Oltre a essere un pianista apprezzato, Luca Ciammarughi - ben noto ai nostri lettori - è musicologo di vaglia, per cui era lecito attendersi un progetto culturale all'altezza, ancor prima di un disco ben suonato (e che lo sia è un qualcosa che i nostri pochi, garbati appunti, non vorranno negare, ma tuttavia il progetto a monte ci sembra ancora migliore della sua effettiva realizzazione): questo disco, realizzato lo scorso amo, si presenta come un omaggio a Rameau e a Saint-Saëns, legati certo non solo dalla nazionalità francese ma soprattutto da una certa affinità artistica e per così dire di visione, per quanto naturalmente radicata in epoche distanti e sensibilità differenti: un'affinità artistica incardinata, oltre che nel gusto per la sperimentazione virtuosistica, in un certo immaginario, come quella propensione per situazioni, temi e mondi esotici che in una certa misura caratterizzò entrambi; e pure da una certa teatralità, elemento opportunamente messo in risalto dal nostro interprete, segno anche di una lucida comprensione delle composizioni proposte: Ciammarughi mette a proprio agio l'ascoltatore, accompagnandolo, quasi fosse una conferenza-concerto, in questo intrigante percorso, davvero pieno di sorprese. I cento anni della morte di Saint-Saëns (1835-1921) ci riportano a Rameau a partire dal fatto che l'autore della Danse macabre realizzò la prima edizione critica completa delle Piéces de Clavecin, in tal modo contribuendo alla riscoperta del suo grande connazionale barocco: la “Rameau-renaissance” infatti, si deve, ancor prima che a Debussy, proprio all'autore de Il carnevale degli animali e del Sansone e Dalila. E come ci restituisce, Ciammarughi, il Rameau saint-saënsiano, in questo caso registrando le ultime tra le sopraccitate Pièces de Clavecin (oltre a una gavotta dello stesso Saint-Saëns, limpido omaggio al suo “predecessore")? Con gli occhi di Saint-Saëns appunto, cioè a dire con un'estetica e uno strumento fin de siècle (uno Steinway del 1888) con caratteristiche timbriche certo diverse rispetto al pianoforte odierno: uno strumento dai tratti un po' più flebili, ma forse in una certa misura anche più nitidi, e ci sembra che Ciammarughi abbia saputo mettere in risalto in modo adeguato tali caratteristiche, presumibilmente secondo il principio che questa musica ben s'attagli a qualsiasi strumento a tastiera e che la questione appunto non risieda tanto nel chiedersi quale sia lo strumento più adatto, quanto nel saper valorizzare queste composizioni sulla base delle caratteristiche dello strumento impiegato: non abbiamo dubbi sul fatto che, se avesse adoperato un cembalo o un pianoforte moderno, Ciammarughi avrebbe riconsiderato e riadattato ad hoc alcuni aspetti che attengono dinamiche, respiri, svolgimento degli abbellimenti e così via in modo altrettanto efficace e filologicamente scrupoloso. Da La Dauphine di apertura alla conclusiva Livri, Ciammarughi mostra generalmente chiarezza rispetto alle linee dei vari brani, ancorché non sempre ravvisiamo (scelte estetiche e drammaturgiche a parte) perfetta fluidità e scorrevolezza. E, Deo gratias, Ciammarughi ripete i ritornelli. Lo segnaliamo in accordo a quanto annotò Svjatoslav Richter, il quale deplorava il non ripeterli, ma anche richiamandoci all'autorità di Claudio Abbado, che con molta semplicità e immediatezza volle chiarire che i ritornelli si dovrebbero eseguire non perché lo prescrivono i musicologi, insomma non per pedanteria, ma perché la ripetizione fa parte del brano, sem-
plicemente! Bravo, Ciammarughi: sappia che da lui continueremo ad attenderci, più che, per dire, l'integrale delle Sonate di Beethoven o gli Studi di Chopin, dischi di questa fattura, capaci di svelare legami, di indicare percorsi e di stimolare la nostra curiosità. Il librettino guida, redatto dallo stesso interprete, è in italiano e in inglese.
Marco Testa
Come nasce l'idea di questo disco?
