L'Italia com'è largamente noto ed autorevolmente si deplora è il paese più antimusicale del mondo. Nonostante i grandi tenori, i loggionisti di Parma, i mandolini, San Remo e Napoli, o forse proprio a causa di essi, in Italia la musica è la Cenerentola nelle scuole. Non può quindi meravigliare il fatto che un festival dedicato all'Espressionismo come il XXVII Maggio Musicale Fiorentino, generoso tentativo di far capire alla gente che qualcosa si è pur mosso ai primi di questo secolo al di fuori della cinta daziaria di Firenze sia stato accolto dalla grande maggioranza del pubblico e, cosa ben più grave, da quasi tutti i più qualificati rappresentanti della fauna musicale locale come un vero e proprio crimine di lesa patria.
Questo recente episodio di malcostume civile oltre che di ignoranza non solo è tipico di tutta una situazione, ma fornirebbe utilmente lo spunto ad una parabola o ad un apologo critico sulla grama condizione delle cose musicali nel bel paese la dove il si suona, ridotto oggi ad una morta gora provinciale afflitto dal gracidio di burbanzosi e vacui retori, i quali si ammantano dei cenci di un Umanesimo che non ha più senso alcuno.
Non ci si stupirà, stando così le cose, se l'oratorio che è un genere musicale nato in Italia, come dice il nome, e fu illustrato da un Caldara e un Alessandro Scarlatti, musicisti ai quali tesero attento orecchio Bach e Haendel, abbia poi vigoreggiato in Germania e in Inghilterra assumendo col passare dei secoli fisionomia specificamente protestante e sia oggigiorno al di qua delle Alpi un rarissimo genere di importazione e come tale avvicinabile e fruibile solo attraverso rare esecuzioni soprattutto radiofoniche o per mezzo del disco.
Chi voglia coltivare questo fertilissimo settore della storia della musica e non si accontenti di aspettare ogni anno il settembre e prendere il treno per Perugia (almeno finché i valorosi organizzatori della Sagra Umbra resisteranno nella loro disperatissima lotta contro gli scarsi finanziamenti e l'indifferenza locale e romana) dovrà consultare attentamente i cataloghi delle case discografiche e potrà allora colmare molte gravi lacune, sempre che abbia anche il coraggio di sfidare le ire dei soloni della critica per i quali dischi ed analfabetismo musicale sono sinonimi. Noi non dubitiamo, anzi siamo sicurissimi che tutti i nostri illustri critici possiedano perfettamente a memoria la partitura dell'Elia di Mendelssohn, anzi abbiamo la certezza morale che se lo vanno fischiettando per la strada tutti i giorni, ma da poveri dilettanti e ignoranti quali siamo non possiamo non plaudire all'iniziativa della Decca, che nella collana Ace of Clubs, ad un prezzo accessibilissimo, ci mette a disposizione proprio quel raro Oratorio che Mendelssohn scrisse per la città di Birmingham e nella quale fu eseguito il 25 Agosto l846.
Resta per noi un piccolo e affascinante mistero para-musicologico il fascino che il grande profeta solare evidentemente dovette esercitare su quella squallida cittadina industriale (una specie di Campobasso su grande scala) se i suoi musicalissimi abitanti sentirono il bisogno di commissionare nove anni dopo un altro Elia al celebre direttore e compositore Michele Costa. È un inquietante quesito che giriamo al primo solerte critico di tendenza sociologica post-adorniana non riuscendo con i nostri deboli lumi a cogliere il rapporto dialettico tra la produzione di forbici e coltellerie e il fiero nemico di Jezabel e di Achab.
