomia musicale, almeno nelle partiture più famose, da far scivolare la qualifica pittorica quasi in secondo piano). Anche un saggio mozartiano serio come quello scritto nel 1962 da Aloys Greither propone un capitolo dedicato al 'carattere della tonalità' (stimolante per le idee ma pericoloso da assorbire acriticamente) che rivela coincidenze preziose.
Purtroppo il punto di partenza del pubblicitario è meno aristocratico. «Per arte e necessità è dotato di una cultura speculare, nel senso che riproduce quella media del pubblico», afferma Emanuele Pirella della Agenzia Italia, «di conseguenza nel campo della musica classica siamo a livello bassino. Si finisce quindi per ricorrere sempre alle stesse cose, quelle che circondano anche noi come ascoltatori».
E questo è un dato di fatto riconosciuto da tutti, di malavoglia anche dai pubblicitari che per interesse personale hanno con la musica classica un rapporto per niente superficiale. La parola d'ordine per sfruttarla è far finta di non conoscerla.
Classic jingle-man - Continuiamo la conversazione con Pirella. «E quando dico cose note, intendo proprio quelle che non si possono ignorare, almeno all'orecchio, come l'attacco delle Quattro stagioni o il finale della Nona di Beethoven. E l'utilizzazione deve avvenire sempre sul versante descrittivo o d'atmosfera: sono inutili musiche in qualche misura significanti. La gente sente una cosa nota, e ciò basti, perché poi non è in grado di compiere il passo successivo e darle una paternità.
Esiste un secondo equivoco costituzionale all`utilizzazione del classico, e che ne determina il ruolo subordinato: nell'ambito pubblicitario agiscono due stimoli primari: il noto e l'inaspettato. La musica rappresenta la prima costante quindi non può permettersi ruoli sofisticati. Per di più la cattiva utilizzazione fin qui fatta ha ribadito l'impressione e l'equazione errata per cui il classico va considerato musica vecchia, buona solo per accompagnare e possibilmente in sottofondo. Esiste anche una carenza organizzativa ben precisa; mentre nel campo pop, country e leggero in genere esiste il jingle-man, per la classica si va a spanne e conoscenza personale. Sono comunque persuaso che con maggiore intelligenza e ironia la musica classica potrebbe trovare un campo di utilizzazione molto più vasto e stimolante».
Pace tra lama e pelle - Viceversa capita più spesso che la musica classica venga fraintesa e sfruttata secondo principi da far rabbrividire l'appassionato. Fabio Ritter è il responsabile della Circle. una società che si dedica particolarmente alla produzione musicale. Jingle per tutti i gusti, soprattutto originali; quelli che possono decretare la fortuna di uno spot intero. Ma anche qualche inserzione di classico. D'accordo quando Ritter parla di come la loro ricerca sia volta «a creare uno stimolo di attenzione». È semmai divertente sapere che per una pubblicità radiofonica è stato utilizzato un brano di Haendel, non meglio identificato. di «musica da chiesa». Fin qui niente di strano, bello è il meccanismo
mentale e promozionale che ha portato a tale scelta e che Ritter ci descrive con comprensibile ironia: «Il prodotto era una crema da barba, il messaggio faceva riferimento alla gradevolezza del prodotto tra pelle e lama. In quella  musica di Haendel il concetto di pace sembrava evidente, quindi è stata utilizzata per sottolineare la pace tra lama e pelle... È forse un caso limite, ma può anche non esserlo. D'altra parte per conto mio la musica classica è usata fin troppo mentre non è costituzionalmente in grado di sopportare un fatto visivo, a meno di non essere impiegata con distacco, in contrasti divertenti. Comunque all'obbligatorio accostamento visivo si arriva scegliendo musiche descrittive; anche perché e l'unico modo per tranquillizzare il cliente ignorante. Si potrebbe adottare il classico come musica d'ambiente, ma data l'incultura musicale sarebbe ipotetica la resa dell`accostamento».
Sulla medesima linea è l'opinione del regista Livio Mazzotti persuaso che lo sfruttamento classico passi necessariamente attraverso il tramite avviliente delle più radicate «retoriche musicali. Ci sono dei dati sedimentati nell'orecchio della gente; non sono veri dati musicali ma piuttosto la tendenza ad associare alla musica delle sensazioni: l'abbandono, la forza, l'emozione, la solarità. Facendo leva su ciò il pubblicitario finisce per estremizzare in peggio l'operazione intrapresa da Walt Disney  con Fantasia: le note della Pastorale riportavano alla memoria immagini della fantasiosa grecità hollywoodiana, oggi le note di uno spot, magari le stesse, rimandano a una scatoletta qualunque. Il definitivo sputtanamento della musica classica da parte dei pubblicitari è limitato solo dall'utilizzazione non frequentissima». Chiediamo il perché. «Fondamentalmente perché, sul mezzo minuto dello spot, solo 5-6 secondi sono quelli che contano veramente: costringere entro questo brevissimo spazio un qualsiasi spunto musicale classico è quasi impossibile e inutile. L'impedimento è quindi fondamentalmente pratico, non certo etico. Talvolta viene superato con l'adattamento moderno dello spunto originale ma solo raramente tale trasformazione vale il lavoro. Tutti questi problemi ovviamente non esistono quando il prodotto da pubblicizzare è già nel  campo musicale classico, come può  essere una collana editoriale: lì basta scegliere lo spunto più celebre che si ha sottomano. L'attacco della Quinta di  Beethoven, per esempio, funziona sempre».
