XXIV Festival Internazionale di Musica Contemporanea - 1961 |
Alcuni anni or sono Karlheinz Stockhausen scrisse che "effettivamente tutti coloro che non vogliono lasciar penetrate nella propria vita la musica elettronica e, in generale, la nostra musica, sembrano stare al mondo come abiti smessi". Sentenza piuttosto drastica, invero, e alquanto temeraria che tuttavia tradiva una sicurezza e una fede cui i fatti, in prosieguo di tempo, hanno dato in parte ragione. Che oggi, non c'è dubbio, la musica elettronica è "penetrata" baldanzosamente nella vita di quasi tutti coloro che alla musica portano interesse (e non contano qui, per il momento, le reazioni positive o negative che quella sinora ha provocato), sebbene tale penetrazione si sia svolta in molti casi sul piano della mera curiosità o delle facili suggestioni, quali sogliono nascere da mezzi nuovissimi e inediti. In quanto alla validità delle opere è un altro discorso. La sicurezza e la fede di Stockhausen al proposito attendono ancora, mi pare, più certezze di risultati.
Comunque il Congresso Internazionale di Musica Sperimentale che l’Ente della Biennale, in collaborazione con la "Fondazione Cini" e la Radiotelevisione Italiana (la quale ha fornito apparecchiature e tecnici nonché assistenza organizzativa), ha promosso tra il 10 e il 13 aprile scorsi all’Isola di S. Giorgio in Venezia, nel quadro del XXIV Festival di Musica Contemporanea, ha sancito per così dire questo stato di fatto. Evidentemente ciò significa che a pochi garba il rischio di esser paragonato ad "abiti smessi".
E per gli abiti, si sa, chi comanda è la moda. Con questo non si vuol insinuare un sospetto di caducità nel fenomeno che più o meno propriamente viene chiamato "musica sperimentale", benché nel concetto stesso di sperimento sia implicita la provvisorietà del tentare e del cercare. D'altronde, volendo tirare le somme in anticipo, l’intento del Congresso, se bene ho capito, ha mirato ad accertare non tanto il valore intrinseco delle opere rappresentative di quel fenomeno e la fondatezza delle idee e delle teorie connesse, quanto la legittimità storica e la sostanziale serietà e necessità di tali sperimenti musicali, indipendentemente dai traguardi estetici e dalle poetiche che a essi si riferiscono.
E gli argomenti stessi, scelti per le relazioni, come vedremo in seguito, denunciavano abbastanza chiaramente codesto intento.
Ma proprio su siffatto terreno, mi sembra, il congresso ha per lo meno parzialmente deluso. Dalle relazioni e dai relativi dibattiti, a parte la consueta confusione terminologica che fatalmente accompagna le discussioni su cose musicali, non sono usciti dati e nozioni utili a chiarire l'intricatissima materia e a derimerla proprio sul piano tecnico. E ciò malgrado anche certi interventi precisi, lucidissimi di un Pierre Schaeffer, l’apostolo della "musique concrete", la quale, tutto sommato, non ha fino adesso offerto qualcosa che superi i modesti limiti di una talvolta affascinante "tapisserie sonore" (e lo stesso Schaeffer, come vedremo, ne è cosciente).
Coloro che, invece, per diretta esperienza potevano trattare adeguatamente e istruttivamente la materia, cioè i compositori, sono mancati allo scopo. E' vero che si doveva lamentare 1’assenza - non imputabile agli organizzatori - dei maggiori esponenti, poniamo, della musica elettronica, come Stockhausen, Ligeti, Pousseur, Nilsson, Berio, Maderna, ecc. E' vero anche che da un congresso di tal genere è ingenuo e puerile attendersi sistemazioni definitive e dogmi inconfutabili. Senza contare che la medesima nozione di musica sperimentale nascondeva non poche insidie, non sempre evitate dai congressisti.
Quando e perché una musica e o si può definire sperimentale?