Ci limiteremo pertanto a registrare obbiettivamente il fatto che in una modesta cittadina inglese (e non a Londra o a Dublino) fu allestita la prima esecuzione di questo Elia, con cui l'apollineo Mendelssohn, musicista viziato dalla fortuna, colmato di doni aurei dalle Grazie più di quanto non fosse squassato dal soffio terribile delle Furie, gran signore e supremo dilettante della musica, si accostò per la seconda volta alla Sacre Scritture, dopo aver composto nel 1836 un Paulus, che è arrivato in Italia solo nel 1953. E non si può a questo punto non lodare Gianandrea Gavazzeni per la sua recente ripresa (Aprile 1964) di questo oratorio in un concerto romano che ha avuto accoglienze lietissime di pubblico e di critica. Ma per tornare ad Elia o meglio ad Elijah (che in inglese suona incredibilmente Ilaigia), ad un primo ascolto ci pare che esso si inserisca in uno dei due filoni nei quali il genere dell'oratorio si biforca. Su un versante del sacro monte troviamo Schütz, Bach e Brahms, tutti chiusi nella loro severa corazza polifonica e austeramente ripiegati nella meditazione fervida e in un intimo lirismo che fiorisce, specie nelle arie di Bach, in esempi definitivi e riuscite altissime. Questo filone scorre sotterraneo e ci sembra riconoscerlo solo due secoli dopo nella sovrumana e spoglia grandezza delle due postreme cantate di Webern o nell'affresco di Moses und Aaron. La seconda e più produttiva tendenza prende le mosse dalle gioiose ed estroverse creazioni del musico di Halle ed ha come carattere più evidente il giubilo alleluiatico e la piacevolezza illustrativa. Siamo qui alla Bibbia per i poveri (non c'erano ancora i Fratelli Fabbri), alla divulgazione del verbo sacro in grandi affreschi coloriti e mossi, nei quali tace ormai la voce severa dello storico e scompaiono le pause di fervore religioso dei corali nei quali la Gemeinde si univa agli esecutori, entrando attivamente nel gioco. Il diavolo del teatro fa capolino ad ogni istante a sommo dispetto del Lord Ciambellano che in Inghilterra vegliava geloso affinché non si trascinassero sulle tavole polverose i sacri argomenti. Da Haendel prendono le mosse Haydn con i suoi due oratori così moralistici e biedermeier ante litteram, il Berlioz dell'Infanzia di Cristo e tutta la fioritura dell'Oratorio inglese fino al Sullivan di The Prodigal Song e all'Elgar di The apostles. È un genere narrativo e piacevole in cui al momento giusto si inserisce Mendelssohn con il suo Elijah che può a buon diritto considerarsi cittadino inglese, come The Seasons o il Messia.
Si accennava sopra al dilettantismo di Mendelssohn e sarà bene chiarire che il termine è da intendere in una particolare accezione. È infatti noto come il ricco amburghese fosse un musicista fin troppo esperto ed astuto, grande direttore d'orchestra e fine musicologo. A lui si deve il recupero della Matthäus Passion nel 1829 e basterebbe questo a garantirgli la gratitudine dei posteri. Se si può parlare di un dilettantismo di Mendelssohn, noi lo vedremmo piuttosto in quella sua eterna e un po' sospetta felicità inventiva così priva di sottofondi inquietanti, in quell'essere sempre disposto a tutte le occasioni. Schumann lo esaltò novello Mozart, ma si tratta purtroppo di un Mozart senza il demonismo del Don Giovanni e senza l'orrido della Sinfonia in Sol Minore. È un musicista che ammiriamo e ascoltiamo volentieri, ma che non riusciamo ad amare, in quanto non ci propone mai interrogativi inquietanti. La sua imperturbabile olimpicità di agiato petit-maitre può a volte irritarci. Orbene questi caratteri non sono certo contraddetti da Elia; solo che in questo lavoro, nonostante la consueta lucentezza dell'involucro e la eleganza della confezione, ci pare avvertire un maggiore e più profondo e più sostanziale impegno umano del compositore.
La prima delle due parti in cui l'oratorio si divide è la più convenzionale e specie nella grande ed abilmente impostata scena della sfida di Elia ai sacerdoti di Baal, preceduta dal drammatico scontro con Achab, il modello haendeliano (e soprattutto del Belshazzar) traspare continuamente. Le suggestioni gestuali e teatrali sono continue soprattutto nella condotta delle voci. Non stupisce apprendere che Elia fu rappresentato nel 1923, a Worcester, come dramma musicale, a cura di Charles Manners. Un grande pezzo di teatro è la scena dell'invocazione del popolo per la pioggia, con la voce di fanciulli solisti, che si staglia sullo sfondo del coro.
All'inizio della seconda parte la figura della Regina Jezebel ci mantiene in un clima che con tutte le cautele definiremmo sempre un po' melodrammatico. Il motivo della Regina proterva adoratrice di Baal e persecutrice di Israele doveva affascinare Mendelsson che qualche anno dopo scriverà delle musiche di scena per Athalie.
