Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, settembre 10, 2018

L'acqua di Lete: un impero che cadeva a tempo di walzer

Valse
Napoleone diceva che l’acqua del Danubio possedeva la virtù di quella del Lete, il mitico fiume greco che donava l’oblio; molti anni dopo, anche la trascinante malinconia del Pipistrello, forse la più bella operetta di Johann Strauss, canterà questa lieve saggezza dell’illusione e della fuga: "è felice chi dimentica ciò che non si può più mutare", si dice nel Pipistrello, chi è capace di scordare l'irreparabile.
Il valzer, che Strauss profuse a piene mani con una febbrile disinvoltura, nella quale l’estro creativo dell’artista popolare s'intrecciava all’assidua produttività del fornitore di beni culturali facilmente consumabili, è stato il sigillo di una civiltà complessa che cercava rifugio nella leggerezza e che cercava in prirno luogo di scansare il dramma e la tragedia. Forse per questo un attempato burocrate asburgico poté dire che in fondo l’impero di Francesco Giuseppe aveva cessato realmente di esistere già con la morte di Strauss, come se quel mondo danubiano dal quale è nata tanta parte della più ardua e severa intelligenza moderna potesse riconoscersi soprattutto nella grazia superficiale e spumeggiante del Bel Danubio blu. In quel suo ritmo circolare di una gioia che sempre fugge per sempre tornare ma più tenue e lontana, il valzer aveva fuso i due stati d’animo, apparentemente antitetici ma strettamente connessi, con i quali l’Austria presagiva e fingeva di ignorare la propria fine: lo scetticismo e la nostalgia.
Nell’abbandono al movimento ondoso del valzer c'è la tenera ironia di chi vive un’esistenza pagana e terrestre prigioniera della caducità, di chi punta tutte le sue carte sui sensi e sull’attimo, sulla pausa sottratta ai doveri e agli affanni, sul piacere di un presente che ci si illude di strappare alla corsa del tempo ma che si sente segnato dalla consapevolezza dell'effimero.
Nel valzer sembrano così unirsi grossolanità e struggimento, faciloneria ridondante e gracile ma vera poesia. E' l’espressione di una festa e del suo rimpianto, di una felicità forse accomodante ma certo riscattata dal senso della sua vanità e del suo dileguare. Quando comincia a furoreggiare negli anni fra il Congresso di Vienna e il Quarantotto, il valzer appare un tipico ingrediente della politica culturale praticata dall’impero, di quel consenso popolare perseguito anche tramite l’ideologia del disimpegno e della gioia di vivere, dell’aurea mediocritas e del pigro appagamento del presente.
Sono gli anni del congresso che ne marche pas - il danse, dei caffè e delle locande dove echeggiano i primi valzer di Lanner e di Strauss padre, dove quest’ultimo inneggia, come dice il titolo d’un suo valzer, alla vita intesa tutta come un ballo. I viaggiatori stranieri, specialmente quelli provenienti dalla severa Germania protestante, contemplano sdegnati e affascinati questa Vienna cattolica e pagana in cui è sempre sabato sera, dove neppure il colera, osservava Wagner nel 1832, altera l'atmosfera baccantica e dove pare di trovarsi in un paradiso terrestre senza il serpente, senza l’albero del bene e del male e senza le faticose teorie che turbano il piacere dell’immediatezza.
Questo era il ritratto non di una realtà ma di un mito, di quella politica di alienazione sensuale che cercava di fare di Vienna, come si diceva allora, la Capua degli spiriti. A questo mito, contro il quale insorge tutta la grande cultura austriaca, il valzer presta la sua amabile seduzione. Da Lanner a Strauss padre, da Johann Strauss ai suoi fratelli ed epigoni, il valzer fomisce un commento ai fatti della cronaca e della storia, che vengono così ammorbiditi in una confidenziale familiarità: tutto finisce in valzer e viene messo in valzer, dalla campagna di Radetzky alla rivoluzione del Quarantotto, dal crollo in borsa alla speculazione edilizia al genetliaco dell’imperatore, che danno il titolo a composizioni famose.
Ma se la produzione di Strauss rappresenta un esempio di industria culturale di proporzioni insolite per l’Europa ottocentesca, questa industria culturale è unica nel suo genere perché si fonda su una coralità popolare eccezionalmente omogenea e su una coerenza individuale ed artigiana ancora intatta.
Strauss non è Lehar, anche le sue opere minori hanno una consistenza sconosciuta alle tarde e volgarucce operette che nascono quando quella cultura di massa ha perso l'organicità della sua autentica natura popolare. Compiacente dispensiere di melodie concilianti, il valzer di Strauss sa anche sfiorare la profondità di quella gioia capace di affermare se stessa oltre la coscienza del tragico e della line e volta ad eludere la tragedia non per vacuità ma per una garbata avversione alla scompostezza.
Ammirato da Brahms, Strauss poteva muoversi con finezza in quello spazio intermedio fra l’arte e il consumo. Il valzer dell'imperatore ci dice ancor oggi tutta l’armonia della fine e tutta la nostalgia per ogni armonia perduta, soprattutto per quella tenera e irripetibile misura dei sensi così esposta all’assalto dell’anonimato e della dissonanza. Weininger, tragico genio della moralità, disprezzava nel valzer il simbolo di ciò che gira e ritorna sempre su se stesso senza progredire; in Odissea nello spazio Kubrick ha visto in quel roteare il disteso abbandono di chi gira all’unisono con il mondo e si sente in accordo con la legge di quel respiro. Forse la festa del valzer è immorale, ma lo è come ogni sì detto al fluire della vita, al di sopra delle sue lacerazioni e della sua indifferenza.

 
Claudio Magris ("Corriere della Sera", 20 agosto 1975)

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