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Gustav Holst (1874-1934) |
Holst, che nasce a Cheltnenham nel 1784 da una famiglia di musicisti d'origine svedese, si trasferisce nel 1893 a Londra per studiare alla Scuola Reale di Musica dove appunto insegna lo Standford. Qui egli trova come compagno di studi Ralph Vaughan Williams che dovrà diventare il massimo esponente del sinfonismo inglese. Lo Standford cerca d'infondere nei due allievi il magistero del contrappunto e il gusto per la melodia popolare, componente importantissima di tutto il Novecento musicale inglese. Holst disdegna il pianoforte e impara il trombone adattandosi a suonarlo nell'orchestra della Carl Rosa Opera Co. Dopo aver conseguito i necessari diplomi e titoli di studio, si dedicherà alla composizione ed all'insegnamento presso il Collegio Femminile di San Paolo per il quale comporrà la Saint Paul's Suite per archi (1913) che è una delle sue composizioni più note. Il 1934 sarà l'anno più triste per l'Inghilterra musicale perché vedrà la morte non solo di Holst, ma anche di Elgar e di Delius.
Una vita apparentemente poco interessante quella di Holst, ma ricca di problemi interiori e di ricerche incessanti. Già egli in compagnia dell'amico Vaughan Williams si era attivamente interessato di melodie popolari e le aveva amorevolmente raccolte, restituendone il fascino intatto in due composizioni autonome, «Six Choral Folksongs»› per coro maschile e «Twelve Welsh Folk-songs» per coro a cappella. L'interessamento di Holst e di Vaughan Williams per la musica popolare coincide anche con la fondazione della English Folk-songs and Dance Society ad opera di Cecil Sharp che fu il primo a stimolare la ricerca del patrimonio folklorico musicale inglese.
E proprio agli albori del Novecento si verifica un fatto sintomatico e di grande rilievo per le generazioni di musicisti europei che faranno astrazione dalla rivoluzione schönberghiana: la ricerca sistematica del folklore musicale e l'impiego di esso quale componente inscindibile del linguaggio. Troviamo quindi in Ungheria, Bartok e Kodaly, Janacek in Cecoslovacchia, in Francia, Debussy e Ravel adotteranno la scala esatonica e melodie basche, Hindemith in Germania, Respighi in Italia si rivolgerà a fonte ancora più antica: il gregoriano. Tale fervore è sintomo forse della necessità di un rinnovamento del linguaggio, rinnovamento attuato senza radicali rivoluzioni della sintassi. Certamente anche nell'Ottocento europeo numerosi compositori avevano attinto al patrimonio popolare, Liszt, Chopin, Brahms e Dvorak. Si trattava però di folklore abilmente travestito. Basta pensare alle rapsodie ungheresi di Liszt e di Brahms per rendersi conto che la melodia popolare vestita in abiti da sera suona troppo falsa!
Holst avverte in pieno la portata della rinascenza folklorica ed istaura con Vaughan Williams una corrente musicale tipicamente inglese e consapevole del fatto che il linguaggio deve progredire, mentre Elgar rimarrà pur sempre ancorato all'epoca vittoriana alla quale erano meglio accette le regole che le eccezioni.
Le influenze subite da Holst, ma assimilate soltanto in minima parte nel periodo formativo, possono riassumersi in un moderato wagnerismo iniziale. L'inf1usso del cromatismo wagneriano si evidenzia nei primi lavori meno impegnativi (buona parte dei quali reietti in seguito dallo stesso autore), ma si spezza e scompare con la scoperta del folklore il quale innesta una corrente neomodale. in Vaughan Williams l'esperienza neo-modale è più scoperta e si lega intimamente con l'impressionismo raveliano. Il Vaughan Williams era stato infatti allievo di Ravel a Parigi e subì in modo più diretto la lezione dell'impressionismo francese.
