Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, maggio 22, 2024

Karel Ancerl: l'ultimo nipotino di Dvorak

Quando compose 1'opera La sposa 
venduta, fra i1 1863 e il 1866, Bedrich Smetana non poteva pensare ad una vasta diffusione internazionale del suo lavoro. L'argomento popolare boemo non sarebbe stato di per sé di intralcio, ché, anzi, i paesani in braghe delle piccole nazioni piacevano al pubblico cosmopolita; ma la lingua boema era top secret per tutti quelli che non s'erano abbeverati alle fonti della Moldava, e la forma che alternava canto e recitazione era gradita solo in Germania. Con la traduzione tedesca la Sposa venduta avrebbe guadagnato un confortevole bacino d’utenza. Ben difficilmente sarebbe pero arrivata a Milano e a Napoli, o a New York o a Londra o a Buenos Aires o a Madrid, dov'era di rigore il linguaggio italiano: magari incomprensibile ai più, ma gradevole all'orecchio, mentre le lingue slave sembravano adatte solo a cantanti col fil di ferro nel gargarozzo.
La Sposa venduta ebbe successo a Praga, venne tradotta in tedesco e si diffuse in Germania, non comparve, com’era prevedibile, al di là dei fiumi e delle montagne che delimitano i paesi di lingua tedesca. Ma 1'ouverture varcò tutti i confini.
L’ouverture era brillante e spigliata. Il suo successo fu però dovuto prima di tutto alla sua parte iniziale, che metteva splendidamente in mostra 1e virtù degli strumenti ad arco (o che ne metteva in luce le manchevolezze). Siccome nell’ultimo trentennio del secolo stavano pullulando in tutto il mondo le iniziative sinfoniche - e continuative, come nei paesi anglosassoni, e saltuarie, come nei paesi latini -, i direttori d’orchestra trovarono nella ouverture della Sposa venduta, e nella ouverture del Prometeo di Beethoven, una palestra di prova per l'agilità d'arco dei loro strumentisti. E il nome di Smetana divenne popolarissimo ovunque.
Non sembra che Smetana possedesse, nell'orchestra del Teatro Provvisorio di Praga, uno strumento veramente all’altezza dei virtuosismi della sua ouverture: l’orchestra non era famosa in Europa, né era famosa la scuola boema dell’arco. Trent'anni più tardi, quando dall'orchestra del Teatro Nazionale nacque l’Orchestra Filarmonica Ceca, la scuola boema dell’arco, grazie a Sevcik, era ormai all’avanguardia.
I violinisti apprezzano molto le genealogie, e sono fieri di uscire, sia pur alla lunga, dalla costola d’Adamo. I boemi, in particolare, rivendicano come loro progenitore Viotti, che tra i suoi allievi ebbe Friedrich Wilhelm Pixis, dignitoso violinista tedesco che a Praga insegnò a lungo. Tra i suoi allievi si conta - ed è l’anello un po’ debole della catena - Anton Bennewitz; ma con Bennewitz studiarono Sevcik e Ondricek.
Otakar Sevcik, nato nel 1852, dopo gli studi nel conservatorio di Praga lavorò a Salisburgo, al Teatro Nazionale della sua città, a Vienna, a Kiev. Nel 1892 cominciava ad insegnare nel conservatorio di Praga, e con lui nasceva una scuola boema del violino che avrebbe reso affannoso il sonno ai maghi dell’arco russi come ai tedeschi come ai francesi. La Scuola della tecnica violinistica di Sevcik, op. 1, uscì a Praga nel 1881. Nel 1895 uscì a Lipsia l'op. 2, Scuola della tecnica dell'arco. Su questi due piloni, summae della genialità didattica di Sevcik, venne costruito il vascello della scuola boema, tanto ben armato che nel 1904 settantaquattro allievi del Maestro avrebbero eseguito a Praga, all'unisono, il Moto perpetuo di Paganini.
Un altro allievo di Bennewitz nel conservatorio di Praga, Frantisek Ondrícek, un po' più giovane di Sevcik perché nato nel 1857, fin dagli anni Ottanta aveva conquistato una grande fama internazionale di
concertista, eseguendo il Concerto di Dvorak che il grande Josef Joachim aveva rifiutato. Ondrícek fondò più tardi un quartetto e girò il mondo in lungo e in largo: morì - curioso - nella stazione di Milano, nel 1922.
Con Ondrícek prima (1890-91), con Sevcik poi (1892-98) studiò Jan Kubelik, nato nel 1880, uno dei più grandi virtuosi che il violino abbia mai conosciuto. Un altro violinista destinato ad una grande carriera studiò dal 1896 con Sevcik: Jaroslaw Kocian, concertista celebre che molti anni più tardi sarebbe diventato assistente del suo maestro. Insomma, come ho detto, già alla fine del secolo Praga era una delle indiscusse capitali mondiali del violino.
Tra i tanti giovanotti che negli anni Novanta tiravano l'arco secondo i canoni della scuola di Praga c'era Oskar Nedbal. Nel 1889 un celebre violoncellista boemo, Hanus Wihan, tornò a Praga da Monaco per insegnare nel conservatorio musica da camera. Wihan, prossimo ispiratore del Concerto per violoncello di Dvorak, nel 1891 formò, con quattro suoi allievi, un quartetto, il Quartetto Boemo: i violinisti erano Karel Hoffmann e Josef Suk (destinato poi ad una carriera di compositore), il violista era Nedbal, il violoncellista Oskar Berger.
Il diciassettenne Nedbal, che aveva il bernoccolo degli affari, oltre a suonar la viola si occupò anche di organizzare le tournées del complesso. Studiava inoltre composizione con Dvorak, Oskar Nedbal, quando Dvorak non stava a New York, componeva, dirigeva l'orchestra. L'orecchio di Nedbal è una leggenda: non solo non gli scappava nulla, quando concertava una partitura, ma poteva entrare in sala durante la prova di un altro direttore, ascoltare, ed andarsene brontolando perché al quarto leggio dei primi violini c'era un disgraziato che in un certo passo suonava sol naturale invece di sol diesis senza che quello scemo sul dicesse niente.
