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Angel SBL/3719 (2 lps) |
Questo è l'elemento che accomuna Busoni agli altri grandi musicisti, in un senso o nell'altro, progressisti dell'epoca (Mahler, Berg, Scbönberg, Hindemith, ecc.) o di poco posteriori: cercare di approfondire gli elementi singolari che concernono la poetica busoniana in particolare, significa collocare il musicista toscano in un'impietosa posizione analitica da cui non potrà non sortire, come effetto supremo, una chiarificazione dell'esatta essenzialità e della giusta posizione delle varie componenti, e, quindi, una maggiore precisione prospettica: anche a mettere nel conto le varie cose che saranno giudicate come negative.
Una delle più evidenti contraddizioni di questo poderoso Concerto, è articolabile nel modo che segue: si sa che Busoni «ripensò» - ma questo verbo è completamente inadeguato - il linguaggio musicale ottocentesco; lo «ripensò» non tanto in senso ricapitolativo, quanto in senso analitico, cioè a dire con l'illusione di poterne rivivere tutti i nessi - musicali e, quindi, esistenziali - grazie a un'operazione di scomposizione, e di singola messa a fuoco, di tutto quel formidabile, e formidabilmente posseduto, patrimonio. Ora, una prima contraddizione è data dalla polare distanza che separa il concetto di «operazione» da quello che concerne il «rivivere» a tutti gli effetti: contraddizione non palesata esplicitamente (ecco la distanza da Mahler), ma accettata implicitamente (e tragicamente; seconda contraddizione complementare) dal criticismo che accompagnava la cultura stessa del musicista. Criticismo innato: che inerisce alle cose, che le adombra, che le appesantisce; ma che non le supera, essendo, da sempre, il loro compagno di viaggio inseparabile (la vera dialettica nasce dalla separazione). Ma c'è dell'altro.
Questa contorta identificazione col linguaggio classico, a contatto con un'opera impegnativamente dilatata come il nostro Concerto, dà luogo a ulteriori complicazioni. Infatti, se pensiamo a uno dei presupposti fondamentali - presupposto fatto proprio da Busoni - dell'ideologia linguistica ottocentesca, e se indichiamo tale presupposto nel rapporto dialettico che si viene a creare fra interno ed esterno, fra microstrutture e macrostrutture. tra intimità e dilatazione, fra particolare e generale - vedremo subito come sia una tipica illusione del musicista toscano potersi espandere in senso lato dall'implicazione sui classici. Nel Concerto, il particolare, le microstrutture, l'interno sono «a posto»: sono legati, tutti, alla condizione tesaurizzante e profonda dell'uomo di cultura. Ma quando ricercano il proprio opposto, si gettano allo sbaraglio: e il discorso di Busoni, perdendo il realismo individualistico che l'aveva caratterizzato, diventa - espanso - non già formalismo, non già convenzione, ma mera, tragica astrattezza. Vedremo meglio in séguito dove vada a finire questa astrattezza; per ora, basti averla ricordata come conseguenza d'un'intimità troppo solipsistica, troppo «se stessa», troppo esemplare: dove questa esemplarità non è altro che un rivolgersi all'oggetto per il tramite d'una pellicola (la «cultura») le cui parti dinamiche sono girate esclusivamente verso l'oggetto stesso e ignorano del tutto le represse esigenze motorie, dialettiche del soggetto. E il contrasto scoppia quando ci si rivolge a esso, al soggetto appunto, per secondare la necessaria varietà fisionomica di quel linguaggio; il soggetto, richiesto di uno scatto improvviso, incespica, cade e prende una strada che porta verso il nulla, verso la rappresentazione priva di qualificazione, verso l'astratto.
Il Concerto, composto nel 1904, risente di alcuni tratti specifici della cultura di quegli anni: di una certa tendenza mistico-eroica-iperbolica, per esempio, che fa venire in mente Scriabin (e nettamente scriabiniano è il secondo tema del primo movimento). Ora, scoppia, palese, un'altra contraddizione non appena si tenti di far entrare questo reale contrassegno «esterno» nell'impianto dialettico di Busoni: un impianto che, s'è visto, prevede un atteggiamento positivo, nei confronti del linguaggio ottocentesco nettamente «fermo», ovvero in grado di sviluppare una microscopica dialettica che non è quella delle sfumature, ma quella dei micromondi articolabili là dove si verifica un'adesione, a tale linguaggio, capillare, analitica, sottilmente fidente. Ora, questa tendenza all'accoglimento di certe tendenze di quegli anni, oltre che incompletamente realizzata (certi scorci linguistici scriabiniani, per esempio, non sono affatto, in Busoni, armonicamente squilibranti), si sovrappone a quella dialettica, diciamo, microscopica: ma senza arrecarle disturbo, senza interferire sul suo corso. Sicché, le due «voci» si espandono mirabilmente, ma restano l'una estranea all'altra, finendo col costruirsi, al massimo, come «attributi» che, sia pur generosamente accettati e sviluppati dall'artista, si articolano al di fuori della loro intima sostanza: vivono, cioè, contraddittoriamente rispetto alla loro essenza. Una vita classica la cui permeabilità - ripeto - intima e microscopica rimane un fondamentale attributo di Busoni ma che, impermeabile rispetto agli accadimenti esterni, decade, dal rango di tragica grandezza che occupava quando era «sola», al rango di inadeguatezza rispetto allo svolgersi esterno dell'argomento e, quindi, al rango di elemento ridotto a mera, ancorché ingiusta, formalità. «Ingiusta», s'è detto: l'essenza di Busoni, infatti, rimane, in sé, immutabile sui valori che abbiamo ricordato; è il contatto inesistente con una provocatoria - e non importa se, anch'essa, male intesa - vita esterna che la riduce al rango formale, inadeguato, vaniloquente.
