Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
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domenica, maggio 29, 2011

Philip Glass: introduzione

"Una storia consapevole del proprio valore è sorretta dalla convinzione forse presuntuosa - che si possono sfruttare le esperienze del proprio tempo senza condividerne le cecità. (Carl Dahlhaus)

Nel Novecento il grande fermento culturale rappresentato dalle Avanguardie in Europa prima e negli Stati Uniti poi, ha prodotto espressioni artistiche che sempre più hanno teso - e tendono tutt'oggi ~ alla commistione di quei generi che si sono affermati e codificati nel secolo precedente (dal melodramma alla musica strumentale, dal teatro di prosa ai primi esperimenti cinematografici), creandone di nuovi (come l'happening, per esempio). Questa tendenza si evidenzia maggiormente in un ambito come quello teatrale, nel quale diverse forme artistiche concorrono a creare un'opera più o meno unitaria.
Proprio Philip Glass, esponente della corrente sperimentale denominata minimalísmo musicale, è stato - fra i musicisti appartenuti all'avanguardia degli anni Sessanta e Settanta - tra quelli che più hanno operato a stretto contatto con l'ambito teatrale nelle sue varie forme, facendone il nucleo della propria attività. Egli, inoltre, ha ottenuto un successo di pubblico decisamente raro se confrontato con la popolarità, in certi casi molto limitata, raccolta dai suoi colleghi di estrazione colta. Cresciuto e formatosi nell'ambiente culturale e artistico del quale, all'inizio di questo percorso, tracceremo le caratteristiche principali, Glass ha elaborato una propria estetica musicale, generalmente identificata con quella corrente chiamata appunto minimalista che, se da un lato è condivisa da altri compositori come La Monte Young, Terry Riley e Steve Reich, dall'altro è il frutto delle personali esperienze che egli ha maturato proprio nell'ambito del teatro in generale, e di quello di prosa in particolare. La sua carriera, iniziata come compositore di musiche di scena, ha portato Glass ad ampliare successivamente la propria attività, operando anche in altri campi, come sottolinea lo stesso compositore: "Sono passati [quasi quarant'anni] da quando ho
cominciato a lavorare in teatro con la prima compagnia dei Mabou Mines, schierandomi decisamente dalla parte progressista del teatro sperimentale. Il punto cardine del mio lavoro è stato sempre la collaborazione, con una attività che a mano a mano si allargava ad includere il teatro musicale il cinema e la danza". A questi ambiti artistici vanno aggiunti i contatti con il mondo della letteratura - per esempio con Doris Lessing e con Allen Ginsberg (con il quale peraltro condivideva l'interesse per le filosofie orientali) - e con la popular music. Sono queste collaborazioni che hanno dato modo a Philip Glass di elaborare una personale estetica musicale, applicata in primo luogo alle musiche di scena composte per la stessa compagnia teatrale Mabou Mines; musiche che rappresentano nel loro insieme una sorta di campionario della concezione teatrale glassiana, utilizzate di volta in volta con funzioni che vanno dal semplice commento musicale (per esempio in Dressed Like an Egg), a elemento strutturale dell'intera, pièce (come in Red Horse Animation). Ancora, queste esperienze lo hanno portato a creare opere estremamente innovative, prima fra tutte Einstein on the Beach, apice della prima stagione della sua produzione, realizzato a quattro mani con Bob Wilson. Un lavoro, questo, difficilmente riconducibile al teatro musicale tradizionalmente inteso, anche perché rappresenta un'esperienza che non si può ascrivere - per stessa ammissione dell'autore - né all'ambito del melodramma né a quello del teatro di prosa, suggerendo addirittura "l'ipotesi di una nuova drammaturgia" per cui l'unico rimando che mi pare adeguato - ma solo da un punto di vista strutturale - è quello con la forma teatrale del melologo dove, come accade nell'Einstein, viene attuato un meccanismo che si basa sulla "lettura o la declamazione di un testo in poesia o in prosa alternato o sovrapposto a brani per orchestra o per singolo strumento". Ma il melologo - nella sua primigenia concezione - era, comunque, narrazione; aveva il fine di esprimere, raccontare, far comprendere al meglio, se vogliamo, la vicenda messa in scena, e l'equilibrio di unità artistica perseguito era finalizzato alla rappresentazione la più perfetta possibile di tutto questo. Nell'Einstein, come vedremo, lo scopo programmatico è proprio l'opposto, come gli stessi autori dichiarano a più riprese in fase di ideazione e realizzazione dell'opera, e l'opera stessa conferma in sede di rappresentazione. Il congelamento dello spazio, ottenuto con l'estrema lentezza dei gesti e l'incombente immobilità delle immagini, e soprattutto del tempo, dilatato dallo scorrere di una musica che ritorna sempre a se stessa, riporta direttamente ad