Dvorak, che era il maggior musicista boemo vivente, diresse il 4 gennaio 1896 il concerto inaugurale dell'Orchestra Filarmonica Ceca. Ma alla direzione stabile fece chiamare il ventiduenne Oskar Nedbal, che mantenne il comando fino al 1906.
Nedbal se ne andò da Praga nel 1906 perché voleva affermarsi come compositore. A Vienna diresse la Tonkünstler-Orchester, ma ottenne un enorme successo con le operette, specie con Polenblut, Sangue polacco (1913). Dal 1918 riprese per breve tempo la direzione della Filarmonica Ceca, poi passò al Teatro di Bratislava, divenendone anche impresario. Nel 1928 fondò l'Orchestra Sinfonica della Radio di Praga e Bratislava, appena arrivò il film sonoro scrisse le musiche per un San Venceslao. Insomma, un musicista vulcanico che si buttava su tutto, persino come imprenditore. E da uomo all'antica, trovandosi in seri guai finanziari, Nedbal trasse le conclusioni che l'etica dell'imprenditore gli imponeva: il 24 dicembre 1930 si suicidò.
Nel 1919, dopo il temporaneo ritorno di Nedbal, la direzione stabile della Filarmonica Ceca venne assunta da Václav Talich, che la mantenne fino al 1941. Talich, nato nel 1883 in Moravia, aveva studiato con Sevcik dal 1897 al 1903, quand'era divenuto primo violino dei Filarmonici di Berlino. Dal 1905 al 1907 aveva lavorato a Tiflis, nel 1908 era diventato direttore della Filarmonica Slovena di Lubiana, nel 1912 era passato al Teatro d'Opera di Pilsen, dov'era rimasto fino al 1915.
Nel 1919 Praga non era più la capitale di uno stato dell'Impero austriaco, ma di una repubblica indipendente. E la piccola repubblica di Cecoslovacchia ebbe, dalle mani di Václav Talich, un'orchestra sinfonica che poteva reggere il confronto con le maggiori istituzioni europee. Che c'era di strano, del resto? La piccola Cecoslovacchia aveva in Planicka uno dei più famosi portieri, la piccola Cecoslovacchia arrivò a un passo dal vincere il primo campionato del mondo di calcio, la piccola Cecoslovacchia stava allevando, in Drobny, uno dei più grandi tennisti mai esistiti, la piccola Cecoslovacchia metteva all'onore del mondo il successore di Jan Kubelík, Vása Príhoda, quello che per un virtuoso come Ruggero Ricci era "il" violinista in assoluto. Perché non avrebbe dovuto avere una grande orchestra e un grande direttore?
Nel 1941 Václav Talich, che dal 1932 insegna direzione d'orchestra nel conservatorio e che dal 1935 è direttore artistico ed amministratore del Teatro Nazionale, lascia la Filarmonica Ceca. Gli succede Raphael Kubelik, figlio di Jan, che guida la Ceska fino al 1948. Nel 1949 la direzione stabile è affidata interinalmente a Karel Sejna; nel 1950 viene nominato Karel Ancerl, allievo di Talich e di Scherchen, assistente di quest'ultimo a Berlino e a Monaco, direttore dell'Orchestra Sinfonica di Radio Praga dal1933 al 1939 e dal 1947 al 1950.
L'ho presa lunga - vero? - per arrivare fino ad Ancerl. Ma se mi fossi limitato a dire che Ancerl era un talento naturale, un musicista coltivatissimo, un tecnico elegante e disinvolto avrei detto troppo poco. Perché Ancerl era tutto questo, ma era anche il prodotto e il custode di una tradizione. Gli archi della Ceska, che negli anni Sessanta sanno volteggiare come equilibristi sulle insidie della ouverture della Sposa venduta, sono gli eredi dei settantaquattro violini che nel 1904 eseguivano tutti insieme il Moto perpetuo di Paganini. L'orchestra che esegue la Sinfonia del Nuovo Mondo è l'erede dell'orchestra che Dvorak se lo era trovato di fronte, che era stata guidata da OskarNedbal, che era stata tenuta con pugno di ferro da Václav Talich. Il rampollo di un duca, educato nel castello di famiglia, sa comportarsi a tavola o a cavallo o in società con una grazia che neppure la più accurata educazione potrà dare al figlio di un ricco commerciante di scarpe. E Karel Ancerl sa benissimo che gli stacchi di tempo, i colpi d'arco, l'espressione radicati nella sua orchestra sono il raffinamento di indicazioni interpretative che risalgono ai padri fondatori della cultura nazionale e che sono state gelosamente custodite.
Raphael Kubelik, grandissimo musicista, abbandona Praga nel 1948. Nei quattro anni, dal 1950 al '53, in cui dirige la Sinfonica di Chicago, nei diciannove anni, dal 1961 al 1979, in cui dirige la Sinfonica della Radio Bavarese, esegue gli autori del suo paese e li esegue secondo le tradizioni culturali apprese in patria. Ma altro è insegnare ad orchestre straniere, altro è intendersi con chi in quelle tradizioni è cresciuto. Nei diciannove anni in cui resta a capo della Filarmonica Ceca, dal 1950 al 1968, Ancerl porta a compimento ciò che era cominciato a Praga il 4 gennaio 1896, percorrendo una traiettoria che non è di banale conservazione ma di sviluppo. E mentre Ancerl lavora con la Filarmonica Ceca un altro grandissimo direttore, Zdenek Chalabala, lavora all'Opera di Praga.