Nel caso presente è chiaro che si deve alla natura dei mezzi impiegati - cioè quelli offerti in generale dalle apparecchiature elettromagnetiche - l’adozione di tale qualifica, senonché mi pare evidente che in siffatto modo mezzi e fini si identificano, e, identificandosi, dovrebbero produrre né più né meno che 1’opera d’arte, nella quale appunto normalmente questo processo d'identità si verifica. In altri termini: si ottiene della musica, sic et simpliciter. Se viceversa sperimentare significa saggiare il mezzo, sviscerarlo nelle sue costituenti materiali in vista di una probabile utilizzazione a livelli più alti, insomma una "ipotesi di lavoro", allora è pericoloso o perlomeno molto opinabile ed equivocabile parlare di musica.
Ma la verità è che, forse per una errata e inveterata abitudine contratta dal pensiero idealistico, in molti di noi la nozione di musica sembra ripugnare a quella di sperimento, più specificamente legata all'attività scientifica (non per niente Roman Vlad nella sua relazione ha negato legittimità a quella definizione in nome, appunto, di "poesia e non poesia", "arte e non arte", ecc.).
Sappiamo, grosso modo, di filosofie che tendono a conciliare ovvero ad annullare i confini che separano l'arte dalla scienza, a svincolare la prima dalla sfera dell’intuizione soggettiva, dell’irrazionale, per inserirla nell’azione obiettivante della seconda. E a ciò si è riferito Luigi Rognoni, trattando il tema "La musica sperimentale nella cultura contemporanea".
Eppure, al momento cruciale dell’ascolto, dell’immediata presa di contatto con l’opera viva, ogni premeditazione cede all’attesa di una parola significante, di una lingua che comunichi qualcosa di assimilabile alla musica, secondo quel che comunemente s’intende con tale termine. E' qui, infatti, che sorge un problema, purtroppo trascurato dal Congresso quantunque d’indubbia importanza: il problema dell’ascolto, ossia i modi di ascolto presumibilmente nuovi che la musica sperimentale e la elettronica in particolare esigono. Un ascolto cosciente, consapevole, per il quale, ripeto, si aspettava qualche indicazione dai relatori e da tutti coloro che, presenti al Congresso Veneziano, alla musica sperimentale dedicano le loro energie di compositori. Per esempio, è sotto questo punto di vista fra l’altro che la "musique concrete" patrocinata da Schaeffer rivela il suo limite, appellandosi sostanzialmente a un ascolto nutrito di soli "oggetti sonori", di mere emozioni auditive non riconducibili a più o meno celate strutture di un pensiero compositivo. Tuttavia è anche opportuno ricordare che il piacere estetico della musica, troppo semplicisticamente ridotto da Stockhausen, nello scritto sopra citato, al "fatto sensoriale", è un dato a posteriori di una civiltà musicale, nel quale convergono molteplici ed eterogenei elementi che vanno dalla specifica conoscenza tecnica alla generica inclinazione del gusto e della cultura e della sensibilità di cui è dotato l’ascoltatore.
L’altra insidia, annidata nel tema generale del Congresso, derivava dalla tendenza coltivata da alcuni - presenti e assenti - in maniera più o meno dichiarata, di ritenere la musica sperimentale come unica e possibile espressione del nostro tempo e comunque destinata, soprattutto sotto specie elettronica, a un futuro dominio ecumenico.
E' naturale, pertanto, che i partecipanti "non impegnati" (per usare una formula oggi corrente nel mondo della politica internazionale) si aspettassero dalle opere ascoltate e dagli interventi una sia pure approssimativa conferma che desse sostegno evidente a quell’atto di fede volto al presente e all’avvenire. In caso contrario perché sentirsi proprio "abiti smessi"? La musica elettronica, che indubbiamente nell’ambito della sperimentazione presenta il maggior interesse e che più di altre esperienze analoghe può fregiarsi a buon diritto dell’etichetta "musica sperimentale", per se stessa, come fonte di produzione sonora, non è indeclinabile a un linguaggio per così dire tradizionale. Tuttavia in gran parte essa è legata a una determinata corrente di avanguardia. Anzi, ha perfettamente ragione Stockhausen, sempre nel già menzionato scritto, di rivendicare a1l’interno sviluppo, alle interne esigenze della serialità integrale, la nascita e la giustificazione della musica elettronica (e notare, sia detto per inciso, la precisazione di quel "nostra" che unisce la sorte della musica elettronica a quella non elettronica degli stessi autori). Orbene, ciò ha automaticamente condotto, sin dall’origine, a individuare nel mezzo elettronico non più un "banco di prova", uno strumento sperimentale fine a se stesso, ma semplicemente una nuova, inedita, inusitata fonte di suoni al servizio di un preesistente e precostituito lessico musicale, benché quel nuovo mezzo, ovviamente, ha offerto e offre tuttora alcune "resistenze", notevoli problemi tecnici ed elaborativi.