Anche Strawinski eserciterà su Holst un influsso modesto e comunque limitato all'ambito di certe soluzioni ritmiche e coloristiche. L'aver poi abbracciato una parte della cultura orientale (Holst studiò addirittura il sanscrito!) allargò vieppiù gli orizzonti del musicista. Ma non si trattò di evasione o di ricerca di un facile esotismo. Il Tovey giustamente vedeva in Holst «la vera espressione della nostalgia dell'occidente per l'oriente». Va rilevato inoltre che in quel periodo anche una buona parte della letteratura inglese denunciava una forte attrazione per le cose d'oriente. L'esperienza del sanscrito si ritrova soprattutto nelle opere «Rig Veda», «Sita», «Savitri» e «Beni Mora» che appartengono tutte ad un periodo creativo intermedio di Holst.
Complessivamente la musica dell'inglese ci appare tinta d'impressionismo. Non mosaico di frammenti, macchie sonore. Piuttosto, successione logica di momenti creativi in un quadro del tutto unitario. Si verifica in Holst, più che in Vaughan Williams, l'allentamento del tematismo e di conseguenza la impossibilità di continuare un discorso sinfonico secondo i canoni della sonata classica. (Tale impossibilità è più che mai evidente nelle opere della maturità di Leos Janácek, compositore atematico per eccellenza). L'impressionismo di Holst non è pura vernice; è risultante profonda, emozione sofferta e restituita in musica. «Egdon Heath» (1927) e «Hammersmith - Preludio e Scherzo» (1930) (i titoli delle composizioni corrispondono a precise località inglesi) sono capolavori del genere. Il primo ricrea il fascino straordinario di un bosco in autunno, colle sue atmosfere rarefatte e sospese e con un senso di desolazione rotto a tratti da una melodia popolare che si raggela come nebbia lontana. «Hammersmith» invece espone il dualismo tra vita quotidiana (il laborioso sobborgo di Londra dal quale trae il titolo) e vita contemplativa (il lento e compassato trascorrere del Tamigi).
Holst aveva scritto: «Studio soltanto le cose che mi suggeriscono musica». Anche «I Pianeti» composti tra il 1914 e il 1917 sono una interpretazione tutta personale e moderna della «musica mundana». Col suo senso di autocritica Holst arrivò persino a dispiacersi quando seppe che quest'opera era diventata popolare. Egli implicitamente affermava che un'opera d'arte diventava automaticamente superata nel momento stesso in cui era creata. Il passaggio continuo attraverso le più disparate esperienze testimonia tale sua costante insoddisfazione che e anche superamento, progresso. La definizione di Sir Malcolm Sargent: «he was a mystic, but not consciously a religious one» è doppiamente rivelatrice. Essa spiega sia il tentativo di conciliazione del dualismo antinomico su cui doveva poggiare tutto il mondo interiore di Holst, sia la tensione tutta trascendentale verso il superamento. «Hymn to Jesus» (1917) per coro e orchestra nella prima parte utilizza il testo e la melodia del «Pange Lingua» e del «Vexilla regis» e nella seconda, alcuni inni in lingua inglese. E' opera che può considerarsi religiosa nello stesso senso in cui sono religiosi i mottetti di Brahms op. 74 e op. 111. L'«Hymn to Jesus» è una delle composizioni che inoltre rivela la propensione degli inglesi per il genere sinfonico-corale a grande respiro cui prima accennavamo, ma non è la sola. Al pari di Vaughan Williams che esordì proprio come compositore di musica corale, Holst scrisse una messe di opere per coro e specialmente per quello femminile. Effettivamente i due compositori procedettero per un certo tempo affiancati, partendo da esperienze comuni e si influenzarono a vicenda, in quale misura è difficile stabilire. Sta di fatto che Vaughan Williams preferì avventurarsi sul terreno sinfonico con risultati veramente importanti per la musica inglese, mentre Holst raramente riusciva ad assestare il suo discorso in una forma costante nella quale il tematismo era il passaggio obbligato per giungere alla coerenza, anche se le leggi della forma sonata potevano interpretarsi con una certa elasticità. Cosa del resto avvenuta già nel secondo Ottocento mittel-europeo. Il Tovey scrivendo già nel 1929 su Holst avvertiva perspicacemente in quest'ultimo, nel differenziarlo dal Vaughan Williams, «l'ampia e chiara esplorazione delle regioni pre-armoniche». Holst fu infatti un esploratore che mai si fissò su una singola scoperta.