Talich scompare nel 1961, Chalabala nel1962. Nel 1968, dopo l'occupazione sovietica, Ancerl non rientra a Praga, stabilendosi in Canada dove morirà nel 1973. A sostituirlo viene chiamato Václav Neumann, direttore del Gewandhaus e dell'Opera di Lipsia. E con Neumann qualcosa, nella grande tradizione ceca, si rompe, o per lo meno si attenua. Le incisioni dei lavori sinfonici e delle opere teatrali di Smetana, Dvorak e Janácek che ci hanno lasciato Ancerl e Chalabala rappresentano un culmine che non viene mantenuto da Neumann (che viceversa è un grande direttore mahleriano, oltre che di Martinu). In fondo, è una vecchia legge storica: una grande esperienza culturale si esaurisce nel corso di
sessanta-settant'anni, cioè attraverso l'opera di due generazioni di musicisti. E di quelle due generazioni, Ancerl è l'ultimo, l'ultimo nipote di Dvorak.
Piero Rattalino
("Symphonia", N° 36 anno V, Marzo 1994)

sabato, maggio 11, 2024

Anno 1961 - Svolgimento premiato

TEMA N. 1 - Dite le vostre impressioni su una delle composizioni eseguite nel concerto di oggi, ponendola in relazione, se lo ritenete opportuno, con l'insieme dell'opera del suo autore.
Programma musicale:
- R. Strauss, Don Giovanni, poema sinfonico op. 20
- M. Ravel, Concerto per la mano sinistra
- A. Casella, Serenata, versione per orchestra)
 
Da quando ascoltai per la prima volta il poema straussiano (e fu un amico che mi portò alcuni dischi) esso rimase in me come un'opera densa di fascino, strana, che dapprima non riuscivo a spiegarmi, anche perché mal conoscevo il suo autore e non avevo molta dimestichezza con la musica post-romantica; sentivo affiorarmi nella mente impressioni vaghe e mal definibili, avvertivo nei confronti della musica che allora era al centro del mio interesse (Beethoven, Mendelssohn, Schubert, ecc.) un distacco accentuato pur permanendo ancora in quell'opera un linguaggio ancora in gran parte tradizionale. Lo stesso titolo, Don Giovanni, non riusciva ad allontanare quel senso indeterminato che si era stabilito nel mio animo, anzi (col ricordo dell'opera omonima di Mozart) aggiungeva alla mia mente nuova oscurità, pur restando indissolubilmente legato con le gradazioni letterarie e culturali che questo nome tanto trattato attraverso la letteratura (da Zorilla a Molière al Convitato di Pietra di Puskin e Kierkegaard ecc.) evocava in me. E tuttavia tale oscurità approfondiva e allargava il fascino della composizione a cui subito mi affezionai intensamente. Mi piaceva nei pomeriggi, quando fuori era grigio, abbandonarmi su una poltrona ad ascoltare i suoni inebrianti, immaginando qualche trama ipotetica, o meglio qualche scena, o qualche svolgimento lirico-filosofico. Immaginai un seduttore che rievoca la passata attività e l'ebbrezza contenuta in essa; ed affioravano alla mia fantasia scene d'amore in una trasfigurazione che andava cogliendo elementi autobiografici e fantasticherie trascorse, riportava i miei pensieri domenicali ed i miei sogni d0infanzia. Era un istintivo confluire in quelle note o meglio dapprima un evocare di quelle note di una parte di me, che si definiva e si fissava poi nella bellezza e nella forma della musica, diveniva dapprima riflesso soggettivo e tutto personale, chiarendosi poi nella oggettività dell'opera.
La stessa lirica di Baudelaire, Don Giovanni all'inferno (e allora ero un lettore appassionato dei Fiori del Male) si univa con le sue impressioni a tutto questo mondo: con un barlume di oltretomba, un'ulteriore tinta a tutte le mie sensazioni. In questo senso il poema di Strauss, come capita per tante altre opere letterarie ed artistiche, divenne un elemento in cui si andò fissando tutto ciò che di più bello e di più intenso sentivo e sognavo in quei mesi, a cui tutte le mie evasioni della fantasia (ma non erano che il più vero sviluppo di me al di fuori degli schemi e delle convenzioni sociali) si legarono definitivamente (e trovarono purificazione in quelle note). Ma approfondire tutto ciò e spingermi più oltre nella riconquista di quei momenti segnerebbe sempre più il distacco dall'opera che voglio esaminare e diverrebbe lavoro tutto personale, e per quanto non possa prescindere nella mia valutazione dell'opera da questi elementi, desidero tuttavia attenermi strettamente ad essa.
Con la conoscenza più diretta di Strauss e della cultura del suo tempo cominciai a definirmi più chiaramente l'opera e ad impostare su di essa considerazioni più oggettive e concrete; la lettura di Nietzsche fu fondamentale per queste conoscenze tanto più che ritrovai il capolavoro nietzschiano (Così parlò Zaratbustra) nella ricostruzione musicale di Strauss. Ebbi poi modo di ascoltare altri poemi di Strauss da Morte e Trasfìgurazione a Till Eulenspiegel a Macbeth a Vita d'eroe e brani delle sue celebri opere (Il Cavaliere della Rosa e Salomé) e per quanto nulla mi colpisse così profondamente come il Don Giovanni, tutto ciò poté tuttavia definirmi meglio il musicista e porgere alla mia mente il materiale per le considerazioni e il concetto che andavo facendomi di lui.
