Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, aprile 07, 2006

Il teatrino dei critici

Un giovane fantasma ("giovane" come la Coca Cola e altrettanto effervescente) si aggira instancabile negli stadi e nei teatri tenda, percorre frenetico i corridoi delle sedi televisive, le redazioni dei quotidiani e dei periodici. Che cosa cerca? Cerca di "dire la sua" sul rock, sul funk, sulla soul music, sul rap e sul rockabilly, sul country, sull'house music, sull'Acid e su tutte le altre etichette che verranno. Questo fantasma, questa figura inattendibile, questa finzione è il "critico di musica leggera". Ricava il suo statuto di critico dalla possibilità di esprimere in luogo pubblico le istanze di un gruppo che vuole riconoscersi, affermare la propria presenza sul piano del costume, non già e non tanto sul piano musicale.
Un fantasma meno "giovane", ma più severo, altrettanto inattendibile, custode rigoroso di un genere ghettizzato, è invece il "critico di jaazz", "l'esperto in grado di identificare qualsiasi band, che s'immerge nella storia del jazz come se fosse la storia della grazia divina" (Adorno). Il suo status è quello di guida e garante di un pubblico di collezionisti: di qui un "sapere" fatto di date, della composizione di un gruppo o di un'orchestra, del pedinamento di un artista di jazz dai primi passi agli ultimi. La sua missione è cogliere i "travisamenti ", i tradimenti del genere, custodire la "purezza" del jazz in un cerchio chiuso che è insieme la garanzia della sua "professione" di "critico" e il rifugio delle sue "frustazioni culturali".
Entrambe queste figure di critico appartengono a quel feticismo che Adorno ha identificato nel 1939 ("Il carattere di feticcio in musica") più o meno nel periodo in cui Walter Benjamin esplorava l'opera d'arte nell'era della riproducibilità tecnica.
Nel teatrino dei Buffi che avevo immaginato per questo piccolo saggio una terza autorevole figura si univa a quelle che ho descritto: il "critico trasversale", ma di questo parlerò in seguito. Per ora torniamo indietro, a quelle due figure impossibili.
Tutti esprimiamo e pronunciamo giudizi, non per questo siamo critici. Quando lo si diventa? Quando il giudizio appare fondato su un'estetica e quando questa stessa estetica viene ricavata, estratta, dall'arte a cui si rivolge. Ora, tanti libri sul jazz e sul rock si sono allineati nella mia biblioteca, qualche volta utili: non solo l'estetica, ma anche la sociologia, la storia e l'etnomusicologia, sono "punti di vista" attendibili. Dunque i libri di Leroi Jones (Blues People Black Music), A.B. Spellman (Four lives in Bebop business), in Usa, di Giampiero Cane (Canto nero) e Carles-Comolli (Free jazz/black power), in Europa, offrono molti spunti di riflessione per quanto riguarda il jazz e così altri che non cito. Eppure jazz e rock aspettano ancora di esser liberati all'ascolto, di essere compresi su un piano musicale/estetico.
A questo punto mi serviva la figura di un "demiurgo cattivo", possibilmente tedesco, in cui la parola "fondamento" suonasse (già, "suonasse") "Grund".
Adorno ha dedicato diversi studi alla musica "pop" e al jazz, eppure anche i saggi del fine e geniale "croulant" di Francoforte non sono di molto aiuto, anzi "chiudono" ancora di più. Com'è possibile questo? Adorno ha descritto benissimo l'ambiente culturale da cui il jazz traeva legittimazione, lo ha - per così dire - smontato, eppure non ha colto il jazz né come sintomo né come fattore di mutamento.
Basta leggere oltre al saggio sopracitato, che apre Dissonanze, quello contenuto in Prismi, intitolato "La moda senza tempo" e sottotitolato "Sul jazz". Questo saggio è del 1953. Il jazz, qui e altrove, è visto come forma di "regresso" musicale, il musicista diventa "musicant", quello del jazzband è un "suono eunucoide", e tuttavia noi non sappiamo di che tipo di jazz stia parlando Adorno, quali artisti avesse in mente. Il 1953, come data, significa che sono già apparsi in scena Charlie Parker e Thelonious Monk, Dizzy Gillespie e persino il giovane Miles Davis. Per non parlare di Max Roach e di altri percussionisti di genio. Adorno cita il Bebop: come si può definire "eunucoide" il suono di una musica espressa da "non-riconciliati"?
