Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
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sabato, agosto 11, 2012

Festival di Berlino 1969: la novità è Stravinsky

XX Berliner Festwochen
Berlino, ottobre 1969. Sta volgendo al termine la manifestazione delle Festwochen, che per venti giorni ha occupato le scene della città con spettacoli d'opera, di prosa, di balletto, concerti, film ed esposizioni. Tra queste, bellissima quella di Whistler nella nuova Nationalgalerie, un cubo di vetro progettato da Mies van der Rohe, che delimita uno spazio raccolto, eppure d'insospettabile ampiezza. Una rassegna, queste Festwochen, che non obbedisce ad alcun criterio né tendenza, e nella quale erano quest'anno un po' scarsi i contributi internazionali, limitati alle rcrtte dell'Opera Nazionale di Belgrado, apprezzatissime, ai balletti della compagnia israeliana Baatsheva, che hanno bene assimilato la lezione di Martha Graham, alla tournée dell'Orchestra sinfonica svedese diretta da Celibidache e, per la prosa, al Rabelais di Barrault e agli spettacoli ambulanti del «Bread and Fuppet Theater». Nessun complesso italiano, quest'anno, ma solo un recital della pianista Maria Tipo e un concerto diretto da Mario Rossi, che alla testa della splendida Orchestra Filarmonica di Berlino ha portato al successo la Decima Sinfonia di Malipiero e il Magnificat di Petrassi (ottima solista il soprano Silvia Gròschke).
Fra le novità o curiosità musicali che è accaduto di ascoltare, due autori s'impongono nella memoria: l'americano Charles Ives e, tanto per cambiare, Stravinsky. Di Ives è in corso un'inflazione straripante. Questo compositore della domenica, che scriveva musica nei ritagli di tempo lasciatigli dal business (era presidente d'una grande società d'assicurazioni), ha lasciato una quantità sterminata di inediti, che soltanto ora, a quindici anni dalla morte, vengono tumultuosamente pubblicati e diffusi, senza che sia possibile per il momento prendere le misure del fenomeno e stabilirne i contorni. Non c'è che lasciarsi cadere addosso i nuovi lavori, registrando impressioni momentanee: chissà quando riuscirà a qualcuno di trarre un primo bilancio. In un concerto della Filarmonica diretto da Lukas Foss, che presentava anche le proprie capricciose Variazioni barocche e gli Ariosi di Henze con soprano e violino solisti (la coppia Irmgaard Seefried e Wolfgang Schneiderhahn), si è ascoltato un Orchestral Set Nr. 2: francamente aperto a esiti ritmici di estrazione jazzistica, è parso uno dei lavori buoni di Ives, sempre irregolare, lutulento, ma maledettamente aderente alla realtà umana d'un'America di pionieri.
Di questo compositore, che per mera spregiudicatezza non professionale divinava soluzioni armoniche e timbri che a cui la musica europea giungeva attraverso le consapevoli teorizzazioni schoenberghiane, è stato finalmente possibile ascoltare un bel mazzo di songs, o canzoni, o liriche che dir si voglia. Le ha cantate William Pearsons, il baritono di colore che si è affermato nella musica d'avanguardia, come interprete tragico e buffonesco delle avventure fonetiche di Mauricio Kagel, di Gyórgy Ligeti e di Hans Otte, ma che è pure un compiuto e drammatico liederista.
Le canzoni di Ives, su testi di cui non sono purtroppo stati indicati gli autori, vanno dalla romanza sentimentale o salottiera, su ritmo di valzer ottocentesco (Amphion, Marie, Songs my mother taught me) al realismo tragicomico di ballate dove la voce si abbaruffa con sé stessa fino all'urlo e alla risata (lo straordinario Charlie Rullage). C'è la lirica d'arte aggiornata ai canoni europei (Evening) e c'è la canzone nello stile dello spiritual (Watchman). In Walking il pianoforte se n'esce fuori con un intermezzo di vero e proprio swing. Il testo di The things our father love ci fornisce la poetica dell'arte di Ives, cosi ricca di ibridazioni e commistioni realistiche: «Penso che ci dev'essere un posto nell'anima, tutto fatto di suoni, di suoni del passato; risento l'organetto sull'angolo di Main Street, la zia Sarah che canticchia i suoi gnspels; sere d'estate, la banda del paese che suona in piazza». E' il repertorio di suoni e d'esperienze vissute di cui sono fatti i migliori lavori orchestrali di Ives.