Hoffmansthal, George, Rilke mi portarono il soffio lirico della sua società, contribuirono a sollevare in me e a collegare con R. Strauss varie altre considerazioni, che andarono sempre più allargando il quadro
che mi stavo formando di lui e della cultura su cui si mosse. Ma pur legato in qualche modo a tutto ciò, il poema resta tutto definito in se stesso, autonomo nella sua intensa bellezza e ricco di una ebbrezza così forte che mi sconvolge ad ogni nuovo ascolto. Ed oggi ho potuto riascoltarlo, ed ho atteso con impazienza, già immerso nell'atmosfera vastissima che il suo nome evoca in me. Durante l'esecuzione ho ripercorso le sue note e l'ho rivissuto di nuovo in se stesso, nella sua oggettiva bellezza, pur nell'alone già così ampio della fantasia, come se lo ascoltassi per la prima volta. Già dalle prime note mi sono sentito rinascere: nella musica, nell0adesione completa alla sua intrinseca bellezza; tutti i ricordi, le fantasticherie, le culture erano al di là  di tutto questo, costituivano il mezzo attraverso cui io giungevo ad essa. Dapprima un'atmosfera di festa solenne, uno svolgersi in movimenti ampi e tesi, sviluppi alterni di solenne esultanza, e tuttavia già suoni acuti su questa forma ampia, definiti in punte intense. Quasi un passeggio di amanti al tramonto in viali profumati, in una atmosfera carica di vibrazioni inebrianti, e pur tuttavia da tutto ciò si leva anche un acuto effondersi di inquietudine. Ma tutto ciò è più solenne nella musica (un ballo forse) e del resto tante scene potrebbero entrare in quelle note che tutte le comprende ma si cancellerebbero subito in quello svolgimento che opera, più che con oggetti e atteggiamenti concreti, con un insieme di movimenti dello spirito che trovano autonomo sviluppo. Un senso eroico e dionisiaco insieme si va diffondendo sempre più, sono cadenze ebbre e cariche di suggestione che si sviluppano mentre l'orchestra accarezza il sangue e lo fa pulsare più forte, pervade sempre più l'ascoltatore ponendolo in uno stato di intensa voluttà (come una notte serena d'estate in un giardino dove si sta svolgendo una festa in cui si possiede la donna amata) eppure una strana inquietudine si alza da tutto questo e ne è alla base, un senso di spasimo che accoglie ebbrezza ed
oblio, sentimento del tempo e del suo dissolversi, una insoddisfazione che permane al fondo e che ancora anela a dell'altro, si volge verso questo cos'altro ancora per una ebbrezza ulteriore, che recherà poi a sua volta in sé, come elemento fondamentale, anche il sentimento della sua precarietà e della sua incompletezza per cui sbocca il desiderio di proseguire ancora in cerca d'altro. E subito balza evidente l'allacciamento a Wagner e in particolare al Tristano e Isotta (Preludio e Morte) ed è ben noto quanto debba culturalmente a Wagner Strauss. Anche il tema dell'amore, del possesso, della voluttà erotica che si identifica sempre più con la volontà stessa (in senso schopenhaueriano) che è alla base di tutta la vita e del suo sviluppo. Strauss, pur affondando le sue radici in Wagner, si svolge in modo tutto suo, concretando in miti più chiari e conclusi le sue concezioni, ricevendo un altro potente influsso dal coetaneo Nietzsche; è lo sforzo dell'uomo che supera  se stesso, che raggiunge mete nuove, che cammina verso il superuomo (in analogia con Nietzsche) che egli vuole cogliere e rappresentare nei suoi poemi; e questo cammino egli lo sente grandioso e fantastico (pur così reale nella adesione del tempo e della cultura di allora) e basta scorrere i titoli da Morte e Trasfigurazione a Vita d'eroe, per convincersi subito di tutto ciò.
Profondamente radicato nel suo tempo dunque Riccardo Strauss appare così vibrante di effetti nuovissimi, cosi strettamente caratteristici della sua attività. E veramente Strauss è una delle voci più intense ed indicative del graduale avvicinamento alla nostra epoca (e se Shostakovich reca ancora molti ricordi straussiani) coscienza inquieta e vibrante che si staglia a fianco di Debussy e di Brahms a rappresentare nel secondo Ottocento, la consapevolezza di un trapasso a una nuova epoca, e con Brahms attraverso la sua inquietudine musicale e la novità degli atteggiamenti (pur così radicati come si è visto in Wagner). Tuttavia rappresenta ancora in gran parte l'Ottocento pur vivendo nel passaggio che raccoglie in sé già gli elementi di uno sviluppo nuovo. Ma tornando alla composizione, essa esprime, a mio avviso, l'esaltazione, in un senso eroico-decadente, dell'amore; è il poema dell'amore e delle sue ebbrezze. Un amore che come si è già accennato diventa momento di quella stessa volontà di vita e di conquista le cui radici sono in Schopenhauer e che trova in Nietzsche così ampio e particolare sviluppo. L'amore che diventa la vita stessa ed espressione attraverso cui si esprime integralmente l'uomo (e non mi sembra inopportuno ricordare Kierkegaard e lo «stadio estetico›› rappresentato dal seduttore anche se poi la soluzione del filosofo danese affonda nell'assurdo della fede). L'amore che solleva ad altezze sempre più grandi e che nella conquista della donna sempre più si esprime e si esalta, qualcosa che pervade l'animo in una ebbrezza indicibile e che pur si perpetra indefinitamente avendo alla base l'affermazione continua di un desiderio inappagato. E tutto questo trova nel poema straussiano così lucido e potente sviluppo, in risultati di una intensità sconvolgente.
Si alternano scene di quiete in cui l'animo rilassato tace e ascolta solo la sua ebbrezza, poi di nuovo quasi drammaticamente il desiderio e la volontà si prendono, si esaltano e si potenziano nel possesso della donna, che diventa elemento fondamentale per l'affermazione dell'uomo. Momenti di una felicità quasi raggiunta brillano chiari qua e là ma pur si sente qualcosa di inquieto che presto li rovescia e torna a costituire un sentimento di ricerca, di desiderio, quasi di lotta. È l'inquietudine dell'uomo, dell'uomo particolarmente del secondo Ottocento, coscienza di una dilacerazione intrinseca, senso di sfiducia che mai si perde, ma che sopravvive ad ogni nuovo appagamento. Ma la soluzione straussiana di tutto ciò vive in un appagamento e in una compiutezza strettamente estetica e pur quando sullo scorcio e sul fondo su cui si muove il suo canto sconvolgente e solenne si sente il mondo ottocentesco che si va dissolvendo, la vecchia Vienna che sta languendo. (E sarà opera di Musil lasciarci una testimonianza letteraria di questo periodo). Ma come i versi di Hoffmansthal e di George nelle solennità religiose (e si potrebbe citare Mallarmé che visse in Francia così intensamente questo momento romantico), così anche Strauss costruisce il suo mondo autonomo e concreto nella fermezza incancellabile dell'arte. E tutto parla in queste note vibranti fino allo spasimo di una profondissima esperienza estetica (e anche Debussy nel Prélude lascia analoga testimonianza).