Allo stesso modo Adorno si pronuncia con forza contro la "canzonetta" nonostante Kurt Weill e Eisler vi si fossero cimentati con grazia, e nonostante fossero apparsi Gershwin e Irving Berlin (citati) così come Cole Porter. L'ostilità verso questo genere "facile" (che Shirley Verrett, tanti anni dopo, non saprà cantare), questo genere diffamato, deriva probabilmente in Adorno dagli Scritti sulla musica popolare di Bela Bartok, dove la musica contadina "popolare" (in dissolvimento con il folklore) viene opposta come valore alla musica cittadina "popolaresca", alla quale scrive Bartok nel 1931 - "manca insomma la vergine freschezza della primitività, manca quella che oggi si suol chiamare 'oggettività' e che io preferirei semplicemente dire 'assenza di sentimentalismo'".
Bartok auspica una musica colta che si rifaccia alla musica popolare, anche se non la considera "la sola speranza di salvezza". Qui si potrebbe notare (ma lo faremo brevemente, perché non è il luogo e il momento) che proprio in questo senso andrà il jazz dagli anni Cinquanta in poi, inglobando brandelli di folklore insieme a stracci di musica di consumo, e masticando il bolo fino a farlo essere altro.
Siamo così lontani da Adorno e dal suo metodo. Costruire la propria posizione estetica all'interno di una musica che viva di se stessa, che cresca su se stessa, che non varchi i propri confini, è qualcosa che appartiene all'anteguerra e all'immediato dopoguerra, quando i compositori non sono ancora "inventori di genio" e quando il mix filosofico-estetico di John Cage non è ancora apparso. C'è ancora il Doktor Faustus di Mann all'orizzonte.
Contrapporre la "purezza" della musica seria alla "degenerazione" della musica di massa prodotta dall'era della tecnica nasconde ciò che avviene. Il passaggio dal folklore, statico e chiuso in sé, a forme musicali spurie e in movimento, in cui la Musica ha smarrito la sua ragion d'essere e ha scelto la strada della facilità e della persuasione del pubblico, cela le nuove forme di resistenza che stanno nascendo all'interno della cultura di massa. Di fronte al medium che propaganda la musica (la radio, il disco) avviene un mutamento del quadro percettivo, per cui la musica si rende disponibile, ovvero usabile, al di fuori del contesto sociale che la esprime. Si avvicina il momento inevitabile di un sincretismo che muove dal basso, in cui la superproduzione incessante di nuovi modelli di consumo distoglie la musica dal signìficato e la rende mero significante. L'analisi di Adorno è fin qui illuminante: la musica "seria" com'egli la concepisce appare sicuramente minacciata, svuotata di senso, non solo in quanto viene percepita nella distrazione (tendenza sulla quale già Satie aveva ironizzato), ma perché ha cambiato luogo e contesto, è diventata arredamento.
Eppure non è così che il jazz veniva percepito in quegli anni da tanti artisti. Ciò che sorprende e indigna Adorno è proprio il fatto che in ambiente colto si potesse vedere il jazz quasi come "musica alternativa" e "contro, coniugandolo con il cubismo, la lirica di Eliot e la prosa di Joyce". E tuttavia sono proprio i pittori cubisti a dichiarare la loro parentela col jazz e non solo i cubisti: si vedano gli scritti di Piet Mondrian sull'importanza del jazz nella sua opera, e molto più tardi la posizione di De Stael.
Per quanto riguarda Eliot, poi, fu lo stesso poeta a cogliere affinità fra il jazz e il suo modo iniziale di poetare. Non sarebbe quindi stato il caso di interrogarsi su questa compatibilità e affinità e ancora sul perché il jazz avesse acquistato questa capacità di parlare e in che cosa consistesse?