Quale musica  - Il problema del repertorio viene affrontato con lucidità da Franco Bellino dell`Agenzia Nck, appassionato di musica classica e particolarmente attratto dalle problematiche della musica contemporanea. Ammette, e come  potrebbe non farlo, la limitatezza delle scelte, ma riprende anche il discorso già messo per iscritto qualche mese fa sul settimanale specializzato Pubblico, proponendo una singolare riflessione. «Se va bene la cultura musicale classica della pubblicità si ferma a Strauss aggirando già Mahler; pure l'espressione degli stati d`animo elementari illustrati dagli spot potrebbe benissimo essere sottolineata da musiche di Sciarrino o Togni. Ma nemmeno Ives o Schoenberg trovano posto, né Webern che ha scritto su durate aforistiche singolarmente adattabili ai tempi pubblicitari. Per conto mio la ragione va ricercata, oltre che nell'ignoranza di chi si occupa delle scelte, nella natura stessa di quelle musiche. Tutto il mondo post-tonale esprime una critica sociale così chiara e feroce alla società dei consumi, alla tradizione considerata come punto consolatorio e assoluto. Di qui l'incompatibilità spontanea con tutto il messaggio della pubblicità (che deve essere positivo) e che della società dei consumi è una delle manifestazioni più tipiche. Il rifiuto della musica contemporanea non è solo determinato dal fatto superficiale della difficile memorizzazione, ma va considerato come la rinuncia consapevole a uno strumento inconciliabile costituzionalmente alle finalità della comunicazione necessaria alla pubblicità. Questa caratteristica di accompagnamento che disorienta e mette a disagio accompagna ogni sfruttamento della musica contemporanea; pensiamo soltanto all'applicazione più comune per suspence, tensione o angoscia nei gialli». Finora però s'è parlato in generale di musica classica ma sottintendendo l'esclusione dell'opera,  perche? «E' vero, 1'uso è limitatissimo. Principalmente perché fino a qualche anno fa l'appassionato d'opera veniva snobbato a livello comune; poi c'è il problema di conciliare il messaggio pubblicitario verbale con un'accompagnamento da parte sua già vocale. Ci sono stati però esperimenti per sfruttare la popolarità di determinati motivi, ma evitando di mantenere l'originale. Una famosa pubblicità per un brodo era basata su un gruppo di vocalisti che proponevano il messaggio pubblicitario intonandolo su celebri arie d`opera, una più recente lo sovrappone alla cavatina di Figaro, cantata alla maledetta dallo stesso attore protagonista. Ma come si vede sono casi in cui la specificità operistica viene tradita completamente. Ultimo motivo che rende controproducente l'utilizzazione del melodramma (ma per estensione di tutta la musica classica) l'opinione che sappia di vecchio, e non possa giovare al messaggio pubblicitario, che dev'essere necessariamente e totalmente 'nuovo'».
Altro problema è la posizione della musica nel processo di realizzazione audiovisiva. É capitato che sia stato uno spunto musicale a suggerire precisi effetti visivi? Al contrario; esistono spot già destinati nel progetto all'illustrazione musicale classica? «Niente di tutto ciò. La musica nella strategia di  comunicazione occupa un ruolo non  trascurabile ma gerarchicamente e praticamente finale. Il messaggio pubblicitario di norma è già espresso completamente a livello visivo e verbale; alla musica rimane il compito di rinforzarlo o semplicemente ritmarlo con efficacia. L'intervento musicale avviene sulla fase del montaggio, nel corso del quale si ascoltano vari dischi o si commissionano jingle dalle caratteristiche precise. Può capitare tuttavia che si inciampi in musiche che sembrano proprio fatte apposta, che fanno apparire l'immagine come derivata da esse. Masi tratta di casi».
Coincidente è il giudizio di un altro regista, Alberto De Maria della Film 77 secondo cui la musica è «l'espediente che permette di montare le sequenze in un modo invece di un altro. Per questo il jingle deve tenere presente la configurazione numerica delle sequenze, che nei 30 secondi possono essere due-tre (allora va bene uno spunto musicale conseguente) ma anche di più, richiedendo una spezzettatura corrispondente (che può essere ripetizione)». Da De Maria veniamo a sapere che la tendenza decrescente nell'utilizzazione (anzi nella sottoutilizzazione) della musica classica è un fenomeno che non si rileva  in altri paesi. In Inghilterra per esempio ne viene fatto largo uso «nonostante effettivamente caratteristica della  pubblicità è proprio quella di non avere prodotti classici. Si preferisce sempre l'ennesimo 'finalmente dagli Stati Uniti' anche conoscendone abbastanza sicuramente la provenienza casalinga, piuttosto che cercare una collocazione pubblicitaria non umiliante alla musica classica. Visto che deve soprattutto 'fare campagna' andrebbe considerata  non inferiore, nell'apporto, ai suggerimenti scenografici. Invece la tendenza al 'più nuovo' nel nostro caso si riduce alla mortificante rivisitazione in chiave moderna dei poveri classici».
Del ruolo «finale» della musica non è invece persuasa la Mazzucchelli che nel  già citato intervento scritto affermava che «quando e dove si può, cioè, bisognerebbe fare di tutto perché la colonna sonora nasca prima e non dopo il montaggio. A evitare cadute di ritmo,  che sono poi cadute d'attenzionalità, di
credibilità, di coinvolgimento».
«Il grande sogno del committente è solo che la sua pubblicità sia sottolineata da un jingle che tutto il pubblico prima o poi si ritrovi a canticchiare» specifica Marco Vecchia direttore  creativo della Cpv che parla chiaramente di 'sfruttamento' della musica  classica e lo fa non senza un po' di malinconia. «Spesso addirittura il classico è impiegato in funzione kitsch, anche se tutto sommato viene tenuto come un 'testimonial' autorevole. Non necessariamente per la popolarità in sé di quel brano: conta piuttosto la popolarità indotta, quella che viene a un motivo dal fatto di essere stato utilizzato in un film di successo (per esempio Così parlò Zaratustra ripreso in tutte le salse, ma solo dopo 2001 Odissea nello spazio e quasi sempre per ambientazioni fantascientifiche...). E in genere la presenza della musica classica tende solo alla comunicazione di un certo tipo di atmosfera. secondo discutibili concezioni per cui il Settecento serve per definire ambienti raffinati e freddi, Ciaikovskij per le ambientazioni romantiche e sdate..._».
Crea un'atmosfera - Il discorso in sé sarebbe concluso, anche perché in linea di massima tutti gli intervistati si sono trovati d'accordo sull`analisi dell'anomalo rapporto tra comunicazione pubblicitaria e musica classica. Per completare il quadro con l'altra faccia del fenomeno abbiamo parlato con due famose ditte che hanno legato il proprio marchio a popolari spunti di musica classica. Si trattava di vedere in che misura l'atteggiamento critico e complessivamente poco persuaso dei pubblicitari trovasse riscontro nei committenti. In altre parole si cercava la conferma dell'equivoca utilizzazione del classico e di tutte le prevenzioni.
Musica classica come atmosfera. Non era possibile evitare l'incontro con il brandy che dell'atmosfera sembra possedere il brevetto, complice il felice motivo della Romanza in fa maggiore per violino e orchestra di Beethoven, nell'arrangiamento di James Last. Roberto Canaider, responsabile dell'ufficio pubblicità racconta con ingenuità tenera e con un pizzico d'orgoglio la nascita di questo fortunato accoppiamento. «Stavamo preparando la pubblicità natalizia del 1977, avevamo già a disposizione una serie di sequenze (scene con pupazzetti, presepi olandesi del Seicento). Scopriamo questo motivo arrangiato da Last perchè era ai primi posti della hit-parade radiofonica e ci sembrò subito una musica adatta per il Natale...poi venne tenuta come jingle anche per altri spot, poiché in effetti il messaggio verbale vi trovava una corrispondenza ideale». A voi spetta anche l'immagine del pugno di ferro del Petrus; lì è venuta prima l'immagine o la musica? «Sempre l'immagine. Il difficile è stato trovare una musica che desse l'impressione di vigore e che continuasse conseguentemente come sottofondo. In effetti l'aver scelto la Quinta di Beethoven con quel famosissimo ta-ta-ta-taa (errore madornale o semplice lapsus? Come  tutti sanno la musica è quella dell'ouverture Coriolano) e stato un vero colpo  grosso».