E' per questo che in un certo senso, come riconosce lo stesso Stockhausen, lo sviluppo di tale lessico ha subito un arresto, anzi addirittura ha regredito verso una condizione quasi pre-logica, tant'è che in questi ultimi tempi s'è verificato nel suo seno la degenerazione (per taluni) o la scoperta (per altri) dell’alea, della casualità.
Ma, per tornare alle giornate del Congresso Veneziano, le considerazioni sin qui fatte non vogliono intaccare né sottovalutare, sia pure in modo indiretto, il vivo interesse suscitato dall’iniziativa. Una conferma a tale interesse è venuta d’altronde dalla cospicua partecipazione di musicisti e critici italiani e stranieri nonché degli studi di musica sperimentali di Vari centri radiofonici e universitari, di Parigi, Tokio, New York, Bruxelles, Colonia, Varsavia, Utrecht e Milano.
Per maggior chiarezza espositiva, seguiremo lo stesso criterio adottato dagli organizzatori nel separare in due aspetti distinti la materia: da un lato le opere, prodotte dagli anzidetti "Studi", presentate nelle sessioni antimeridiane; dall’altro, le trattazioni teorico-critiche, ossia le relazioni e i conseguenti dibatti svolti nel pomeriggio.
Circa le opere, diciamo subito che si cadrebbe in un errore grossolano se si volesse trarre definitive o per lo meno solide conclusioni pro o contro dall’ascolto complessivo dei vari brani. E ciò per un duplice ordine di motivi. In primo luogo è risultato che per musica sperimentale non s’intendeva necessariamente e soltanto quella elettronica ma in senso più e forse troppo estensivo tutta la musica alla cui produzione concorrono, alla origine o nella fase di elaborazione o di semplice "trascrizione", i mezzi elettromagnetici. Naturalmente passando dall’una all’altra di queste possibilità, l’interesse proporzionalmente tende ad affievolirsi, fino a scoprire un fastidioso equivoco la dove interviene una confusione di mezzi e una imprecisione di fini. Sicché, per esempio, ci si è domandati a che titolo le due opere giapponesi si ascrivevano alla musica sperimentale, atteso che non erano altro che semplici "registrazioni" su nastro di composizioni, diciamo così, normali benché destinate alla radio. E l’impiego di talune risorse offerte dall’apparato radiofonico, come la stereofonia, i suoni alonati, ecc. incidendo non sul fatto compositivo ma solamente su quello rappresentativo o spettacolare, non costituiva di per sé un implicito richiamo alla nozione di musica sperimentale.
Delimitata così la materia, con la sottrazione appunto degli equivoci più dozzinali, essa si manifesta attualmente sotto tre forme: musica elettronica, musica concreta e una combinazione dell'una o dell’altra con le fonti sonore tradizionali. Alla prima forma si attenevano segnatamente le opere prodotte dagli studi di Colonia, Varsavia, Milano e in gran parte Bruxelles. Per contro la musica concreta, come ho già detto, abilmente e bellicosamente sostenuta dal suo iniziatore, Pierre Schaeffer, presente al Congresso con un nutrito drappello di seguaci, resta tuttora limitata all’attività del "Groupe de recherches musicales" della radio francese, capeggiato dallo stesso Schaeffer. Infine nelle opere presentate dagli studi elettronici delle università di Utrecht, Princeton e New York, era evidente il tentativo di giungere a una compenetrazione tra fattori sonori elettromagnetici e tradizionali in un presunto e mutuo potenziamento di possibilità tecniche ed espressive.
Come si cede, la molteplicità delle tendenze rendeva estremamente precaria una conclusione che avesse voluto parare in un giudizio di merito stante che essa molteplicità mentre si riflette nei principi informatori o nei criteri costitutivi, riesce poi ad una imprecisione e indefinitezza di tratti linguistici e di risultanze acustiche. Ma ecco che qui sopravviene l’altro motivo che rende improbabile ogni deduzione conclusiva.