Adorno immagina il cambiamento del quadro percettivo della musìca come conseguenza del capitalismo industriale, accelerato dall'avvento dei mezzi di massa. L'etnologo gli obietterebbe che si tratta di un processo molto più antico, oggi reso evidente, perché giunto alla conclusione. Secondo Lévi-Strauss "l'accademismo del significante", che poi è l'accademismo del linguaggio, appare già nella statuaria greca dopo il V secolo e nella pittura italiana dopo quella senese. Per quanto riguarda poi la musica e la pittura in questo secolo, Lévi-Strauss dice: "In uno Stravinsky e in un Picasso noi osserviamo una consumazione quasi bulimica di tutti i sistemi di segni che sono stati e sono utilizzati dall'umanità da quando possiede un'espressione artistica e ovunque ne possieda una". E aggiunge che nella società moderna l'artista non può conoscere gli altri linguaggi ma solo "scimmiottarli, darne una trasfigurazione del tutto illusoria, poiché non rimane altro che l'apparenza esteriore del segno: il messaggio evidentemente non è più là, messaggio non in senso metafisico ma secondo la teoria della comunicazione". In questo senso sì che si può accettare la definizione di Adorno del jazz come "manierismo dell'interpretazione".
Dove l'artista di una società "primitiva" si rifiuterebbe di deglutire il cibo del vicino, l'artista moderno sfoga la sua voracità dappertutto e in un continuo collage. Così l'annessione "estraniata" del folklore in Bartok e Stravinsky non è omogenea a quella dei jazz in artisti come Albert Ayler o John Coltrane? E quando John Cage cita Nietzsche ("la fratellanza intellettuale del genere umano") non legittima proprio questa libertà o meglio questa licenza? E che cosa ne sarebbe non solo della musica di Edgar Varèse o di Cage, ma anche di quella di Oliver Massiaen, nella griglia critica di Adorno? In quanto alla lotta fra jazz e business, il jazz ha perso, dunque sul piano artistico ha vinto. Sussiste ormai solo come forma d'arte, non come musica di consumo (è il rock ad essere in fuga perenne perché minacciato dal business). Forma d'arte all'interno di un sistema che è un immenso magazzino di "materiali musicali", dove ognuno prende ciò che gli serve, procedendo con cautela perché ormai i nomi non corrispondono più alle cose e le etichette sono state scambiate. Per cui presento quella terza figura del mio teatrino a cui avevo accennato: il "critico trasversale", come viene definito. E nel momento stesso in cui presento questa terza figura chiedo la sua sostituzione immediata con quella di un critico nuovo senza etichette che eserciti finalmente i suoi pieni poteri, un critico che detenga le chiavi di lettura dei generi, che si muova a suo agio fra Mingus e Minkus, fra Coleman e Xenakis.
Perché questo sia sempre più possibile (ancorché mi appaia inevitabile) occorre assumere in uno sguardo totale tutto l'orizzonte sonoro, nella sua compresenza, assai meglio di quanto non abbiano fatto Gunther Schuller o Wilfrid Mellers (nei suoi Musica nel Nuovo Mondo e Caliban reborn, che pure sono libri lodevoli).
Tutto è cambiato in musica da quando Adorno è morto. Che cos'è oggi l'emozione estetica, rispetto a quella dell'epoca in cui scriveva?
Non saprei dirlo, anche per motivi generazionali, se è vero, com'è vero, che "I can't imagine what the Duke of Wellington/would say about the music of Duke Ellington" (Auden: Letter to Byron). Posso però immaginare che cosa ne pensasse il Duca di Windsor, visto che con l'orchestra di Ellington sì esibì ìn un assolo di batteria.

Mario Nicolao (Musica Viva, Anno XIV n.8/9, agosto/settembre 1990)

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