Musica classica o trascritta. Ci siamo rivolti a un'altra grande casa di aperitivi milanese di cui non vogliamo citare il nome visto che ci è anche stato intimato di non indicare che abbiamo avuto un colloquio telefonico con un responsabile (peraltro gentile) della pubblicità. Dunque la ditta in questione si è appropriata della Polacca n.3 «Eroica» di Chopin per i propri spot. Ma con una raffinatissima differenziazione rivelata  dal signore di cui sopra. Cioè il prodotto classico ha l'onore di essere accompagnato dalla versione originale, quindi per pianoforte, del pezzo, mentre quello più giovanile «che non si sposava bene al carattere serio della musica» viene reclamizzato con il medesimo  motivo nella «trascrizione disco-music» (molto discutibile musicalmente  questa specificazione di genere...), con file di archi. ottoni, grandi glissandi di arpe e via dicendo. Il pateracchio risultante viene in compenso definito «sinfonia» con buona pace dei puristi e degli appassionati generici.
Per concludere -  Si può fare solo un piccolo punto di partenza per qualcosa di più scientifico e documentato. La veloce chiacchierata, soprattutto quella finale con i due produttori, mi pare che lasci pochi dubbi.
Della musica classica in pubblicità se ne fa un uso atroce. Eppure si continua a infilare sotto un paesaggio Vivaldi, Bach con la fiera del bianco, Wagner con i formaggini bavaresi; frotte di bambini seminudi sciamano sulle note della Pastorale, il risveglio dietetico di un pacioso signore avviene sulle avvolgenti melodie del Peer Gynt di Grieg, un altro brandy di casa s'è appoggiato per anni al Concerto per violino di Ciaikovski, e il saccheggiamento continua, sempre però con i limiti stilistici di cui abbiamo già parlato (De Maria per uno spot girato in Francia tra fieno, cascate e amenità rurali volle tentare musicalmente la carta Debussy: si sentì chiedere per quale ragione voleva cambiare il regista...).
E quello che spaventa non è l'impiego fin qui fatto, ma 1'ancora ferma convinzione di molti operatori pubblicitari - ciò si legge tra le righe poiché a noi è capitata la fortuna di parlare con persone intelligenti e sensibili al problema - che con l'ennesimo tradimento del classico di moda pensano di poter risolvere ogni situazione rognosa, senza ricorrere all'opera del compositore moderno o del ritmo alla moda. Il tutto poi condito dalla suprema ignoranza di fatti musicali per cui gli accoppiamenti musica-immagine sono sempre al limite del casuale, e alla musica tocca sempre la fatica di riportare credibilità a tutta la baracca: la sua personale piuttosto screditata, è quella dello sponsor di turno. Forse ha proprio ragione Pirella quando dice che i pubblicitari e quindi i loro prodotti rispecchiano il livello medio della cultura musicale italiana. Credevamo di essere a stadi da Terzo Mondo solo per quanto riguardava l'educazione musicale, invece  anche qui non siamo molto distanti.
E non salti su nessuno a dire che (però,  tutto sommato, in fondo, almeno)  qualcuno di questi motivi straziati rimangono in testa accumulando dati musicali, sia pure scheletrici, e che quindi un minimo contributo culturale  c'è...Di questo genere di cose possiamo tranquillamente farne a meno. Anche dell'arpa haendeliana che ci amministra gli intervalli televisivi rendendo operante l'equazione classico-noia.
Se proprio si vuole iniziare un discorso diverso, sarà meglio prendere il toro dalle corna; c'è bisogno di jingle classici? Benissimo, si bandiscano le squallide esercitazioni fin qui intraprese e si cominci a considerare seriamente la musica classica. Potranno esserci delle sorprese.
«Ripetizione è incantazione: la tecnica pubblicitaria ne ha ben fatto una sua legge fondamentale» scrive Stefani a proposito di un pezzo costruito regolarmente, con un unico modulo ripetuto, come il jingle ideale. L'affermazione può suonare ironica: la pagina musicale esaminata è il primo Preludio del Clavicembalo ben temperato. Ancora una volta Bach e davanti a tutti; e con lui la musica.
Angelo Foletto
("Musica Viva", N. 2, Anno V, Febbraio 1981)

martedì, marzo 11, 2025

La "camera di Franco" dove Battiato intuiva il futuro

Prosegue la riscoperta della musica colta-contemporanea 
dell'autore siciliano. Ne parliamo con ii compositore e direttore d'orchestra, fondatore dell'ensemble Sentieri Selvaggi, da anni impegnato nel riportare in superficie brani ancora troppo poco conosciuti nella produzione di questo mistico d'Occidente.

Nel campionato della musica, Franco Battiato ha giocato una partita tutta sua. Sempre in attacco e mai in difesa. Con schemi originali, senza arrangiare quelli degli altri. Perseguendo l'indipendenza del pensiero e dei contenuti, e mai l'esibizionismo o la spettacolarizzazione dell'atto virtuosistico. Tanto nella musica pop quanto in quella colta-contemporanea. Battiato, caso a parte nel vasto mondo della creazione, in “Tecnica mista su tappeto" (conversazioni con Franco Pulcini) del 1992 diceva: «Tra il rumore di un`automobile che va piano e una musica che non mi piace, che urta la mia sensibilità, preferisco il rumore di un'automobile». E ancora: «Spero che una musicalità istintiva mi abbia sempre tenuto fuori dal kitsch e dal cattivo gusto».
È questo l'autore che Carlo Boccadoro, in “Battiato. Cafè Table Musik" (La Nave di Teseo), ritrae con vasta documentazione e attenzione chirurgica. Scrivendo di un artista che «ha attraversato la lunga strada che va dai locali milanesi alla composizione contemporanea nei teatri d'opera senza darsi inutili gerarchie stilistiche interne, e affrontando ogni sfida musicale che gli si presentava davanti con professionalità e leggerezza». Con senso estetico ed essenziale, irrequieto eppure meditativo, libero. E proprio per questo, autore di «musiche che quarant'anni fa erano in grado di intuire le direzioni del futuro», sottolinea  Boccadoro. Che in prima nazionale, il 2 ottobre, ha presentato al pianoforte con Giulia Perri (voce e oggetti), Andrea Rebaudengo (pianoforte e oggetti) e Piercarlo Sacco (violino), in occasione del Romaeuropa  Festival 2023, una selezione di brani scritti da Battiato tra il 1977 e il 1978: tre pezzi da “Juke Box", “Campane”, “Hiver”, “Martyre Celeste", “L'Egitto prima delle sabbie", “Cafè-Table-Musik" e “Sud Afternoon”.