E' la stessa nozione di sperimentale che, scientemente assunta da siffatta musica pone questa al riparo di qualsiasi valutazione estetica o comunque orientata secondo i modi consueti del comportamento critico.
D’altra parte la inspiegabile scarsezza d’informazioni offerta dai presentatori sui dati tecnici, sulle esperienze individuali o di gruppo, insieme, forse e senza forse, alla non diffusa conoscenza specifica della materia tra gli stessi partecipanti, non offrivano le premesse nemmeno a un giudizio di carattere formale, volto cioè al solo prelievo dei lati strutturali di tali esperimenti. Ci si è trovati quindi dinnanzi a una musica che già in partenza non si voleva sottrarre al rischio del transitorio, dell'accidentale, del casuale, ma anzi da ciò traeva tutto il suo significato e la sua giustificazione.
In tale situazione, dunque, il giudizio non poteva che rimanere sospeso, accontentarsi di una fuggevole intuizione, di sparse sensazioni psico-fisiologiche, che ciascuno di noi, per radicata abitudine, ha cercato di coordinare entro un disegno, entro un evento sonoro approssimativamente organico e compiuto. Non c'è dubbio, intendiamoci, che i lavori di Maderna, Nono, Castiglioni, Ligeti, Kagel e Penderecki si distinguevano dagli altri per una loro particolare forza persuasiva, per una loro capacità di suggestione determinata dalla presenza negli autori di una indiscutibile musicalità.
Ma, nel contempo, si era colti dal sospetto che nel generale e confuso balbettio l’insorgere episodico di una parola intelligibile provocava una sensazione talmente violenta e insieme piacevole da poter essere scambiata per emozione estetica.
Circa le relazioni e i dibattiti, non si può dire che vi ha governato una maggiore chiarezza. Quattro erano i terni fissati: "I materiali della musica" di cui ha parlato Pierre Schaeffer, "Musica tradizionale e musica sperimentale" e "Il problema della notazione" entrambi trattati da Roman Vlad e infine "La musica sperimentale nella cultura contemporanea" affidata a Luigi Rognoni.
Per ovvie ragioni di spazio, non è qui possibile illustrare dettagliatamente le singole relazioni, tutte svolte su un elevato piano intellettuale.
In ogni modo, come ho accennato più sopra, era possibile intravedere lo scopo verso cui convergevano i quattro argomenti: dimostrare cioè la legittimità delle nuove esperienze sia sotto il profilo tecnico (relazione Schaeffer), sia storico-musicale (relazione Vlad), sia storico-culturale (relazione Rognoni).
Schaeffer, spogliando la musica sperimentale di ogni presuntuoso e velleitario scientificismo, le ha però riconosciuto il diritto e la giusta esigenza della ricerca e delle indagini mediante i nuovi mezzi forniti al compositore dagli strumenti elettro-acustici ed elettromagnetici, giungendo però alla curiosa quanto inaspettata conclusione che in dieci anni di tentativi sinora, a suo parere, non si è arrivati a nessun concreto e fruttuoso risultato.
Avremmo voluto confortare l’illustre ospite francese ricordandogli la massima, se non erriamo, calvinista, che dice pressappoco così: "Non c'è bisogno di sperare per intraprendere, né di riuscire per perseverare". Forse con questa massima in arte non si produrranno capolavori ma qualcosa comunque si fa.
Roman Vlad, viceversa ha negato validità filosofica ed estetica al concetto di musica sperimentale. Rifacendosi al salomonico nonché crociano assioma di arte e non arte, poesia e non poesia, è stato facile al relatore desumere che si ha musica e non musica e che quindi l’attributo di sperimentale è un pseudo-concerto, un dato empirico, accidentale che non interessa lo storico né il critico.
Roman Vlad, viceversa ha negato validità filosofica ed estetica al concetto di musica sperimentale. Rifacendosi al salomonico nonché crociano assioma di arte e non arte, poesia e non poesia, è stato facile al relatore desumere che si ha musica e non musica e che quindi l’attributo di sperimentale è un pseudo-concerto, un dato empirico, accidentale che non interessa lo storico né il critico.