una finalità concretata nella negazione narrativa messa in atto sulla scena teatrale. Un carattere, questo, che - alla luce non tanto di una rappresentazione quanto di un oggetto scenico, quale sembra essere quest'opera, sganciato da ogni logica di messa in scena dialettica - induce a pensare all'annullamento di ogni valenza comunicativa se non nell'ottica della sola espressione di sé. Tutto ciò, che può sembrare addirittura scontato, assume rilevanza quando questa estetica musicale nata ín e per il teatro, viene utilizzata per sperimentare incursioni nel territorio della popular music, oppure impiegata da Glass con funzioni analoghe in un ambito artistico come quello cinematografico caratterizzato, come sappiamo, da una propria e particolare natura tecnica. E appunto in ambito cinematografico egli ha applicato inoltre quelle soluzioni, legate alle tecnologie della riproduzione musicale maturate in studio di registrazione con il Philip Glass Ensemble, il gruppo strumentale con il quale il compositore svolge tuttora un'intensa attività concertistica e di ricerca strumentale. Anche questo interesse verso i possibili utilizzi delle nuove tecnologie in ambito musicale rimanda a significative affinità proprio con la musica pop e rock, con la quale Glass coltiva frequenti contatti, collaborando con artisti come David Byrne, David Bowie, Laurie Anderson e Brian Eno, la cui attività si è rivelata notevolmente affine all'estetica musicale glassiana. Questo molteplice dinamismo ha, quindi, permesso al musicista di sviluppare il suo linguaggio musicale adattandolo alle necessità legate alle varie collaborazioni. In questa continua ricerca di rinnovamento, Glass vuole comunque sfuggire ad una sorta di manierismo minimalista, come sottolinea lui stesso: "Fu l'impatto con l'Asia che mi permise di creare il mio linguaggio, ma in quello che faccio adesso questo non si sente più. Il rischio era di diventare prigioniero, di cambiare un sistema accademico per un altro". In sostanza Glass - dalla metà degli anni Sessanta - adotta strutture ritmiche orientali per poi, dopo l'esperienza di Einstein on the Beach, ritornare ad armonie occidentali, utilizzando, infine, dagli anni Ottanta in poi, soluzioni tecnologiche (come la registrazione digitale o la multimedialità) sia per la produzione teatrale sia per quella destinata ad altri impieghi. In questo percorso il compositore si avvicina, come già accennato, ad ambienti artistici i più differenti, riscuotendo un considerevole successo, anche discografico. Un aspetto, questo, che entra pienamente a far parte del profilo complessivo di un musicista che, artisticamente nato in ambito colto, mutua, elaborandole, le estetiche del teatro d'avanguardia da una parte e, dall'altra, di quell'arte orientale che tanto ha influito sull'ambiente culturale statunitense, per poi perseguire varie e feconde commistioni stilistiche. Una visibilità, anche commerciale, quella di Glass, che non manca naturalmente di generare critiche che portano la sua musica ad essere indicata quale esempio - nell'ampio panorama dell'arte del Novecento - dello "slittare di molte forme artistiche contemporanee verso il mediocre, il ripetitivo, il revivalistico".
Alla luce di queste sintetiche considerazioni nasce quindi l'esigenza di esplorare l'attività di questo compositore estremamente prolifico, il cui percorso artistico - iniziato a metà degli anni Sessanta e tuttora in corso - resta comunque ancora complessivamente poco analizzato (soprattutto in Italia) nonostante una prospettiva storica che occupa ormai un quarantennio. Da questo punto di vista mi pare di primaria iinportanza cercare di illustrare innanzitutto i caratteri della musica teatrale glassiana e le funzioni alle quali questo artista ríconduce le proprie composizioni in rapporto agli altri elementi drammatici. In secondo luogo pare utile verificare se e come determinati principi compositivi ed estetico-musicali vengano applicati dal compositore sia ad ambiti affini a quello teatrale, come quello cinematografico, sia ad ambiti apparentemente distanti, come quello della popular music. Alla fine di questo percorso, inoltre, saremo forse in grado di comprendere meglio in che misura la fortuna di Philip Glass sia da attribuire al suo peculiare modo di concepire il teatro e l'arte musicale in genere, e quanto questo successo - decisamente atipico per un compositore contemporaneo influisca sulla sua opera profondamente caratterizzata da un eclettismo di fondo che egli stesso riassume in questo modo: "Noi Americani siamo gente di frontiera. Ma, europei ed americani, abbiamo in comune le musiche del Ventesimo Secolo: tonale, dodecafonica, pop, rock, e tutte le altre. Dobbiamo guardarle tutte assieme dimenticando le gerarchie. Ecco che vedremo le cose in modo differente".

Alessandro Rigolli (introduzione a "Philip Glass", Ed.Auditorium, 2003)

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