“La camera di Franco", titolo della serata, ha portato in superficie quell'esplorazione profonda «dell'universo sonoro degli strumenti acustici» - pianoforte, voce e violino - sui quali si concentrò l'artista siciliano una volta abbandonato il sintetizzatore VCS3 che tanta importanza ebbe nei suoi primi dischi da solista.
Ne parliamo con il Maestro Carlo Boccadoro partendo proprio da “L'Egitto prima delle sabbie" (1977). Il brano, ispirato ad un racconto di Georges Ivanovic Gurdjieff, si classifica al primo posto al Concorso di composizione “K. Stockhausen” organizzato dal Festival Pianistico Internazionale di Brescia e Bergamo. Così ne parlò Battiato, la dichiarazione è inserita nel libro “Cafè Table Musik", in un'intervista
del 2007: «Credo che si tratti di una delle mie vette assolute, eppure non c'è neanche una briciola di ispirazione, semmai studio al servizio di una concezione meditativa, riscontrabile nelle sonorità, nella purezza delle risonanze... Si tratta di un linguaggio micro-polifonico. Queste risonanze rappresentano ancora oggi, secondo me, la forma ideale per  esprimere un certo mondo».

Maestro, la musica classico-contemporanea di Franco Battiato può aiutare l'ascoltatore a capire, meglio, anche il lato “mistico-pop” del cantautore?
Assolutamente no, eccezion fatta  per il brano pianistico “L'Egitto prima delle sabbie", la cui qualità riflessiva - secondo Battiato - aveva la capacità di provocare uno stato d'animo incline alla riflessione interiore: lui stesso ascoltava talvolta questa musica quando faceva i propri esercizi di meditazione. A parte questo nulla di mistico, tantomeno di pop.
La riscoperta - potremmo dire “ricostruzione” - di queste musiche quanto è stata complessa e come si è lavorato per portarle sul palco?
Ho già ampiamente documentato nei dettagli la complicata vicenda del ritrovamento di questi lavori nel mio libro “Cafè Table Musik" uscito circa un anno e mezzo fa per le edizioni de “La Nave di Teseo": non c'è spazio qui per ripeterla. E' stata comunque una lunga operazione che ha coinvolto all'inizio lo stesso Battiato nel 2009 e successivamente è stata portata a termine con l'aiuto di Antonio Ballista, della casa editrice Ricordi e dell'archivio SIAE.
Nel libro-intervista “Tecnica mista su tappeto", Battiato dice di «aver bisogno, ogni tanto, di armonie tradizionali e pacate. All'interno di certe asperità c'era il viaggio del suono come ripetizione, come veicolo per cavalcare dimensioni diverse». Battiato come affronta la musica contemporanea, come la pensa e la sviluppa?
La sua posizione era in assoluto contrasto con qualsiasi estetica dominante allora nel mondo delle cosiddette avanguardie. Le sue idee si rifacevano piuttosto ai minimalisti americani come Terry Riley, Steve Reich e Philip Glass, a quell'epoca assolutamente tabù nelle nostre stagioni di concerti. L`unica personalità con cui Battiato trovava una affinità era quella di un altro grande “escluso” da quel giro di sperimentazione, Paolo Castaldi, con cui all'epoca collaborò anche in una serie di concerti assieme. Al centro di tutta la sua ricerca di quegli anni, come sottolineava lo stesso Battiato, c'era proprio la ricerca dell'esplorazione dei suoni acustici degli strumenti, in particolare del pianoforte.
Nei lavori di Battiato quali sono le caratteristiche della composizione che l'hanno colpita di più? L'autore come si differenzia dal panorama colto di quegli anni Settanta?
Il suo linguaggio non ha nulla a che vedere né con i residui del serialismo allora ancora in voga e neppure con esperienze come lo strutturalismo o l'alea di John Cage (che pure Battiato ammirava molto). Hanno semmai idealmente a fare con Morton Feldman, oltre che coni minimalisti americani (come ho  detto prima). Una musica fatta di micro-dettagli, di sfumature minime  che cambiano quasi impercettibilmente nel tempo, e che richiede appunto una diversa concezione del  tempo di ascolto per essere apprezzata come si deve.
Lei afferma che in “Martyre Celeste" «vengono in mente le soluzioni compositive di Arvo Pärt e Giya Kancheli, che difficilmente all'epoca potevano essere conosciute perché non avevano circolazione nei paesi dell'Ovest  europeo». Ma nella musica di Battiato si trovano riferimenti anche a Cage, Stockhausen, Ligeti, Messiaen, Morton Feldman: l'interprete come può affrontare così tanti e diversi stimoli musicali?
E' necessario avere una preparazione completa e una conoscenza storica approfondita su quello che si scriveva in quegli anni per non affrontare queste pagine con superficialità, o con un approccio Ambient o New age (per carità!!). Ogni nota  è essenziale e questo richiede un lavoro intenso sul tocco pianistico esul suono in generale.
Lei si è confrontato direttamente con Battiato proprio su questi  materiali perduti e irrintracciabili: quali le sensazioni che conserva ancora oggi di quell'incontro?
Purtroppo, quando Battiato era in vita l'unico lavoro che è stato possibile rintracciare era una versione molto approssimativa del pezzo per due pianoforti “Sud Afternoon”, che io ho successivamente ricostruito ed eseguito assieme ad Andrea Rebaudengo. La conoscenza con Battiato è durata diversi anni, fin da quando mi chiese di dirigere al Teatro Rendano di Cosenza la sua ultima opera  lirica, “Telesio". Ho dei bellissimi ricordi di questa frequentazione, ma sono troppi e non li considero materiale per un'intervista...
intervista di Davide Ielmini a Carlo Boccadoro
("Musica", N. 351, Novembre 2023)

sabato, marzo 01, 2025

Juilliard Quartet per sempre

Juilliard Quartet
Quante volte mi è successo di sentir parlare di un "vecchio" e di un "nuovo" Juilliard? È una semplificazione usata nei negozi di dischi a cui non corrisponde nessuna realtà effettiva. Si può parlare di due Quartetti Pro Arte, di due Quintetti Boccherini, ma il Juilliard è uno solo, guidato da Robert Mann fin dal 1946, anno di nascita della formazione, auspice l'allora presidente della scuola, William Schuman. Mann aveva ventisei anni, come il violoncellista Arthur Winograd.
