Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 18, 2012

Foxtrot

Aprile 1972: i Genesis in tournèe italiana sull’onda degli ottimi riscontri di vendita del recente “Nursery Cryme” sbarcano nella mia città al palasport, una specie di hangar dalla pessima acustica assicurata da copertura in ferro e tribune montate su impalcature di tubi Innocenti. Il concerto è fissato per la sera, nel tardo pomeriggio passo di lì a curiosare e incontro Tiziano, giovanissimo come me e batterista di un complessino che suona nelle sale da ballo della zona. I Genesis stanno provando, si sente il boato proveniente dall’interno del palasport e allora ci facciamo coraggio troviamo una porticina incustodita e ci intrufoliamo dentro, appiattendoci sotto una tribuna e non osando avvicinarci al palco. Tre del gruppo, batterista bassista e chitarrista, sono ai loro strumenti ad eseguire reiteratamente lo stesso brano, stoppandosi frequentemente ogni volta che un tizio, capellone come loro e girovagante fra le varie tribune vuote del palasport, indica a gesti di fermarsi ed aspettare che cambi posizione. La musica che stanno eseguendo è molto ritmica, tostissima. Tiziano il mio amico è rapito da quel batterista biondo e mancino e non sta nella pelle “Senti che roba!... è un tempo dispari!... guarda come suona il biondo!…” Intanto il tizio che girava per le tribune a controllare i suoni scende, va a parlare un attimo col fonico al mixer e poi guadagna il palco, si infila dietro il castello delle tastiere e allunga le mani su una di esse… Parte una bordata di mellotron così carica di bassi che il tubo Innocenti al quale sono appollaiato mi trema sotto il sedere. Un accordo dopo l’altro, di una potenza e drammaticità uniche, siamo tutti e due a bocca aperta, coi peli dritti, felici. Due minuti buoni di questa magia poi il volume della tastiera si ritrae per fare spazio agli altri tre strumentisti per quella stessa figura ritmica appena sentita… Io ed il mio amico non lo sappiamo ancora, ma stiamo assistendo ad una fase della composizione di “Watcher Of The Skies”. Cioè il brano di apertura di questo album, parto felice di quella tournèe italiana. La ouverture di Tony Banks che aveva fatto tremare il palasport ed il mio cuore è a disposizione di tutti appena spinto il comando play, pomposa e magnifica ad introdurre la struttura ritmica in 9/8 entro la quale l’allora biondo Phil Collins, come già raccontato sopra, ci sguazza e sulla quale Peter Gabriel interpreta un testo fantascientifico (non suo ma dello stesso Banks, quello che andava in giro per le tribune del palasport non soddisfatto dei suoni, nonché di Mike Rutheford il bassista). “Time Table” che segue è una ballata pianistica logica farina del sacco di Tony Banks, il testo stavolta è favolistico e piuttosto lineare, si canta di cavalieri e di onore. Il primo contributo sostanzioso di Gabriel è in “Get’em Out By Friday”, denuncia di espropri edilizi e di soprusi nella quale il carismatico cantante riversa tutta la propria teatralità, dando voce diversa a vari personaggi ed infine assoggettando completamente la musica alla propria dilagante verbalità. La storia è lunga e articolata e non c’è respiro strumentale per gli altri quattro musicisti, che evidentemente concedono al loro grande cantante questo sfogo pronti a rifarsi in altre tracce. Ad esempio in quella successiva “Can Utility And The Coastliners”, una minisuite a firma Steve Hackett, primo importante suo contributo al gruppo. Deliziosa e complessa, priva di appeal commerciale e quindi assai sottoesposta nella memoria storica dei fans del gruppo, ha ottimi passaggi quali l’introduzione guidata dalla 12 corde e soprattutto la porzione strumentale centrale, chiaramente sviluppata da una jam session di gruppo, in particolare nei passaggi dove l’organo di Banks duetta alla grande con la batteria di Collins. Ancora Hackett sugli scudi per il celebre saggio sulla sei corde classica (seppur molto effettata) “Horizons”, due minuti di magici arpeggi derivati da un’aria Bachiana e con grande utilizzo di armonici al settimo e al dodicesimo tasto. Una palestra per legioni di praticanti della chitarra.Quando il Sol basso finale del saggio chitarristico si spegne e d’improvviso esordisce la magnifica voce di Gabriel contornata da ben tre chitarre a 12 corde (Banks che è il compositore + Rutheford + Hackett), siamo al passaggio più bello del disco, forse della discografia Genesis, forse forse del progressive tutto. “Supper’s Ready” è una delle riconosciute perle di questo genere, per molti irraggiungibile (per Gabriel, ad esempio), per altri un pelino lunga e un poco tediosa. I Genesis ci aprirono i concerti italici del 1981 e ancora mi ricordo il boato di sorpresa e approvazione dei ventimila convenuti a Tirrenia per vederli. La suite ha la caratteristica di avere un testo così surreale che non si capisce ancora oggi dove vada a parare, continue immagini di realtà quotidiana e mondi paralleli, Peter Gabriel è proprio una persona complessa. Dischi così la mamma non ne fa più, è non è neanche il migliore dei Genesis: ha chiare carenze di produzione (alcuni volumi non proprio indovinati, il suono chioccio e poco corposo dell’elettrica di Hackett, i riverberi molto confusi, ma il budget era ancora limitato…). Con il successivo “Selling England By The Pound” andrà tutto a posto, o quasi. Per poi andare tutto a ramengo a inizio anni ottanta con “Abacab”, ma questi sono altri capitoli della storia.

di Pier Paolo Farina

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