Da molti anni avevo in mente di incidere un album dedicato a Rameau, compositore che è sul mio leggio dal 2004. Cosciente dell'esistenza di incisioni pianistiche di gran pregio, a partire da quelle leggendarie di Marcelle Meyer degli anni '40 e '50, ho atteso a lungo prima di trovare una chiave di lettura che giustificasse una nuova registrazione. L'idea mi è balenata mentre, nel 2021, visitavo all'Opéra de Paris una stupenda mostra monografica su Camille Saint-Saëns, nei 100 anni dalla morte del compositore. Sapevo già che Saint-Saëns era stato un pioniere nella riscoperta di Rameau, fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Proprio sulle edizioni Durand curate da Saint-Saëns avevo iniziato vent'anni fa a leggere le Pièces de Clavecin di Rameau, prima di passare all`Urtext. E quindi ho pensato: perché non immaginare un Rameau “nello specchio di Saint-Saëns", ovvero suonato su un pianoforte della sua epoca e con un'idea estetica che provasse ad avvicinarsi a quel mondo oggi perduto? Intendo un mondo fatto di esprit de clarté, difficile da riprodurre sui potenti gran coda dei giorni nostri, ma anche il mondo delle fêtes galantes, in una Francia fin de siécle che guarda nostalgicamente alla grazia vagamente sensuale degli antenati settecenteschi. In quella stessa mostra parigina, ho notato da alcune foto che Saint-Saëns suonava spesso pianoforti Steinway: perciò la scelta è caduta su uno Steinway del 1888 (collezione di Marco Barletta), uno strumento che mi è parso molto adatto per dar voce all'immaginario di Rameau.
Quali problemi esecutivi pone l'esecuzione di Rameau al pianoforte, e particolarmente su uno strumento storico come quello che ha scelto?
In generale, la musica clavicembalistica francese pone il problema degli abbellimenti. Si tratta innanzitutto di un problema di notazione, che spesso fa perdere motivazione ai pianisti che provano ad affrontare questo repertorio: per decifrare tutti gli abbellimenti nella notazione originale francese (diversa da quella a cui siamo abituati) ci vuole pazienza. A livello esecutivo, invece, il problema sta nel fatto che la tastiera del pianoforte è più pesante rispetto a quella del cembalo, e quindi l'esecuzione della miriade di mordenti, trilli, coulés risulta più difficoltosa. Saint-Saëns, nella sua edizione, rende più “pianistici" alcuni abbellimenti: la sua edizione è oggi discutibile filologicamente, ma ha un'efficacia pianistica indubbia. Io ho cercato di trovare un punto d'incontro fra il punto di vista “filologicamente informato" e quello di Saint-Saëns. Il mio obiettivo era alla fine un dialogo a tre: fra il testo originale, l'adattamento pianistico di Saint-Saëns (che comunque non si allontana moltissimo dal1'originale) e la mia personale sensibilità di pianista del XXI secolo. Per quanto riguarda lo Steinway del 1888, devo dire che la sua tastiera più leggera rispetto a quella dei gran coda novecenteschi e attuali mi ha aiutato nel perseguire uno dei miei obiettivi, ovvero l'evitare una certa pesantezza che nuocerebbe terribilmente a questo repertorio. Non so se ci sono riuscito, ma desideravo che, nonostante le tante note, risultasse quella levità e ariosità che ritrovo anche nei quadri dei pittori contemporanei di Rameau, come Watteau
e Fragonard (incredibile il modo in cui quest`ultimo dipinge le nuvole!).
Quali, invece, i rischi in cui ci si può imbattere?
Secondo me ci sono due rischi principali. Il primo è romanticizzare in eccesso questa musica, che spesso è talmente espressiva e suadente (si pensi all'Allemande che apre la Suite in la minore oppure alla Livri) da portarci a un'esecuzione “col cuore in mano”, piena di rubati, crescendo ciclopici e estenuati diminuendo che ne tradirebbero il carattere. Il mondo di Rameau ha aspetti anche radicali, come ben mostra il suo teatro, ma vi è in esso una certa sprezzatura che è in parte legata all'eredità cartesiana e alla natura di scienziato-filosofo dei suoni. Le passioni ci sono, ma sono spesso vissute “dall'a1to": c'è qualcosa di fatalistico nella sua musica, che mal sopporta gli eccessi di soggettivismo da parte dell'interprete. In questo trovo dei punti di contatto con Schubert. Il secondo rischio, opposto, è quello di trasformare questa musica, come già avvenuto in passato con quella di Bach e Scarlatti, in uno “scioglidita" pianistico privo di qualsiasi pathos. Un tempo, troppi pianisti si avvicinavano al barocco come a un repertorio propedeutico al Grande Repertorio romantico: come se si trattasse di esercizietti piacevoli fatti per acquisire scorrevolezza (anche Mozart purtroppo è stato considerato spesso così). Si tratta di un equivoco imbarazzante, che ancor oggi infesta buona parte della didattica pianistica. E forse per tale ragione che a me piace sottolineare le inegalités (ineguaglianze) ritmiche in questo repertorio: detesto l'idea di eseguire questa musica in modo scorrevolmente omogeneo. In generale, non amo proprio l'omogeneità eccessiva, sia nei pianisti sia nei pianoforti.