Di qui discende l’esemplare sillogismo che, dunque, tra musica sperimentale e musica tradizionale non può esserci opposizione né iato. D’a1tronde ogni opera d’arte è una nuova conquista per la stessa ragione che ogni genio è per se stesso un pioniere, un ricercatore e quindi uno sperimentatore.
Anche per Vlad sarebbe caduto a proposito un detto che afferma: "Chi guarda soltanto le cime spesso rischia di sbagliare cammino". E di cime, nella musica sperimentale, ci sembra che sia un po’ prematuro parlare. Eppure non crediamo che il brillante oratore intendesse negare legittimità a tale musica. Per tanto la relazione di Vlad ci ha lasciati piuttosto perplessi ed è parsa semmai più avvincente allorché ha toccato lo spinoso problema della notazione di fronte al quale si trova specialmente la musica elettronica. La soluzione proposta da Vlad - secondo la nostra opinione purtroppo però non confortata da una diretta esperienza -, ha il pregio della semplicità e della chiarezza. Tuttavia in un dibattito suscitato da alcune troppe vaghe comunicazioni in proposito del rappresentante polacco, è risultato che i tentativi di soluzione sono oggi tanti, quanti sono coloro che si dedicano alla musica elettronica: come dire che a conti fatti il problema è tuttora irrisolto. D’altra parte la massa di equivoci e di idee arbitrarie che in esso si annida è tale che temiamo sia ancora molto lontana la soluzione definitiva.
Non avendo sott’occhio la relazione di Luigi Rognoni e data la sua complessità, irta di concetti e postulati filosofici, di riferimenti e citazioni da autori e teorie spesso ardue e inaccessibili, ci è difficile riassumerne la sostanza. In ogni modo, era palese l’intenzione di Rognoni di conferire un attestato di legittimità, anche sul piano culturale e spirituale, soltanto alla musica elettronica, rifiutandolo perciò a qualsiasi altro tipo di musica sperimentale. L'attacco a Schaeffer era implicito sì che costui ha reagito vivacemente nella discussione scaturita dalla relazione anzidetta.
A questo punto, ossia nell’ultima seduta del Congresso e per merito anche di un intervento come sempre perspicace e stimolante di Fedele D’Amico, è venuto alla ribalta una strana e tardiva constatazione di fatto: si è scoperto cioè che in tutti quei quattro giorni ci si era serviti di termini-chiave, presumibilmente esplicativi e ritenuti in generale di comune accezione, ai quali viceversa ognuno dava un significato del tutto differente. La babele della terminologia musicale ancora una volta aveva trionfato. E il patetico appello di Paul Collaer all’antica e sempre vitale forza ispirativa della natura di contro alla civiltà delle macchine, non era davvero sufficiente a derimere le imbrogliatissime questioni.
E ora non si creda con ciò che si voglia terminare affibbiando al Congresso Veneziano una patente di inutilità. Non apparteniamo al novero di coloro che considerano superflui i discorsi o le chiacchiere: anzi proprio quel Congresso ha dimostrato il contrario. Perché anche se alcuni ne sono usciti con le stesse convinzioni che nutrivano quando sono entrati, altri ne hanno ricevuto qualche dubbio in Più e qualche certezza in meno ovvero qualche dubbio in meno e qualche certezze. in più: il che non è la stessa cosa, come può sembrare, ma è ugualmente utile.
E infatti di utile, intanto, dal Congresso sono uscite varie deliberazioni, conseguenti a proposte di Pierre Schaeffer, intese a stabilire e incrementare, sulle basi di un questionario formulato dallo stesso Schaeffer, scambi di informazioni tra studi o centri di ricerche di musica sperimentale.
Queste informazioni saranno poi raccolte in un catalogo a cura del "Service de la Recherche de la Radiodiffusion Télévision Française", stampato in tre lingue, che darà un quadro organico dei risultati sinora raggiunti in questo campo, fornendo dati e indicazioni sia delle opere musicali realizzate fino al ’61, sia delle apparecchiature elettroniche ed elettroacustiche, sia infine delle condizioni generali di lavoro proprie a ciascun "studio".
Guido Turchi (L'Approdo Musicale, n.13, Anno IV, 1961)
Nessun commento:
Posta un commento