E' insomma una delle opere che esprimono una concezione dell'amore tutta dionisiaca esaltata in una specie di paganesimo e tutta  la cultura morbosa e aristocratica del secolo Ottocento trova veramente in quest'opera uno dei suoi monumenti più alti e rappresentativi.
Sante Cavina (1° premio, Anno 1961)
(Liceo Classico G. B. Morgagni - Classe III - Forlì)

mercoledì, maggio 01, 2024

Francis Poulenc: Les dialogues des Carmélites

Milano, 26 gennaio 1957
I tedeschi, che trovano sempre una parola per tutto, la chiamano Literaturoper. Che sarebbe come a dire un melodramma il cui testo non è più un libretto (un derivato, un surrogato) ma l’opera letteraria stessa. Il rifiuto di ogni mediazione librettistica corrisponde naturalmente a un gesto orgoglioso e liberatorio: abbandonati i complessi d’inferiorità del passato, l’opera si sente ora alla stessa altezza dei capolavori letterari. La prima Literaturoper a far scuola fu Pelléas et Mélisande (1902) in cui Debussy realizzò una versione musicale della famosa pièce di Maeterlinck. Seguì Wozzeck di Alban Berg (1925), un’intonazione del dramma di Büchner da poco riscoperto. Per capire il senso di questo nuovo incontro tra musica e letteratura, si legga quanto scrive lo stesso Poulenc a proposito dei Dialogues des Carmélites: «Conoscevo […] il dramma di Bernanos, che avevo letto, riletto e visto due volte, ma non avevo alcuna idea del suo ritmo verbale, particolare che per me è capitale» (corsivo mio). Dunque non è tanto nelle situazioni o nei personaggi che si trova la chiave della possibile trasformazione in opera, quanto piuttosto nelle parole, nel «ritmo verbale» di Bernanos. E sarà proprio la capacità di rendere il testo bernanosiano in modo così trasparente e discreto l’arma vincente di Poulenc. Va da sé che un intervento di modifica (già abbondantemente usato da Debussy) è ammesso nella Literaturoper: mi riferisco ai tagli di porzioni anche significative del testo originario. Così ad esempio Poulenc salta a piè pari il prologo di Bernanos (due scene di sole didascalie) col panico della folla, la nascita di Blanche e la morte della marchesa. Un antefatto recuperato poi per bocca del Marchese de la Force che nel primo quadro dell’opera racconta l’episodio di quindici anni prima usando sostanzialmente le parole della didascalia del prologo bernanosiano. Ma nonostante questa e altre varianti, il risultato è una musica che sembra scaturire dal testo stesso di Bernanos. Una musica che fonda la sua ragion d’essere in una speciale sensibilità letteraria. Non a caso, nel Journal de mes mélodies, Poulenc scrive: «Se sulla mia tomba comparisse l’epitaffio: Qui giace Francis Poulenc, il musicista di Apollinaire e di Éluard, credo che sarebbe il mio più bel titolo di gloria».

Fu il direttore della Ricordi, Guido Valcarenghi, a proporre i Dialoghi delle Carmelitane a Poulenc nel 1953. La première mondiale dell’opera sarebbe avvenuta, in italiano, al Teatro alla Scala il 26 gennaio 1957 sotto la direzione di Nino Sanzogno con un cast che comprendeva Virginia Zeani (Bianca), Gianna Pederzini (la prima Priora), Leyla Gencer (la seconda Priora), Gigliola Frazzoni (Suor Maria), Eugenia Ratti (Costanza). In francese, l’opera venne rappresentata per la prima volta all’Opéra di Parigi il 21 giugno 1957. Poulenc dedicò la sua partitura «Alla memoria di mia madre che mi ha rivelato la musica, di Debussy che mi ha dato il gusto di scriverla, di Monteverdi, Verdi e Musorgskij che mi sono stati, qui, di modello». Non è impossibile stabilire il lascito dei quattro musicisti citati: nelle lettere di Poulenc al baritono Pierre Bernac si capisce che Verdi fu tirato in ballo per il trattamento delle voci («I dischi di Aida mi incantano; ho capito la tessitura del contralto. Molto utile per la morte. I suoni filati della Tebaldi sono l’ideale per la seconda Priora [che sarebbe poi stata interpretata da Leyla Gencer]»). Quanto a Monteverdi e Musorgskij, è interessante citare un’altra lettera di Poulenc (a Henri Sauguet): «Nei Dialoghi è lo spirito di Monteverdi e Musorgskij che mi guida […]. Ho sempre pensato, ad esempio, che l’aria di soprano del Ballo delle ingrate sia proprio il modello di un’aria operistica d’una straordinaria intensità in cui era necessario far comprendere le parole a ogni costo». D’altra parte il modalismo e il clima sonoro dei canti religiosi (il Requiem per la morte della prima Priora, l’Ave Maria al termine della cerimonia di obbedienza alla nuova Superiora, l’Ave verum del Cappellano durante il suo ultimo officio per le carmelitane e il famoso Salve Regina cantato dalle Suore durante l’esecuzione) ha qualcosa di russo-ortodosso, come ha notato Gianfranco Vinay, il che rafforza ovviamente la presenza del modello musorgskiano. Ma è evidente che il vero riferimento, quello più profondo, non solo musicalmente ma anche drammaturgicamente, è Debussy. Il rifiuto dell’effetto che nasce dai contrasti drammatici, l’attenzione ossessiva al «ritmo verbale» del testo, la tematizzazione del silenzio e l’estetica del dépouillement stanno tutti sotto il segno di Debussy. A ciò si deve aggiungere l’uso (discreto ma fondamentale) dei Leitmotive di tipo simbolico-allusivo (non i “motivi conduttori” alla maniera di Wagner) che creano correspondances misteriose e formano un tessuto connettivo tanto musicale quanto narrativo. Così il primo tema che apre l’opera coi suoi staccati ascendenti (così ansiogeni), tema di solito associato al Marchese de la Force, ritorna durante il colloquio di Blanche col fratello (il Chevalier) nel parlatorio del convento, quando quest’ultimo dice alla sorella che «nostro padre ritiene che qui voi non siate al sicuro». Lo stesso tema ritornerà alla fine nella biblioteca del Marchese devastata e «completamente saccheggiata», durante la scena tra Blanche e Mère Marie, allorché la figlia sempre più ossessionata dalla paura («Je suis née dans la peur») – paura che è forse la vera protagonista dell’opera (e che viene sonorizzata in modo mirabile da Poulenc) – ricorda il padre morto ghigliottinato. Il tutto, però, senza troppo rilievo e come inserito in un continuum sonoro da cui i temi sembrano uscire e rientrare… Si sa, per lasciare l’ultima parola a Debussy, «la musica è per l’inesprimibile. Deve uscire dall’ombra ed essere discreta».