Molte delle pagine che ha scelto hanno un evidente intento mimetico: il linguaggio musicale che usa Rameau per descrivere situazioni, personaggi, ambienti è ancora oggi perfettamente comprensibile o all'interprete spetta il compito di '“mediare”?
Direi che è ancora pienamente comprensibile. Il dilemma, per l'interprete, sta nel decidere quanto caratterizzare quei personaggi e quelle situazioni. Prendiamo Les Sauvages, brano clavicembalistico che ritroveremo poi orchestrato nelle Indes Galantes. Rameau evoca qui le danze di due capitribù indiani della Louisiana che aveva visto danzare a Parigi. Ora, la domanda è: quanto peso dare alla componente “selvaggia”, esotico-dionisiaca? Quanto considerare invece il fatto che Rameau filtra comunque quei ritmi venuti dalle Americhe con il gusto settecentesco francese? Io credo che si tratti di un'operazione di melting pot, e quindi tento di trovare un equilibrio, una fusione fra le due dimensioni. Rameau, che qualcuno oggi stupidamente potrebbe tacciare di “appropriazione culturale” di materiali indigeni, realizza in realtà un'integrazione straordinaria. Tornando al punto: secondo me è importante che l'interprete sia cosciente dell'immaginario presente in questi brani (la gallina, le lavoratrici a maglia, le tre mani, l'egiziana, l'indifferente, nonché tutta la galleria esotica delle Indie galanti), ma anche del fatto che non si tratta strettamente di “musica descrittiva": questi brani avrebbero una loro bellezza intrinseca, “assoluta” per così dire, anche se non sapessimo di cosa trattano.
Appare interessante il parallelismo tra Rameau e Saint-Saëns: due rivoluzionari che finirono per diventare (o essere visti come) reazionari. Una lettura giustificabile, storicamente e musicalmente?
Certamente sì. Saint-Saëns fu il fautore della prima grande edizione delle Oeuvres complètes di Rameau (incompleta solo a causa della morte del compositore di Samson et Dalila). Oltre a questo importante dato oggettivo, però, c'è un altro aspetto cruciale: Rameau divenne, non solo per Saint-Saëns ma anche per Debussy, l'emblema di una nitidezza e di un “gusto perfetto" da opporre a un wagnerismo di maniera, che in Francia portò in effetti a esiti spesso deludenti. Rameau è quindi anche una porta d'accesso al Novecento: una sorta di “viatico” per combattere gli eccessi di retorica, le fumosità, e riscoprire un`essenzialità che diviene poi una delle porte d`accesso al Novecento (non è affatto casuale che la grande ramista Marcelle Meyer fosse musa del Group des Six e di Cocteau). Per quanto riguarda la dinamica rivoluzione/reazione, credo sia normale, quando si ha una vita molto lunga (ed è il caso sia di Rameau sia di Saint-Saëns), non ritrovarsi sempre nelle mode e nelle tendenze della generazione più giovane.
Quali pianisti o cembalisti sono, a suo avviso, più interessanti nell'esecuzione della musica di Rameau?
Per il pianoforte resta imprescindibile Marcelle Meyer, piena di charme ma anche di febbrile concretezza. Sono molto affezionato anche al CD di Alexandre Tharaud, pieno di poesia ineffabile. C'è inoltre Sokolov, naturalmente, che stupisce per gli abbellimenti stratosfericamente nitidi e rapidi (ma in
lui non trovo quel gusto dell'inegalité che prediligo). Per quanto riguarda il clavicembalo, mi appassionano soprattutto Scott Ross e Christophe Rousset. Magistrali anche le incisioni di William Christie, Kenneth Gilbert, Trevor Pinnock, nonché, nelle generazioni più vicine a noi, quella di Blandine Rannou. Anche Jean Rondeau mi piace, sia come musicista sia per il suo lato trasgressivo nello scombinare i “codici” tradizionali della musica classica. Infine, un'ulteriore chicca pianistica d'antan: Le rappel des oiseanx suonato da Emil Gilels, in modo sublimemente nostalgico.
Nicola Cattò
("MUSICA", n.340, ottobre 2022"
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