Per Holst la politonalità e la poliritmia sono elementi già acquisiti mentre per Vaughan Williams fanno ancora parte di una avventura o di una occasione. Anche nei procedimenti politonali di Holst possiamo vedere un tentativo di conciliare un'antitesi.
Si pensi al «Terzetto per flauto, oboe e viola» (1924), composizione veramente unica, nella quale gli strumenti in una formazione già rara e inconsueta, dialogano tra loro in tre tonalità differenti. E' un viaggio ideale lungo tre strade parallele che non si incontrano mai sotto il profilo tonale, ma che procedono tutte verso un unico punto comune che è unità di pensiero. Secondo quanto riferisce Imogen Holst in uno studio straordinariamente obiettivo « The music of Gustav Holst » (Londra, 1951) fu sufficiente che il «Terzetto» fosse scritto in tre tonalità diverse perché noti artisti lo giudicassero ineseguibile. Ma il tritonalismo non è la sola difficoltà. La partitura abbonda di indicazioni dinamiche, repentini cambiamenti di tempo, il tutto nell'ambito di poche battute, oltre a gustosi effetti poliritmici. E' un gioiello finemente cesellato, uno studio di atmosfere che ora si distendono nella enunciazione all'unisono di un tema modale che ricorda il «Dies irae», ora si rapprendono nei cinguettii del flauto in «staccato», ora si liricizzano nel motivo popolare esposto dall'oboe che, alla fine, viene interrotto dal flauto e dalla viola in un morendo da romanza schumanniana.
Altri esempi di politonalismo, però meno impegnato, sono reperibili in alcune composizioni pianistiche, tutte improntate a motivi popolari. A questo proposito, si potrebbe affermare che la musica popolare sta a quella classica, come il dialetto sta alla lingua colta. Sotto questo profilo, certa musica di Holst potrebbe definirsi «dialettale» come quella di Bartok. Anche quest'ultimo era giunto al bitonalismo attraverso lo studio sistematico del folklore non solo magiaro, ma anche rumeno e arabo. Imogen Holst, scrivendo sul padre, sostiene che il linguaggio della musica popolare costituiva una guida per Holst, pur non essendo il linguaggio suo proprio. Infatti, la lezione del folklore era stata assimilata da Holst in tanto in quanto offriva un nuovo modo espressivo, ancorché avesse radici antichissime. Non si tratta pertanto d'imitazione di uno stile. La musica di Holst ci appare talora «pensata» secondo i modi popolari, quando essa già non contenga chiare allusioni a terni e melodie folkloriche, come si verifica nella «Seconda Suite in fa maggiore per banda» (1911) che utilizza melodie dello Hampshire. Nell'ultimo movimento di quest'opera si rinvengono addirittura due canzoni distinte («Dargason» e l'ormai notissima «Greensleeves») sovrapposte simultaneamente.
A distanza di trent'anni, che esattamente tanti ci separano dalla scomparsa di Holst, la sua musica non ha perduto di freschezza, come se fosse stata composta ai giorni nostri. Anche se essa appartiene storicamente alla prima metà del Novecento, la sua stessa poliedricità e molteplicità d'intenti,. ne impediscono una collocazione definitiva Né d'altra parte può dirsi che sia espressione caratteristica di una scuola o di uno stile. E' summa di esperienze sovente disparate tra loro e mai esaurite. N\a assurge anche a simbolo già progredito della rinascenza della musica inglese che, grazie a Holst e a Vaughan Williams è riuscita a riconquistare la propria autonomia. Un bene perduto che ritorna rinnovato in meglio.
Edward D. R. Neill
("Disclub" 8, anno II, giugno 1964)
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