Emilio Sala
(Testo tratto dal programma di sala del Teatro alla Scala, Milano, 17 maggio 2000)

Atto primo
Quadro primo - La biblioteca del Marchese de la Force, a Parigi, nell’aprile del 1789. Il Cavaliere de la Force entra in modo irruente nella biblioteca, risvegliando il padre appisolato in una poltrona. Si è permesso di disturbarlo perché è preoccupato per la sorte di Blanche, sua sorella, la cui carrozza teme possa essere stata bloccata da una folla tumultuante. Una carrozza, un tumulto ridestano immediatamente nel Marchese il ricordo della moglie, morta dopo aver dato alla luce Blanche in seguito allo spavento provocato dalla folla che aveva preso d’assalto la carrozza. L’inquietudine del Cavaliere è accresciuta dal fatto che la sorella è per natura estremamente impressionabile e paurosa. Mentre il Marchese cerca di minimizzare le preoccupazioni del figlio, giunge Blanche sana e salva. Spossata dal timore che la folla potesse aggredirla ma anche dalla lunghezza di una funzione religiosa alla quale ha partecipato, chiede al padre il permesso di andarsi a riposare prima di cena. Padre e figlio, dopo aver scambiato qualche battuta, sono sorpresi da un grido di terrore: Blanche si è spaventata alla vista di un’ombra sul muro, proiettata dalla fiaccola del domestico. Ritorna quindi dal padre, e dichiarandosi inadatta e troppo fragile per affrontare la vita mondana, gli chiede il permesso di entrare nel Carmelo, con la speranza che, abbandonando e sacrificando tutto, Dio le restituisca l’onore macchiato dalla sua pavidità.
Quadro secondo - Il parlatoio del Carmelo di Compiègne, qualche settimana dopo. Dietro una grata che la separa dalla Madre Superiora, una suora anziana e malata, Blanche risponde alle domande che le vengono rivolte per saggiare la forza e la serietà della sua vocazione. Blanche risponde che ciò che la spinge a prendere gli ordini religiosi è l’attrazione esercitata da una vita eroica. Al che la Superiora, dopo aver denunciato la natura illusoria di un eroismo così concepito, afferma che l’unica ragion d’essere del Carmelo è la preghiera. Blanche si dichiara disposta ad affrontare le prove più dure pur di entrare in convento perché non le resta altro rifugio. La Madre Superiora le fa allora notare che la Regola non è un rifugio, che non è essa a salvaguardare le carmelitane, ma le carmelitane a osservare la Regola. Le chiede quindi se abbia pensato a un nome da religiosa se verrà ammessa come novizia. Blanche, con grande sorpresa della Superiora, risponde che vorrebbe chiamarsi Suor Blanche dell’Agonia di Cristo.
Quadro terzo - La dispensa all’interno del convento. Blanche e un’altra novizia, Constance, stanno occupandosi delle provvigioni. Constance, una giovane vivace e piena di gioia di vivere, chiacchiera incessantemente di argomenti frivoli e piacevoli, come della festa di matrimonio alla quale ha partecipato prima di entrare in convento. Blanche la rimprovera di tanta gaiezza mentre la Madre Superiora è in fin di vita. Constance, allora, in uno slancio di generosità, si dichiara disposta a offrire a Dio la sua vita in cambio di quella della Superiora, e sollecita a fare lo stesso Blanche, che bolla di infantilismo un atteggiamento simile. Constance dice di essere di parere contrario, di avere sempre desiderato di morire giovane, e di essere anzi certa che il suo desiderio sarà esaudito: la prima volta che l’ha incontrata, ha avuto il presentimento che sarebbero morte entrambe, ancora giovani, lo stesso giorno e la stessa ora, senza sapere di che giorno e di che ora si tratta.
Quadro quartoInfermeria del convento. La Madre Superiora, a letto, è terrorizzata dalla morte che sente approssimarsi sempre più. Le assidue meditazioni nel corso dei decenni che ha passato in convento non le sono servite ad attenuare lo sconforto e la paura presente. A Suor Marie, che la sta assistendo, raccomanda Suor Blanche dell’Agonia di Cristo, la novizia per cui è maggiormente preoccupata. È rimasta colpita dal fatto che abbia scelto lo stesso nome da religiosa che avrebbe voluto scegliere lei stessa quand’era entrata in convento; ma poi vi aveva rinunciato, messa in guardia dalla Superiora di quel tempo che «chi entra nel Getsemani non ne esce più». A Suor Blanche, che ha mandato a chiamare, la Superiora dice che avrebbe volentieri sacrificato la vita per salvarla dai pericoli cui è esposta, ma nell’ora presente non può offrirle che la sua morte, una povera morte. Dopo averle raccomandato la semplicità e la fiducia in Dio, la benedice e la congeda. Ritorna Suor Marie con il medico al quale la Superiora chiede un altro po’ di tonico per poter trovare la forza necessaria a congedarsi dalle sue consorelle. Suor Marie la invita a non preoccuparsi più di altri all’infuori di Dio. Al che la Superiora replica che non sta a lei di preoccuparsi di Lui, ma a Lui piuttosto di preoccuparsi di lei. Suor Marie fa allora chiudere le finestre per evitare che le consorelle possano essere scandalizzate dalla Madre Superiora delirante, che subito dopo ha una visione della cappella del convento profanata e insanguinata. Suor Marie dispone che la vita conventuale si svolga come d’abitudine e fa avvertire le consorelle che non potranno vedere la Superiora nel corso della giornata. Solo Blanche rientra e si avvicina al letto della Superiora che, dopo averle fatto una raccomandazione e aver pronunciato ancora qualche parola sconnessa, muore. Blanche cade in ginocchio, singhiozzando.