Ma al momento in cui il profeta solo si rifugia sulla vetta del monte Horeb per sfuggire alla furia di Jezebel, l'ispirazione del musicista prende veramente ala e tutta l'ultima parte dell'oratorio è una grande meditazione sulla solitudine dell'uomo di fronte ai problemi massimi. Elia non è solo. Lo circondano e lo confortano gli angeli (si ascoltino il trio e il coro stupendi all'inizio della quinta facciata) e la Stimmung di questo finale che è unicum nella storia dell'oratorio è quella di una serena accettazione del destino, premiata dal Dio di Israele con la vittoria definitiva sugli infedeli. Abbiamo brevemente sottolineato le tre grandi scene in cui si articola il testo (Elia e i sacerdoti di Baal, Elia e la Regina, Elia sul Monte Horeb) ma non si può dimenticare il breve episodio iniziale della vedova a cui il profeta fa risuscitare il figlio, piccola scena intima o quadretto di genere in cui splende il timbro lucente del soprano Jacqueline Delman, interprete appassionata e rigorosa. Quanto agli altri interpreti non si saprebbe immaginarne di più immedesimati e fervidi. E' questa una edizione autentica e di puro stile che molto deve alla bacchetta sensibile di Joseph Krips e all'apporto dei due cori, dei quali si segnala in modo particolare Io stupefacente coro dei ragazzi della chiesa parrocchiale di Hampstead che sotto la guida di Martindale Sidwell non fanno rimpiangere i piccoli cantori viennesi, per lo smalto delle voci e la limpidezza della emissione. Una lode particolarissima va al tenore George Maran che nella sua prima aria, If with all your hearts you seek Me centra un tono di dolce intimità che ritroviamo con uguale eleganza e rigorosa calibratura, nella deliziosa romanza dei tenori di Sullivan. E non sembri irriverente l'accostamento. La contralto Norma Procter piega una voce caldissima alle sfumature di un'interpretazione che per la tenuta e il livello ricorda la grande Ferrier. Quanto al protagonista, il baritono Bruce Boyce, dotato di voce gradevole e di bello squillo, si cala perfettamente in un personaggio ricchissimo di sfumature psicologiche che vanno dall'ironia e dallo scherno nel dibattito coi sacerdoti di Baal al fervore dell'aria con viola obbligata It is enough, o Lord, nel classico schema tripartito (ABA). Essa è il vero culmine dello spartito e non sfigurerebbe al confronto con le più celebrate pagine di Giovanni Sebastiano.
Tornando alla fisionomia individualissima dell'opera, della quale non ci si stancherebbe mai di illustrare la singolarità, vorremmo segnalarne il carattere prevalentemente intimistico, quasi di oratorio da camera. Infatti Mendelssohn non mira qui ad effetti di grandiosità nei cori o di forte spicco nelle arie. Il suo oratorio è una serie di gemme amorosamente sfaccettate dalla sapiente mano di un prezioso orefice dei suoni, la cui misura è veramente mozartiana. Non c'è la voce dello storico a guidarci nei meandri dell'azione ma entriamo subito e agevolmente in medias res dopo una brevissima introduzione di Elia, seguita da una ouverture. Le arie sono relativamente poche e tendono a confondersi con gli stupendi ariosi (nei quali sono alcune delle più alate riuscite dello spartito) in un tono medio elegiaco ed auletico. Accompagnano caldi gli archi e parsimoniosamente cantano gli strumentini. I tratti descrittivi di marca haendeliana (si pensi alla descrizione delle piaghe nella prima parte di Israele in Egitto) sono relativamente pochi ma discretissimi.
Sarà azzardata l'ipotesi di un influsso diretto di questo oratorio su l'Enfance du Christ di Berlioz (I854)? Comunque ci pare indubbio che questi due piccoli capolavori del romanticismo minore siano molto vicini come atmosfera e ne suggeriremmo un ascolto comparativo.
Nel ringraziare nuovamente la Decca per la sua iniziativa deploriamo la mancanza assoluta di dati storici e di note illustrative, anche se siamo grati per il testo integrale dell'oratorio, che certo non è facile da reperire. L'incisione è buona anche se i cori non hanno un particolare rilievo.
Giulio de Angelis
("Disclub" 9, anno II, luglio 1964)
Nota discografica
Felix Mendelssohn - Elijah, Op. 70
Jacqueline Delman (s), Norma Procter (c), George Maran (t), Bruce Boyce (br), Michael Cunningham (ragazzo - soprano) - London Philharmonic Choir dir. da F. Jackson - London Philharmonic Orchestra dir. da Josef Kríps.
DECCA ACL 220/222 (SERIE ACE OF CLUBS)
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