Per comprendere meglio questa pur vanamente auto-provocatoria impermeabilità di Busoni, si può pensare all'intromissione, in due movimenti del Concerto, di motivi popolari e canzonettistici. Ci si riferisce subito a influenze mahleriane, non tanto per la esistenza di tali motivi in sé quanto per l'accurata conservazione di tutta la loro carica banale e volgare. Senonché Busoni a differenza di Mahler, cade pietosamente: cade perché tali banalità e volgarità scivolano su una forma rimasta allo stato, ripeto, di microscopica autenticità e immutabilità e, quindi, non sottoposta ad alcun procedimento critico. Ancora, dunque, due elementi impermeabili in urtante convivenza; ancora un'inadeguatezza di Busoni nei confronti d'un elemento generosamente e incautamente preso dall'esterno.
Ma, anche, una vittoria del senso interno. Ora, a tacere dell'inutilità - molto emblematica di per sé - di questi accostamenti, vale tale vittoria? In sé, come rassodamento d'un patrimonio, certo; ma l'auto-provocazione, inutile sul piano della risultante, non può essere considerata tale su un piano più generale: precisamente, sul piano che prevede un filtraggio, dell'auto-provocazione stessa, e una riduzione da parte del sostrato culturale di Busoni. Cosa, questa, che non avviene, e che, anzi, resta come testimonianza implicita d:un'insufficienza cui la riconosciuta generosità non attribuisce qualificazione alcuna. A meno che non si vogliano intendere questi trasbordi busoniani nel popolare come un tentativo di ripristinare l'aulico antropocentrismo goethiano o, semmai, mendelssohniano! Ipotesi ingloriosa, che vedrebbe il trionfo dell'elemento «estraneo», il suo rimanere prosaicamente, staticamente e pertinacemente tale. Ipotesi che lo stesso nobile e sofferto brulichio della vita interiore di Busoni ci invita recisamente a scartare.
A parte gli episodi citati (dei quali, sono quelli relativi alle divagazioni canzonettistiche assumono il ruolo di vigoroso disturbo), il Concerto riesce a dare, molto spesso, l'idea entusiasmante di una splendida «fantasia contrappuntistica». Parlare semplicemente di «talento musicale» e soffermarsi ad analizzarne i tratti, ci sembra impresa mistificatoria o, almeno, oscurantistica. E' molto più realistico ricordare che questa mirabile forza contrappuntistica riesce a tirarsi dietro, nel suo plastico incedere, ogni pur rilevante peso culturale di Busoni. E qui il compositore toscano ha veramente vinto col suo solipsismo che, superando il peso inibitorio della cultura analitica, ne ha fatto una componente, un elemento rappresentativo, ed è riuscito a imporlo, come sovrana ragione individualisticamente accentratrice, su tutto e contro tutto. E' arte di netta decadenza: non trionfa, per - ancora, malgrado tutto e dopo tutto - splendida ragione interne, la forma (come, per esempio, nel primo Schönberg), sebbene l'uomo che, mediatamente, adotta la forma, che riesce a fare, di essa, una summa che riesce a oggettivarla, malgrado le contraddizioni d'una soggettività a volte (s'é visto) inadeguata, in un ambito classico in seno al quale l'«estetica» é ancora in grado di essere retta da una moralità dinamica e commoventemente auto-formativa.
Ripeto: la decadenza é in agguato; e non solo nelle palesi e pesanti contraddizioni che abbiamo ricordato, bensì anche - e, più sottilmente, soprattutto - in quel concetto di oggettivazione, del fatto artistico, le cui originarie ragioni di autonomia incominciavano a essere seriamente minate, nel 1904, da un serpeggiante anelito globale originato - Marx insegna - dalla crisi di coscienza che stava principiando a caratterizzare quell'oggettività stessa. Busoni è al di fuori di tutto questo: gli si oppone implicitamente proprio con la pertinace percorribilità analitica delle sue ricordate microstrutture. Ogni centimetro conquistato - sia pur in modo del tutto parziale - da Busoni in questo fantomatico e inconscio braccio di ferro, é un inamovibile elemento della sua tragica e contradittoria grandezza.
Ottima l'incisione che, del Concerto, ha curato la casa «Angel» (SBL/3719) in due dischi (la quarta facciata é dedicata alla Sarabanda e Corteggio dal Doktor Faust op. 51). Protagonista di questa faticosa impresa è il giovane pianista inglese John Ogdon: un interprete sicuro, meditato e caratterizzato da un virtuosismo abbrunato, cioè come appesantito da implicazioni che, indipendentemente dalla loro natura e dalla loro origine, si prestano mirabilmente alla resa esatta del virtuosismo busoniano. Ottimo direttore, sul podio della «Royal Philarmonic Orchestra», si rivela Daniel Revenaugh.
Gianfranco Zàccaro
("Disclub" 30/31, anno VII, maggio-dicembre 1969)
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