Atto secondo
Quadro primo - Nella cappella. Blanche e Constance vegliano il corpo della Madre Superiora. Constance esce a cercare le consorelle che devono darle il cambio. Blanche, spaventata dal fatto di rimanere sola con il cadavere, rabbrividisce e si precipita verso la porta nell’esatto momento in cui entra Suor Marie. Cerca di scusarsi per aver abbandonato il suo posto, ma Suor Marie, imputando più al freddo che alla paura i brividi della novizia, la accompagna alla cella dispensandola dalle preghiere e consigliandola di dormire e di non pensare più all’inadempienza. Domani mattina ne proverà dolore e potrà allora chiedere perdono a Dio.
Interludio primo - Constance e Blanche portano delle composizioni di fiori sulla tomba della Madre Superiora. Constance coi fiori restanti propone di fare un mazzo da offrire alla nuova Superiora. Blanche si chiede se Suor Marie ami i fiori. Constance desidererebbe che proprio lei fosse eletta Superiora, al che Blanche la rimprovera della sua ingenua speranza che Dio esaudisca sempre i suoi desideri. Constance le risponde che magari la logica divina consiste proprio in ciò che gli uomini intendono per casualità. Riflette quindi sulla morte della Superiora. La sua agonia le è parsa troppo lunga e faticosa: come se avesse vissuto una morte che non era la sua, né più né meno come quando per sbaglio si indossa un vestito confezionato su misura per un altro. Quell’altro, al momento di morire, sarà colpito della serenità con cui andrà incontro alla morte: non si muore ciascuno per sé, ma gli uni per gli altri e anche gli uni al posto degli altri.
Quadro secondo - Sala capitolare. L’intera comunità è riunita per giurare obbedienza alla nuova Madre Superiora, che non è Suor Marie, come tutte si aspettavano, ma Suor Marie-Thérèse di Sant’Agostino (Madame Lidoine, secondo lo stato civile), di origini modeste, che con parole semplici predica le virtù essenziali di una carmelitana: la buona volontà, la pazienza e lo spirito di conciliazione. La preghiera è il loro compito principale e nulla deve distrarle da essa; neppure il pensiero del martirio: la preghiera è un dovere, il martirio una ricompensa. L’intera comunità intona quindi l’Ave Maria.
Interludio secondo - Qualcuno suona insistentemente alla porta del convento. È il Cavaliere de la Force che, prima di partire in terra straniera per combattere a fianco dell’esercito controrivoluzionario, vuole parlare a sua sorella. La Madre Superiora, vista l’eccezionalità della situazione e dei tempi, concede questo strappo alla Regola, ma desidera che Madre Marie assista al colloquio.
Quadro terzo - Il parlatoio del convento. Il Cavaliere de la Force cerca di convincere Blanche a ritornare a casa perché suo padre stima che non sia più sicura in convento. Blanche replica dicendo che non si è mai sentita così sicura come ora, ma il fratello, conoscendola a fondo, reputa illusorio questo senso di sicurezza, conseguenza non tanto della paura della realtà esterna, del mondo, ma della paura della paura: bisogna saper rischiare la paura come si rischia la morte; il vero coraggio sta in questo rischio. Blanche cerca di convincerlo che la vita monastica l’ha cambiata. È ormai una figlia del Carmelo che soffrirà anche per lui: anche lei ha una battaglia da combattere, con i suoi rischi e i suoi pericoli. Il Cavaliere de la Force, prima di uscire, la osserva con uno lungo sguardo indefinibile. Blanche, spossata da quel confronto, si sostiene alla grata per non cadere, assalita dal dubbio di aver peccato d’orgoglio. Suor Marie la invita a ricomporsi soggiungendo che l’unico modo per vincere il proprio orgoglio è di salire più in alto di esso.
Quadro quarto - La sacrestia del convento. Il Cappellano ha finito di officiare la sua ultima messa nel Carmelo. Intona l’Ave verum cantato da tutta la comunità. Ormai messo al bando, deve nascondersi e camuffarsi. Constance depreca la codardia dei francesi che permettono che i preti siano perseguitati. Le consorelle si sforzano di comprendere in qual modo la paura si impossessi a poco a poco di tutte le coscienze. La Madre Superiora interviene dicendo che, quando i sacerdoti vengono a mancare, i màrtiri abbondano, e così si ristabilisce l’equilibrio della Grazia. Suor Marie coglie la palla al balzo e propone che le carmelitane si votino al martirio perché la Francia possa ancora avere dei sacerdoti. La Superiora controbatte che è stata fraintesa, e che comunque non sta a loro decidere se i loro nomi debbano comparire sul breviario. Qualcuno suona e bussa violentemente alla porta del convento. Il Cappellano deve nascondersi per non compromettere le monache, le quali, spaventate, si ammassano tutte in un canto della stanza. Suor Marie va ad aprire e tiene testa con molta fermezza e sangue freddo ai commissari rivoluzionari che ordinano alle carmelitane di sgombrare il convento entro ottobre (1792). Alla fine del contraddittorio, il Primo commissario confida segretamente alla suora di essere un ex sacrestano, fratello di latte del vicario, costretto, di questi tempi, a «urlare con i lupi». Per dimostrare la sua buona fede, la avverte di diffidare del fabbro Blancart, un delatore. I commissari e la folla escono. Suor Jeanne avverte le consorelle che la Madre Superiora deve partire per Parigi. Quindi dà a Blanche, rimasta fino ad allora appollaiata su una seggiola come un uccello ferito, la statuetta del Piccolo Re Glorioso, dicendo che le infonderà coraggio. Spaventata dal canto del Ça ira intonato dalla folla, all’esterno del convento, lascia cadere la statuetta, che si fracassa al suolo, soggiungendo: «Oh! il Piccolo Re è morto! Non ci resta che l’Agnello di Dio».

