Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, gennaio 12, 2008

Gavazzeni: l'ultimo Grande Vecchio

Con Gianandrea Gavazzeni scompare il decano dei direttori d'orchestra di casa nostra ma soprattutto l’ultima, importante, curiosissima bacchetta che conoscesse e tenesse vivi i segreti della musica e del melodramma italiano a cavallo fra Otto e Novecento. Segreti che sapeva ad uno ad uno, appresi direttamente ossia dai compositori o rivelati da fonti di prima mano, vissuti accanto ad Arturo Toscanini o Victor De Sabata e che ora il Grande Vecchio porta via con sé non potendoli più tramandare a nessuno. Di tutto ciò era ignaro il Tg2 delle 20.30 che il 5 febbraio scorso, lunedì, a poche ore dalla morte di Gavazzeni nella sua Bergamo, a 87 anni, ha liquidato la notizia in dieci parole e cinque secondi senza immagini (seguiva ampio servizio su non so quale rochettaro) mentre nei telegiornali di mezzasera Rai Uno è stata più dignitosa ancorché sparagnina e Rai Tre ha realizzato il migliore e meno asettico dei tre servizi (immagini, le stesse per le due reti: una conferenza stampa col direttore dietro ad un tavolo e i mirallegro al proscenio della Scala il 16 febbraio 1994 per La Rondine di Puccini). Commosso e accurato, a completare la rassegna, Enrico Mentana sul Tg 5, però, nuovamente, senza immagini.
Amante delle rarità, delle opere dimenticate cui lo spingeva anche un desiderio di giustizia, Gavazzeni si è congedato dal palcoscenico, lo scorso gennaio, nel piccolo teatro di Lugo di Romagna, col futurismo di Balilla Pratella ne L’aviatore Dro. Possedeva pure la chiave degli oratori di don Lorenzo Perosi, come il Transitus animae che con lui ritrovava la freschezza melodica catturante e l’inventiva armonica per cui il pretino di Tortona si ebbe una breve ma intensa stagione di gloria internazionale, o Il Natale del Redentore (al Carlo Felice di Genova, nel dicembre 1995, quando ebbe la bontà di accettare la mia dedica in testa ad uno scrittarello perosiano sui filtrati echi wagneriani di questa fine partitura). Conosceva pure, da Loreley alla Wally, il modo d’approccio verso il teatro di Alfredo Catalani: la sua squisita malinconia, la cifra colta e romantica di musicista civilissimo, certi echi dell’uomo sfortunato, tanto caro a Toscanini. Non temeva il cimento con Cherubini o Bruckner in anni di pollice verso per i due autori. Negli oltre sessant’anni di podio, da quando, non ancora ventiquattrenne, il 23 giugno 1933, aveva esordito a Torino con l’orchestra dell’Eiar, si era fatto paladino della “Giovine Scuola”. Di Leoncavallo e Mascagni, di Cilea e Giordano (alla Scala, nel ’93, la Fedora che avrebbe dovuto riprendere quest’anno), da grande maestro, con la bacchetta e la penna del saggista, di Decadentismo e Verismo. Naturalmente di Puccini, “quel lucchese astutissimo”, come lo definì una volta indicando strategie drammaturgiche calcolatissime e infallibili, il quale Puccini però dista anni luce dai Leoncavallo per statura creativa, dimensione europea e appartenenza al XX secolo. Proprio come ogni interpretazione di Gavazzeni, specie negli ultimi, straordinari anni, lasciava intendere: ora col tranquillo lasciar scorrere il Tabarro, per quanto di pièce noire si tratti (come a dire: il sor Giacomo, “astutissimo”, non ha bisogno di sottolineature a lapis rosso), ora, come in una non dimenticata riproposta di Bohème alla Scala con una sempreverde Mirella Freni (e Roberto Alagna: settembre ’94), immettendo canto e vicenda in fluviali ondate sinfoniche degne di Wagner.
Così, ripescasse Parisina dal limbo, come aveva fatto all’Opera di Roma, o mettesse in cantiere più usuali Pagliacci - la prima volta, curiosamente, nel ’95: al Carlo Felice da “deb” ottuagenario - ogni “accelerando” e “rallentando” erano un dato di natura (quei misteri di cui si diceva) per la loro esattissima funzione strutturale ed espressiva mentre la partecipazione di Gavazzeni interprete suonava forte ma naturale proprio come l’aveva pensata l’autore. A volte persino più naturale, data la capacità - quei Pagliacci genovesi - di trasparenza, levità ed asciuttezza, con l’Intermezzo sinfonico ridotto all’osso, tali da situare un’opera tutta ammazzamenti e sfoghi canori in una luce completamente nuova. Da decano e innamorato di Verdi, secondo la lezione del suo maestro Pizzetti, Gavazzeni aveva diretto una montagna di opere (concerti, meno, purtroppo; e dischi troppo pochi). Aveva lavorato assieme a cantanti come Magda Olivero, Giulietta Simionato e Maria Callas in spettacoli memorabili, anche come direttore principale della Scala (fino al ’68, quando vi fu un brusco divorzio) e con la Scala in tournée (in Russia nell’ultimo mese del Governo di Krusciov come nell’Era Gorbaciov).