Questi veniva dalla Boston S. O. e dalla NBC S. O., mentre Mann aveva già vinto la Naumburg Competition ed era guidato da Edouard Déthier, un autentico entusiasta della musica da camera, e da Felix Salmond, il grande violoncellista primo interprete del concerto di Elgar e della Seconda Sonata di Enescu. Più anziano di sei anni, il violista Raphael Hillyer era la colonna portante del gruppo. Aveva studiato violino con Serge Korgueff e composizione con Shostakovic a Mosca e Leningrado. Dopo aver frequentato il Curtis, Dartmouth e Harvard, nel 1942 era entrato nella Boston S. O. di Kussevitzky; inoltre faceva parte del Quartetto Stradivari e insegnava alla Longy School, cosicché la sua esperienza doveva rivelarsi preziosa per il quartetto al quale davano vita i tre musicisti che ho detto, insieme al violinista Robert Koff. Negli anni quaranta eseguirono per la prima volta in America i sei quartetti di Bartok, e quelli di Schönberg dinanzi al compositore, stabilendo la reputazione di specialisti di musica moderna, ma anche di esemplari interpreti dei grandi classici. Nel 1954 Winograd fu nominato Staff Conductor alla MGM Records (passò alla Audio Fidelity Records nel '58) e poi chiamato a capo della Birmingham S. O. e della Hartford S. O. Come successore venne prescelto Claus Adam, figlio del celebre etnologo Tassilo Adam.
Era nato a Sumatra, aveva studiato a Salzburg, ed era divenuto membro del New Music Quartet dopo un periodo come primo violoncello alla Minneapolis S. O. All'interno del quartetto gli equilibri cominciarono a spostarsi. Winograd accordava grande importanza alla chiarezza didascalica della conduzione della frase; era al tempo stesso un po' rigido, si esprimeva con personalissima fragilità, con senso ritmico abbastanza indefinito, una certa "liquidità" di origine espressionista. Adam, allievo di Feuermann, reggeva l'edificio quartettistico con prodigiosa energia ritmica, mentre il suo cantabile rivaleggiava con la calda intensità di Hillyer. Lo riconoscerete agevolmente nel "Très Lent" del Quartetto di Ravel, mentre per lo stile di Winograd consiglio il "Mesto introduttivo" al 2° movimento del Sesto di Bartok.
Finora l'elemento di maggior evidenza ritmica era stato Koff, musicista di splendido respiro. Sapeva dialogare con Mann con inimitabile omogeneità (ascoltare l'inizio del Primo di Bartok) e la sua partenza - avvenuta tre anni dopo la scelta di Adam - impoverì la sezione dei violini, rendendo meno netta la posizione di Mann; la cui personale riflessione lo stava allontanando da quella rivalutazione virtuosistica del primo violino che sarebbe avvenuta negli anni '70 e di cui è stato fiero avversario. Col suo insegnamento Mann si sforzava di raggiungere ciò che definisce «lo stato originale, vulnerabile, del
nuovo-nato››. Legato a questo pensiero di Reichiana memoria, affidava all'esecuzione un valore quasi mistico e, insieme, profondamente umano. Leggiamo le sue parole da un'intervista di S. Epstein apparsa nel l98l sul disco CBS D4 37873: «Non apparteniamo al mondo di Heifetz che si diceva non ammettesse una sola giuntura nelle registrazioni; se c'era una nota fuori posto, voleva che fosse lasciata. E tutti amavano tale posizione perché provava che anche lui poteva sbagliare. Il nostro scopo, però, non è di dimostrare se suoniamo o no come maghi della tecnica, bensì creare una continuità vivente nel pezzo. Non sempre ci riusciamo, ma l'esecuzione offerta è sempre la più "calda". L'idea di Gould - che non ci sia nulla di male a tagliare e cucire il nastro - ha una certa validità razionale; ma in effetti già da molti anni aveva scelto di rinunciare alla musica che vuole comunicare con un pubblico vivo. Per noi, o per me, l'idea di arrivare agli altri è di estrema importanza. Pur avendo fatto del nostro meglio durante ogni registrazione, non ci siamo mai sentiti come quando suoniamo davanti a un pubblico attento e avvertiamo un silenzio quasi tangibile quando sulla scena avviene qualcosa di magico».
Può essere curioso confrontare l'opinione di Earl Carlyss, più giovane di Mann di ben ventun'anni, apparsa nella stessa intervista: «Mi piace l'allestimento tradizionale delle registrazioni in studio, più che ai miei colleghi. Trovo ci sia una sfida estetica nel cercare di ricreare l'atmosfera di un'esecuzione pubblica. Sono due universi del tutto differenti, e le possibilità sembrano inesauribili››. Carlyss giungeva al Juilliard dopo che per otto anni il suo posto era stato di Isidore Cohen, che nel '68 avrebbe sostituito Guilet nel Beaux Arts. Allievo del persiano Ivan Galamian, un insegnante analitico e razionale se mai ve ne furono, Cohen è molto dissimile dai condiscepoli (tra i quali si contano Miriam Fried, Laredo, Perlman, Zukerman, Rabin e Kyung-Wha-Chung): la sua tecnica è piuttosto antiquata e il fraseggio spezzato, spesso "nota per nota", lo obbliga a un uso di corte, onnipresenti "poussèes d'archet" dalle quali consegue una condotta un po' imprecisa. Artista intelligente, è sempre capace di amalgamare pregi e difetti in prestazioni., di indubbia professionalità, ma il suo pur onesto apporto Juilliard è difficilmente comparabile alle grandi figure che gli sono state vicino.
Tre anni dopo l'arrivo di Carlyss, Hillyer decise di dedicarsi all'insegnamento, formando tra gli altri il Tokio, il Panoche, il Varsovia, il Kreutzberg e l'Eder, affiancato dalla moglie Kazuko Tatsumura, impresaria meritevole di aver sviluppato gli scambi artistici tra America e Asia. In quel periodo la presenza di Carlyss innestò una sorta di reazione in seno al gruppo: amava tempi rapidi e si confrontava volentieri con il robusto vitalismo di  Adam. Ma il suo fraseggio non aveva la finezza dei colleghi e si basava sul rilievo degli accenti, contrastando con l'accuratezza lirica di Mann e Hillyer, in modo lontanissimo dall'amalgama possente e meditata della formazione del '46 (ascoltate, per esempio, l'Op. 96 di Dvorak).
L'inserto di Samuel Rhodes, nel 1969, riuscì sorprendentemente a riequilibrare le parti e il suo Peregrino Zanetto (uno strumento molto raro, dal suono velato, misterioso) arricchì il timbro generale di una maggiore intimità. Rhodes proveniva dal Quartetto Galimir, aveva studiato con .quello straordinario ricercatore che fu Sydney Beck e con Walter Trampler (quello della Sequenza VI di Berio). Il suo modo di affrontare l'interpretazione, la lettura di certi dati storici, lo avvicinava in maniera speciale a Mann. Nel frattempo Adam aveva lasciato il Juilliard per dedicarsi interamente alla composizione: il primo lavoro che lo impegnò nel 1974 fu - evidentemente - un quartetto. Premi e onorificenze hanno accompagnato il lavoro nei nove anni che gli restavano da vivere.