Atto terzo
Quadro primo - La cappella del Carmelo completamente devastata. Alla presenza del Cappellano, l’intera comunità è riunita, tranne la Madre Superiora, occupata a Parigi. Suor Marie propone alle consorelle di votarsi tutte insieme al martirio «per meritare la sopravvivenza del Carmelo e la salvezza della Patria comune». Aggiunge però che, vista l’importanza dell’impegno e della responsabilità individuale, il voto avverrà a scrutinio segreto, e dovrà essere unanime: basterà un solo voto contrario a invalidarlo. Il Cappellano si presta a fare da scrutatore e, dopo aver raccolto i foglietti, comunica a bassa voce il risultato a Suor Marie, che dichiara esservi un voto contrario. Tutti gli sguardi si affissano su Blanche, al che Suor Constance afferma di esser responsabile del voto contrario, ma di volerlo ritirare associandosi alla decisione comune. Il Cappellano allora decide che, per sacralizzare la loro intenzione, tutte le carmelitane pronuncino il voto, due alla volta, giurando sul Vangelo, a cominciare dalle più giovani. Suor Blanche e Suor Constance giurano per prime, dopodiché, approfittando della confusione delle consorelle che compiono lo stesso rito, Blanche fugge via.
Interludio primo - Un Ufficiale rivoluzionario si felicita con le carmelitane, che stanno lasciando il convento in abiti civili, per il loro senso della disciplina. Le avverte che la nazione le terrà d’occhio e che non dovranno aver contatti con membri del clero e con controrivoluzionari. La Madre Superiora, rimasta sola con le consorelle, invia una di loro dal Cappellano per avvertirlo che sarebbe troppo pericoloso officiare la messa in segreto, com’era convenuto. Suor Marie, sollecitata a esprimere il suo parere, ricorda alla Superiora che tutte queste cautele mal si addicono a una comunità che si è votata al martirio. Al che la Superiora replica che, se ognuna di loro risponderà del suo voto di fronte a Dio, lei dovrà rispondere per tutte e che è sua abitudine tenere i conti in regola.
Quadro secondo - La biblioteca del Marchese de la Force, saccheggiata e trasformatasi in un grande ripostiglio multiuso. Blanche, in vesti civili, divenuta la serva dei nuovi inquilini, è ai fornelli. Entra improvvisamente Suor Marie. Anche lei in abiti civili, è venuta a cercarla per metterla in salvo. Blanche replica di sentirsi sicura dov’è perché, caduta così in basso, nessuno si occuperà più di lei. Nel rispondere a Suor Marie si è distratta, e rischia di far bruciare il ragù. Suor Marie interviene a tempo, ma Blanche è in preda a una crisi di nervi. L’unica persona che poteva capirla, suo padre, è stato ghigliottinato. Nata nella paura, trova giusto che ora sconti la sua debolezza di carattere con il disprezzo degli altri. Suor Marie replica che lo sconforto non deriva dal disprezzo degli altri, ma da quello di sé medesimi. Rivolgendosi a Blanche con il suo nome da religiosa, il che la scuote immediatamente dalla sua angoscia, la invita a rifugiarsi temporaneamente a Parigi da persone fidate di cui le lascia l’indirizzo. La voce della nuova padrona di casa ingiunge a Blanche di andare a fare le compere. Dopodiché, Suor Marie se ne va, convinta che Blanche seguirà il suo consiglio.
Interludio secondo - Una strada di Parigi. Voci di passanti, fra cui quella di una Vecchia che parla dell’arresto delle carmelitane di Compiègne e chiede poi a Blanche se abbia dei parenti laggiù. Blanche nega, visibilmente scossa dalla notizia. Poi, atteggiandosi come chi ha preso una decisione disperata, se ne va via veloce.
Quadro terzo - Una cella della Conciergerie. La Madre Superiora cerca di consolare le carmelitane dopo la prima notte di prigione. Afferma inoltre di condividere il voto di martirio che hanno pronunciato in sua assenza e di assumere ora su di sé la responsabilità del suo adempimento. Suor Constance le chiede se abbia notizie di Blanche. Ricevuta una risposta negativa, dice di esser sicura che Blanche ritornerà, perché durante la notte ne ha avuto la premonizione in sogno. Le consorelle, a eccezione della Madre Superiora, scoppiano a ridere. Entra quindi il Carceriere per avvertirle che il Tribunale rivoluzionario le ha condannate tutte a morte. Quando esce, la Madre Superiora le benedice e consacra a Dio il voto da cui tutte sono ora legate.
Interludio terzo - Il Cappellano incontra Suor Marie in una strada parigina e l’avverte che tutte le consorelle sono state condannate a morte. Suor Marie vuole allora raggiungerle subito per morire assieme a loro, al che il Cappellano replica ricordandole che non è lei, ma Dio che ha deciso per lei una diversa sorte, alla quale dovrà sottostare mortificando il suo orgoglio.
Quadro quarto - Piazza della Rivoluzione. Le carmelitane scendono dal carro dei condannati a morte e cantando il Salve Regina, salgono al patibolo. Ogni volta che la lama cade, il coro diminuisce di intensità. Constance, salita per ultima, scorge Blanche fra la folla. Si ferma un istante, il suo viso si illumina di felicità, per riprendere poi il suo cammino verso il patibolo. Blanche sale a sua volta riprendendo il canto, fra la folla ammutolita. Si ode per l’ultima volta la lama cadere, dopodiché la folla comincia a disperdersi.
Gianfranco Vinay