E poi Stravinsky. Anche dal suo letto d'ospedale in America riesce a tenerci col fiato sospeso. Il suo discepolo Robert Craft presentava con l'orchestra sinfonica della radio un programma dedicato prevalentemente a quel tipico aspetto stravinskiano che sono le divoranti scoperte d'autori del passato, rifatti o trascritti in segno d'ammirazione. Doveva aprirsi, questo concerto, con la prima mondiale delle trascrizioni orchestrali di due Preludi e Fughe dal Clavicembalo ben temperato, poi, all'ultimo momento, questa ghiotta primizia spari, un po' misteriosamente, dal programma. Si disse che il maestro, ammalato, non l'aveva potuta terminare. Rimasero, insieme con il solito Pulcinella pergolesiano e con il Monumentum prò Gesualdo, le trascrizioni di due Lieder di Hugo Wolf, in prima esecuzione europea. Sono due canti spirituali dallo Spanisches Liederbuch, e lo spirito di macerato raccoglimento religioso ne è singolarmente vicino, sia pure in clima romantico, a quello dei tormentati madrigali di Gesualdo da Venosa. La trascrizione della parte pianistica per un piccolo complesso strumentale non fa che accentuarne la diafana e immateriale sostanza sonora.
C'è qualche cosa di commovente ed irritante ad un tempo nell'ovvia semplicità con cui l'ottuagenario compositore viene scoprendo la grandezza di quei classici e romantici che aveva un giorno disprezzato e che erano in effetti agli antipodi della sua poderosa, ma semplicistica personalità. A proposito dell'attuale ammirazione di Stravinsky per gli ultimi Quartetti di Beethoven, il critico berlinese H. H. Stuckenschmidt cita il dialogo riferito da George D. Painter nella sua biografia di Proust. Lo scrittore e il musicista si erano incontrati in un ricevimento mondano a Parigi nel 1922, e pare che Proust, anticipando Francoise Sagan, avesse chiesto a Stravinsky: «Amate Beethoven?». Risposta: «Lo detesto». «Ma almeno gli ultimi Quartetti?». «La cosa peggiore che abbia scritto!». Al tempo dell'Histoire du Soldat Stravinsky si era meravigliato che «un uomo così moderno» come Busoni ammirasse i classici tedeschi. E Busoni di rimando gli aveva fatto dire che se li avesse conosciuti li avrebbe ammirati anche lui. Come tante altre profezie di Busoni, anche questa si è pienamente avverata.
Ma non si limitava a questo l'interesse del concerto di Craft; esso raggiungeva la punta massima con l'esecuzione di Noces (ottimi solisti vocali Katherine Gayer, Kerstin. Meyer, Helmut Krebs e Anton Diakov), preceduta da due frammenti di versioni anteriori a quella definitiva. Una, del 1914-1918, contrappone un gruppo d'ottoni a un gruppo d'archi, con in mezzo i due cymbalon, strumenti ungheresi a corde metalliche percosse con bacchette, che allora affascinavano l'orecchio e la golosità acustica del compositore. Ma l'impiego ne è ancora timido, e gli strumenti tradizionali hanno il sopravvento. Invece il frammento del 1919, per i due cymbalon (egregiamente suonati da Derek Bell e John Leach), harmonium, pianola (qui sostituita da tre pianoforti) e percussione, è sembrato una rivelazione sbalorditiva, tale da far considerare la versione definitiva, per voci, quattro pianoforti e percussione, come un ripiego, tanto è selvaggia e vivida l'evidenza sonora dell'insieme. Lo stesso Stravinsky, in un gustoso scritto dell'anno scorso, non ancora noto fra noi, ammette che soltanto la difficoltà di assicurarsi due competenti suonatori di cymbalon e l'impossibilità di associare alle voci umane uno strumento meccanico cosi rigido nell'intonazione e implacabile nel ritmo come la pianola, lo indussero ad abbandonare quella versione strumentale che, con la sua sonorità di metalli violentemente sbattuti, era di gran lunga la sua preferita.

Massimo Mila ("La Stampa", 7 ottobre 1969)

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