Gli successe Joel Krosnick, allievo suo e di Luigi Silva, un grande maestro fuggitivo in America nel 1938 tra la costernazione degli amici, tra i quali era mio nonno: uno dei tanti "regali" che una dittatura ottusa ha potuto fare all'arte. Coetaneo di Rhodes e di Carlyss, Krosnick - uno dei fondatori del Group for Contemporary Music della Columbia University - aveva insegnato alle Università dello Iowa e del Massachussets, e al California Institute of Arts. Straordinariamente agile, dotato di un'intonazione magnifica e di un bel timbro non molto potente, sa affrontare il repertorio contemporaneo con disinvoltura. Ciò risalta nella registrazione dei quartetti di Carter, il secondo e il terzo dei quali (di gran lunga i più geniali) sono stati dati in prima esecuzione proprio dal Juilliard. Di Carter, Mann aveva in repertorio il Duo per violino e piano, e Krosnick aveva inciso la Sonata per violoncello (è stato anche il primo interprete del Concerto di Ligeti).
Nelle affermazioni di Krosnick contenute nella solita intervista è facile individuare la lunga pratica con le partiture contemporanee, sia per il vocabolario utilizzato, sia per uno specifico procedimento speculativo: «Il nostro punto di partenza è di creare una continuità drammatica, ogni volta che suoniamo, riesaminiamo e definiamo ulteriormente il nostro approccio, soprattutto riguardo alle indicazioni originali di tempo; abbiamo rivisto le nostre posizioni nei confronti delle istanza armoniche, in opposizione alla pura bellezza del suono, realizzando una integrazione assai personale di diversi elementi. Qualcuno si accorgerà, forse marginalmente, della presenza di alcuni dettagli usati per interpretare materiale simile in modo differente ogni volta che ricompare; dettagli che un pubblico non sarà capace di individuare. Ma l'artista sa dove sta andando ed è profondamente coinvolto in questa integrazione di tutti gli elementi in un insieme emotivamente persuasivo».
Accanto all'attività del quartetto, gli anni '80 hanno visto Mann impegnato col Lyric Trio (Mann, sua moglie Lucy Rowan - voce recitante - e un pianista) per il quale ha composto un vasto repertorio; e con il Mann Duo, insieme al figlio Nicholas, anch'egli violinista. E del 1980 data la sua prima integrale delle Sonate di Beethoven con Emanuel Ax. La formazione attuale vede Joel Smirnoff al posto di Carlyss dal 1986, quarantesimo anniversario del Juilliard; o dovrei dire del primo dei Juilliard? Quanti Rubinstein, Menuhin, Bernstein sono cambiati col tempo senza sollevare simili interrogativi! E comunque, prima di cercare una risposta, si dovrà vedere se la durevole influenza dell'insegnamento di Mann si cancellerà mai dallo stile, dall'arte del Juilliard Quartet.
Gregorio Nardi
("Symphonia" N° 52 Anno VI, Luglio 1995)

domenica, febbraio 09, 2025

La Reverdie: Musica antica tra passione e ricerca


Due coppie di sorelle - Claudia e Livia Caffagni, Elisabetta ed Ella De' Mircovich -, uno dei più abili suonatori di cornetto muto della scena internazionale - Doron David Sherwin -, alcuni ospiti a pieno titolo inseriti nel gruppo e coinvolti nei vari progetti- Claudia Pasetto, Matteo Zenatti, Elena Bertuzzi, e diversi altri - una grande capacita di coinvolgere e di emozionare. La Reverdie è una delle più belle realtà della musica antica italiana. Li abbiamo incontrati poco prima di un concerto e, attraverso le parole di Ella De' Mircovich e Claudia Caffagni, abbiamo cercato di tracciare un loro profilo.

Cominciamo con una banalità. Come nasce La Reverdie e perché La Reverdie, ossia il nome...
Il nome è un retaggio del tempo antico, quando eravamo più giovani, e voleva richiamare il verdeggiamento implicito in un termine usato per quel genere medievale che canta il ritorno della primavera. Ci pareva che, oltre a essere di buon auspicio, riflettesse un certo senso di novità e di freschezza: eravamo vogliosi e in parte sicuri di poter contribuire a uno svecchiamento di ciò che si faceva sulla scena della musica medievale. Effettivamente in seguito abbiamo pensato più volte di apportare modifiche al nome, perché il senso della verzura è passato... Però, come capita, ci si affeziona. Dobbiamo dire infine che il colore verde ci piaceva e ci piace tuttora. In ogni caso, il termine rimanda a un genere letterario e quindi musicale.
Il vostro gruppo è nato, come spesso capita, in conservatorio? Come si e formato?
Ha delle basi genealogiche, in quanto il nucleo si è formato attraverso l'incontro di due coppie di sorelle ed è nato, come tanti gruppi di musica medievale o di musica antica in genere, attraverso la frequentazione parallela di altri gruppi. All'epoca, fine anni Settanta primi anni Ottanta, c'era un grande fermento e questi gruppi spesso si rimescolavano. Noi ci siamo conosciute, fra sorelle, in un gruppo che non esiste più e in effetti il nucleo iniziale de La Reverdie era diverso: una sorella di ciascuna coppia, io - Ella - e Claudia - Caffagni -, più un liutista. Nell'86 c'è stata la crisi che ha fatto precipitare - in senso chimico - la soluzione. Giorgio Albertazzi stava intraprendendo una sorta di tournée con annesso stage per giovani attori, il tutto incentrato su Federico II di Svevia. Erano previsti avvenimenti collaterali e vi era l'intenzione di mettere su un evento musicale autonomo rispetto allo spettacolo. In quel caso, dato che La Reverdie primigenea in realtà faceva un repertorio non proprio fine Medioevo-primo Rinascimento, abbiamo operato per così dire una virata repertoriale chiamando le due rispettive sorelle che si sono prestate a questo gioco. Abbiamo compiuto una lunga tournée fra la Puglia, la Basilicata e la Campania, nei molti castelli di Federico II, abbiamo visto che il gruppo era compatto e cosi è iniziata La Reverdie in senso stretto.
Di quante persone consta ora effettivamente il gruppo?