Il suo cruccio, però, accantonata definitivamente la composizione (influsso di Pizzetti, elementi popolareschi, lavori sinfonici, da camera e teatrali), era la montagna di libri, in aggiunta a quelli divorati nei decenni, che si sognava di notte: la paura di non fare a tempo a leggerli tutti, di raggiungere impreparato gli amici poeti, romanzieri e critici letterari d’una vita: da Montale a Sereni a Bacchelli e Giuseppe De Robertis. Perché lui era fatto così: di due anime. La prima svelava il musicista concreto, solido, di prove su prove tanto che la Simionato, volitiva come sempre, aveva coniato l’affettuoso soprannome di “pignolone d’oro”; l’artigiano e l’uomo di ruvida schiettezza bergamasca che tirava corto in tivù (“la preparazione di un’opera non deve interessare il pubblico: sono faccende nostre”) o in conferenza stampa come per la menzionata Rondine scaligera: “Della mia interpretazione non vi dico niente. Se sono riuscito a tradurla nell’esecuzione, lo capirete da soli, sennò a che serve parlarne?”. L’altra anima era quella del lettore onnivoro e dello scrittore di razza: attento alle voci che ascoltava dalla Città Alta (le campane, la natura, gli artisti: non solo Donizetti che pure prediligeva), l’autore di decine e decine di saggi raccolti in volume sino al recente Scena e controscena (Rizzoli) e di centinaia di pagine di diario: le quasi novecento dell’arco 1950-1976 pubblicate da Einaudi nel ’92 come Il sipario rosso: un diario pubblico e non intimo con supremo modello il Journal di André Gide; “diario scritto su quaderni giallini o color avorio scuro nelle amate case di Bergamo e Baveno, ma anche, durante le tournée, negli alberghi dove il maestro ha passato una vita [...] ogni volta nella stessa stanza perché il maestro è consuetudinario e vuole ritrovare, con quel letto, quel tavolo, quella specchiera, l’atmosfera, la luce e i colori lasciati negli ultimi soggiorni” come esordisce lo scritto introduttivo di Corrado Stajano.
Una vita disciplinatissima. “Al mattino, sveglia presto. Acquisto e lettura della stampa quotidiana, perché alle otto voglio essere già imbottito d’amarezza. Poi, pulizia della mente con una sosta alla lettura di Bach al pianoforte”: il Clavicembalo ben temperato revisione Busoni. Questa immersione nel sociale - “ho sempre voluto stare dentro la vita del nostro tempo” - e rigenerazione attraverso la pratica musicale, pianoforte o orchestra, Gavazzeni la maturò col padre, celebre penalista, deputato per il Partito Popolare dal ’19 sino all’Aventino, la cui casa era frequentata da De Gasperi, Gronchi e anche don Sturzo e dove si parlava di politica ma anche di letteratura e di musica coinvolgendo Gianandrea ragazzino anziché spedirlo a letto. Più che Verdi e Mascagni, a Gavazzeni diede una pubblicità tanto indesiderata quanto tenuta a bada con energia - “sono fatti nostri” - il matrimonio che contrasse nel ’91, a 82 anni, rimasto vedovo il gennaio dell’anno prima, col trentottenne soprano Denia Mazzola da Bottanuco, una piccola borgata della cosiddetta isola bergamasca. Galeotta fu la Scala e una Bohème, guarda caso. Da queste nozze Gavazzeni si ebbe una seconda giovinezza, umana e artistica, con tante avventure, musicali e no, stimolate dalla moglie. Che definì il suo legame col maestro “il più grosso regalo che il Padreterno poteva farmi” mentre i pettegoli, lentamente, furono costretti a farsi i fatti propri e rispettare le scelte altrui.
Un ricordo nel ricordo che riguarda anche Puccini e La bohème. L’incontro con Arturo Toscanini ottantasettenne, di cui riferisce una pagina di diario de Il sipario rosso datata Baveno, 26 agosto 1954. Eccolo:
Visita ad Arturo Toscanini, a tre anni dall’altra. Ancora gagliardo il viso, senza traccia di decadimento. Si lagna per la diminuita capacità visiva che gli impedisce la lettura. La conversazione è vivissima, infuocata nel ricordo musicale. Soltanto qualche sforzo nella citazione d’alcuni nomi. Per il resto, la stessa lucidità intorno ai problemi interpretativi. E ancora il maggior calore che si accende nel riferimento operistico. Di nuovo la scarsa simpatia per Puccini, a insistere. Non ammette che in una forma operistica come la sua, il compositore si valesse di materiali sonori annotati o composti in brani antecedenti. La sorpresa sgradita, per Toscanini, di sapere che la musica accompagnante le parole di Mimì: “Addio dolce svegliare alla mattina”, non era nata per quel momento teatrale, per quelle stesse parole del testo. Gli osservo che, ciò nonostante, tutto è valido e vivente nella Bohème. Sorvola. Ribadisce l’inadeguatezza di melodie come “Nei cieli bigi...” e “Talor dal mio forziere”.

di Alberto Cantù (Musicaaa!, Anno II - Numero 4, Gennaio-Aprile 1996)

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