Possiamo dire che il gruppo originario era composto stabilmente dalle due coppie di sorelle. Poi nel 1993 ha iniziato a collaborare con noi in maniera praticamente stabile - se non altro nei progetti principali - Doron David Sherwin, famoso cornettista che per altro abbiamo inglobato nella formazione usufruendone non solo in qualità di suonatore di cornetto muto, la versione più arcaica del cornetto, ma anche come cantante e percussionista. A dir la verità lavoravamo così bene tra noi che non ci nascondevamo un po' il timore di aprirci ad altre collaborazioni: c'era quest'aria di famiglia difficile da spezzare e un senso, per cosi dire, di autarchia. In seguito, volendo ampliare il repertorio, abbiamo iniziato a collaborare con altri cantanti in vista di progetti più grandi: in particolare abbiamo iniziato delle collaborazioni esterne per allestire programmi dedicati alle laude italiane per le quali non si poteva pensare solo a un nucleo di voci femminili con una sola voce maschile di supporto. Volevamo un effetto di coro misto e per forza di cose abbiamo cercato la collaborazione con diversi cantanti. Successivamente c'è stato un progetto con i Cantori Gregoriani diretti da Fulvio Rampi: una collaborazione tra gruppi, e non solo aggiunta di persone singole. Quell'esperienza ci ha convinto che in caso di necessità poteva essere molto fruttuoso lavorare con altre persone od organismi. Per certi versi, più persone vengono coinvolte in un progetto e più varietà di soluzioni è possibile ottenere. Naturalmente ci deve essere sintonia e affinità.
Siete principalmente un gruppo vocale, ma con un ricercato abbinamento strumentale. Inoltre, tutti gli esponenti del gruppo cantano. Scorrendo sulle note di copertina si nota appunto: voci e strumenti. Questo non capita molto spesso, credo... Come scegliete le strumentazioni dei brani che desiderate interpretare?
Crediamo che il discorso debba essere capovolto, nel senso che il gruppo nacque quasi più come gruppo strumentale che come vocale: all'inizio le due sorelle De Mircovich cantavano e suonavano, mentre gli altri suonavano. C`è da dire comunque che il concetto di cantante-strumentista di per sé è molto medievale, nonostante possa sembrare invenzione moderna se pensiamo al fenomeno dei cantautori... In realtà noi abbiamo determinate competenze strumentali e in base a quelle operiamo le nostre scelte musicali. Per intenderci, non ci metteremo mai a far musica da strada visto che nel nostro organico nessuno suona le bombarde o le grosse percussioni. Dallo strumentario e dagli impasti vocali a disposizione optiamo per un tipo di repertorio piuttosto che un altro avvalendoci anche dello studio delle fonti iconografiche, letterarie e documentarie in genere che autorizzano delle scelte.
Avete avuto dei punti di riferimento che vi hanno messo sulla strada sulla quale ora state viaggiando? Mi riferisco ad artisti, a gruppi o a figure carismatiche...
Possiamo dire che ognuno di noi ha avuto dei rapporti, anche affettivi, con alcuni esponenti di punta della scena della musica antica, però non so quanto poi realmente abbiano influenzato il nostro stile. Possono forse averci influenzato nella voglia di fare, nel fascino, nell'ispirazione. Essendo questo un gruppo senza direttore, ognuno di noi porta qualcosa del suo background all'interno della formazione, anche esperienze che con la musica antica o medievale hanno poco a che fare. C'è quindi un apporto complessivo per cui alla fine i riferimenti si sfilacciano, ed è difficile rintracciarne uno solo. Crediamo che il nostro stile, il nostro modo di interpretare e di fare musica medievale, come d'altronde succede a molti gruppi, è il risultato del contributo dei componenti.
Siete quindi un gruppo sostanzialmente "democratico"...
Direi di sì.
Ed è facile o difficile?
Direi che si fa tanta confusione, per lo meno sulle prime! La democrazia è faticosa e disordinata, ma alla fine, secondo noi, l'apporto di tutti fa crescere indubbiamente il livello complessivo. Ognuno si sente parte in causa ed è portato per questo a dare il massimo. E poi comunque il confronto aumenta la flessibilità: crediamo sia uno dei punti forti di questo approccio, proprio perché sono diverse le teste che pensano. Vi è così un'enorme adattabilità e flessibilità e anche mutevolezza nel tempo, non ci si cristallizza mai, anche stilisticamente. Tutto questo a seconda del repertorio, a seconda degli umori e anche a seconda di interessi specifici che si sono via via sviluppati nelle singole persone e che sono stati riversati nel lavoro comune da cui poi scaturisce il 'suono' del gruppo.
Detto questo, come decidete il repertorio da affrontare? Puntate sulle monografie - come nel CD dedicato a Dufay e dintorni -, sui temi specifici (Voyage en Italie) - come nell'ultimo uscito dedicato l'immagine di Maria nell'opera di Hildegard von Bingen - oppure dipende dal periodo o dai vostri interessi contingenti?
Ci sono state delle fasi: inizialmente, forse anche per le circostanze in cui nacque il gruppo, avevamo intrapreso questo filone delle miscellanee a tema non obbligatoriamente musicale. Ad esempio il ciclo dedicato a Federico II reale e immaginario che però non è mai stato inciso. Poi ci sono stati, tra gli altri: Bestiarium, Insula feminarum, Suso in Italia bella, O tu cara scienza, tutta una serie di programmi e di proposte in cui confluivano repertori anche diversi sia geograficamente sia storicamente, - comunque sempre nell'ambito del periodo medievale, diciamo entro la fine del Trecento - in cui i pezzi erano in qualche modo connessi da motivi testuali. Ci interessava il filo rosso dell'argomento, del tema da sviscerare. Poi, diciamo dalla metà degli anni Novanta, abbiamo iniziato a occuparci anche di monografie che potevano essere dedicate a un genere o a un autore, oppure a un aspetto particolare di un autore, come nel caso del programma su Ildegarda von Bingen, inciso nel 1999 e uscito in questo periodo. Adesso stiamo lavorando a un progetto su Jacopo da Bologna. C'è però da dire una cosa: spesso, proprio perché c'è un`apertura a quello che succede intorno, l'interesse verso un autore o un tema non nasce solo ed esclusivamente per iniziativa interna. Nox Lux, il disco precedente a Dufay, è un programma commissionato da un festival che era interessato a un tema vicino a quello che poi abbiamo enucleato in quel modo, cioè il contrasto tra notte e giorno, morte e vita. Tutto sommato anche la spinta verso Dufay è nata così. Il Festival di Modena voleva che noi producessimo un programma che avesse attinenze con la città. Una cospicua parte del repertorio che Dufay ha composto nel suo periodo italiano è contenuto in uno dei due importanti manoscritti di Modena, quello che viene chiamato genericamente «Mod B», un manoscritto strettamente legato alla famiglia estense. Quindi, una richiesta esplicita di un festival si è trasformata in idea e poi in un programma che legasse un compositore a un manoscritto, a un ambiente e a un territorio.
Il gruppo incide con un'etichetta francese, la Arcana. Come è in Italia la situazione della cosiddetta musica antica dal punto di vista discografico?
La situazione non è facile, indubbiamente, ma anche al di fuori dell'Italia le cose non è che vadano molto meglio. Parlando ultimamente con Michel Bernstein, editore e proprietario della Arcana, abbiamo convenuto sul fatto che forse la grande crisi delle multinazionali del disco, soprattutto sul versante colto, porterà forse a una maggiore apertura nei confronti delle case che trattano prodotti particolari. È chiaro che un nostro disco non venderà mai più di un certo numero di copie, ma forse con una certa oculatezza e una politica meno dispersiva ci sarà modo per un rilancio delle piccole case discografiche che puntano sulla qualità e su repertori particolari. Per quanto riguarda nello specifico il mondo discografico italiano non sapremmo cosa dire visto che sono anni che non abbiamo più a che fare con case italiane.
Siete subito riusciti a trovare contratti con una casa discografica straniera?
Sempre con la stessa, ossia la Arcana. Abbiamo registrato a suo tempo un CD con Nuova Era e poi con un'etichetta che si chiamava Giulia. Quindi abbiamo avuto la fortuna di essere stati e di essere tuttora aiutati dalla WDR, la Westdeutsche Rundfunk, una emittente tedesca che praticamente dal 1994 sponsorizza tutti i nostri dischi e questo ci facilita la vita non poco!
Spesso e volentieri, soprattutto per quanto riguarda le epoche lontane, il musicista tende a essere anche musicologo. Come vi siete preparati, per esempio, affrontando il viaggio attraverso Dufay e dintorni? Che lavoro c'è dietro, anche a livello di decisioni da affrontare? Sappiamo tutti che la musica lontana nel tempo è quella che maggiormente necessita, per forza di cose, di una vera e propria reinvenzione...
Alcuni anni fa, in qualche modo “costretti” da una serie di seminari e conferenze che ci avevano chiesto di fare, dopo circa una decina d'anni di lavoro ci siamo messi a tavolino per chiederci con sistematicità che cosa in effetti stavamo facendo, come e perché. Questo ci ha portato a fare una serie di riflessioni sul metodo e soprattutto sugli obiettivi. Riteniamo che l'operazione da noi svolta sia in qualche modo un'operazione di restauro di un'originale che non avremo mai e che nessuno mai avrà. L'avvicinamento a quest'ipotetico originale, che in quanto ipotetico è piuttosto problematico, avviene a vari livelli. Il primo però, nonostante tutto, è proprio quello emozionale. Il concetto di autenticità non ci appartiene e non appartiene al tipo di lavoro che noi svolgiamo. Possiamo fare e ovviamente facciamo tutta una serie di analisi e di studi condotti in maniera filologica e quindi con gli strumenti della musicologia - elenchiamo alla rinfusa le tappe che possono essere: il recupero delle fonti originali, la conoscenza delle notazioni, la conoscenza di tutti i documenti collaterali secondari che ci possono aiutare a capire il contesto, il modo, la destinazione, lo strumentario, il tipo di vocalità anche se, soprattutto quest'ultimo addentellato diventa difficilissimo perché esclusivamente indiziario - però una volta acquisite le informazioni ed esaurite tutte queste tappe, alla fine, giustamente, si fa musica. E fare musica significa portare dei segni e delle testimonianze a nuova vita, liberarsi dalla rigidezza attraverso l`esecuzione e infine, cosa fondamentale, tener conto del pubblico di oggi. Ad esempio, puoi produrre un certo suono che nel Trecento era ritenuto dolce: hai la fonte che giustifica ciò, e il pubblico reagiva in una certa maniera. Magari oggi il pubblico moderno percepisce quel tipo di suono come violento e aggressivo. Sarebbe, in tal caso inutile insistere su un certo tipo di sonorità se questa in uscita viene letta diversamente. Certo, si può avvertire il pubblico ad adeguarsi, però è bene che chi fa musica non privatamente tenga conto dell'eventuale risposta di un pubblico, probabilmente anche poco omogeneo. Noi cerchiamo sempre di metterci nei panni di chi ascolta. Nel caso specifico del disco di Dufay, è stato fatto un grosso lavoro sulle fonti, anche perché le trascrizioni moderne dell'opera di Dufay - che risalgono agli anni Cinquanta - sono state fatte particolarmente male, con una notevole quantità di errori. Tra l'altro, volendo avere un occhio di riguardo nei confronti del manoscritto di Modena, non sempre i pezzi di Dufay di quel manoscritto erano stati svolti in notazione moderna. Abbiamo quindi operato un lavoro di comparazione con altre fonti. Tra i tanti contributi esterni che ci hanno aiutato ad arricchire il nostro modo di pensare, e di lavorare sulle fonti scritte, è stato importante l'aver collaborato a lungo con semiologi gregoriani della portata e dell'amorevolezza dei Cantori Gregoriani. Forse in quell'ambito il rigore è portato veramente a sfere inimmaginabili, però effettivamente ci siamo accorti noi stessi durante le prime collaborazioni che semplicemente leggendo da un manoscritto piuttosto che da un altro i risultati mutano in maniera sconcertante. In sostanza, non c'è solo in ballo la questione del capire come un testo musicale venisse notato, e che l'esecuzione muta quando il supporto musicale da cui si legge è diverso e uno veramente si da pena di capire che rapporto c'è con l'informazione codificata.
In generale, che differenze trovate tra il pubblico italiano e quello non italiano per quanto riguarda la ricezione del vostro repertorio? Vi sono differenze?
Dobbiamo dire di essere fortunati, visto che in genere il pubblico ai nostri concerti risponde sempre con grande calore. In Portogallo abbiamo notato un entusiasmo forse superiore alla media, ma anche in Francia, dove c'è un grande interesse per la musica medievale, rinascimentale e barocca. La cosa che forse distingue i concerti italiani rispetto a quelli degli altri paesi europei è la frequentazione: le sale all'estero normalmente sono piene, in Italia non sempre si riempiono. Se si tratta di rassegne che hanno un bacino di utenza consolidato, le cose cambiano. Direi che tendenzialmente, rispetto a quando abbiamo iniziato, la moda del Medioevo ha un poco migliorato le cose. Certe mode, sebbene spesso confezionate ad arte, hanno però contribuito a fare del bene e a creare una maggiore consapevolezza nei confronti della musica antica, o quanto meno a innescare processi di curiosità che non possono che essere salutari.
Avete mai provato per gioco o per spirito a fare musica di altro tipo, moderna o contemporanea?
A parte i gusti personali di ognuno, l'unica cosa eccentrica rispetto ai percorsi tipici del gruppo è stata una collaborazione con Franco Battiato nel 1999. Abbiamo cantato un suo brano per quattro voci femminili, una base e una voce recitante in uno stile 'pseudo-antico', modale, con degli agganci dotti. Il brano doveva fare parte di un'opera che non è stata più incisa nonostante diverso materiale sia stato eseguito in tournée.
Intervista di Ennio Speranza
("Falstaff", numero 2, 2004)