Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, settembre 23, 2007

Edvard Grieg: le radici di un lirico

Ripensare il compositore norvegese morto il 4 settembre di cento anni fa.
C'è un cratere Grieg su Mercurio, per ricordarci il compositore norvegese molto amato nei salotti dell'ottocento (nonchè da Verdi e Ciakovskij), e forse per questo meno compreso più tardi. Grande, eppure poco noto, se non per una piccola parte della sua produzione. Spesso saccheggiato dalle colonne sonore delcinema, ma raramente citato.

Nacque a Bergen, una città relativamente piccola (la Norvegia ha ancora oggi meno di cinque milioni di abitanti), in una nazione da cui non partivano più le lunghe navi vichinghe alla scoperta del mondo e ancora non incrociavano le petroliere, una pura espressione geografica, avrebbe detto Bismarck, ancora sottomessa alla Svezia, insomma una periferia della periferia. Era il 1843. La sua famiglia di ricchi commercianti, con lontane ascendenze scozzesi, vantava da parte di madre un ottimo pedigree musicale, e un antenato compositore del Seicento ancora ricordato (Kjeld Stub). A Bergen succedeva ben poco e il principale divertimento era fare musica in casa. Dai Grieg la musica era qualcosa di più: la madre era veramente brava al pianoforte e il primo dei cinque figli (Edvard era il quarto) divenne un apprezzato critico musicale. Inutile dire che a nove anni il nostro già componeva, suonava, improvvisava. Ma risolutiva per il suo futuro professionale, all'ètà di quindici anni, fu la visita del lontano parente Ole Bull, violinista virtuoso di fama internazionale, che autorevolmente consigliò seri studi in Germania, nel centro della vita musicale, e precisamente a Lipsia, la città che fu del Kantor Bach.
L'opportunità di ascoltare il meglio della musica classica e romantica tedesca fu molto più importante del percorso scolastico, dove insistevano ad insegnargli cose che era poco interessato a sapere, e dove, a suo dire, non gli sapevano insegnare ciò che più lo affascinava (l'orchestrazione). Meno male, altrimenti oggi parleremmo di lui soltanto in qualche pagina di enciclopedia dedicata agli epigoni periferici del romanticismo germanico. Però un insegnante di pianoforte, Wenzel, era stato amico di Schumann, e quei pezzi brevi e liberi, quelle illuminazioni armoniche, gli rimasero nel cuore. Seguono vari soggiorni in patria, in Svezia e Danimarca, durante i quali si distingue soprattutto come pianista. Facciamo sosta a Copenhagen, perché qui incontra il conterraneo Rikard Nordraak, valido compositore morto prematuramente e soprattutto acceso nazionalista (e autore dell'inno nazionale norvegese), che gli insegna ad amare il repertorio popolare. Un altro importante seme lasciato a maturare. Dopo un primo viaggio in Italia (nel 1860 era sopravvissuto ad una malattia ai polmoni, e l'Italia era una meta necessaria oltre che gradita), in cui incontra Ibsen, l'altro grande norvegese, si stabilizza ad Oslo, dove si adopera come organizzatore di concerti, aggiornando di molto la vita musicale del suo paese, e fonda l'Accademia Norvegese di Musica. Abbandoniamo ora la biografia, fatta essenzialmente di tournées come pianista, talvolta massacranti per la salute. Ricordiamo solo un altro viaggio in Italia, perché l'incontro personale con Liszt, che con la consueta generosità ne aveva capito il talento, portò anche ad una stabile collaborazione con le edizioni Peters, e alla diffusione della sua musica.
E veniamo al Grieg che conosciamo e a quello che dovremmo conoscere meglio. Va detto subito che il lavoro più celebre, le due Suites dalle musiche di scena per il Peer Gynt di Ibsen, non rappresenta un'immagine riduttiva del suo mondo musicale: il gusto quasi impressionistico per l'immagine evocativa (il memorabile "Mattino"), l'indagine sul folklore nazionale, il bozzetto comico-grottesco, le forme libere e talvolta sorprendenti, il lirismo suadente e disteso, la disinvoltura armonica, sono tutti lì. Ma è solo una porta aperta verso soluzioni e risultati che dobbiamo cercare altrove.

Lirismo libero
Inutile cercarli nel pur piacevolissimo e giovanile Concerto per pianoforte in la minore (guarda caso la stessa tonalità di quello di Schumann), un lodevole sforzo di mimesi con la grande forma tedesca. Ci provò una seconda volta, ma ormai era abbastanza maturo da capire di lasciar perdere. Ci provò anche con l'opera, ma si fermò alla terza scena. Più vero il Grieg della musica da camera, delle tre Sonate per violino e pianoforte, della Sonata per violoncello e pianoforte e del Quartetto in sol minore, lavori che troviamo lungo tutto il percorso dagli anni giovanili alla maturità. Possiamo anche abbandonarci alle belle melodie e alle invenzioni di ottima; i più attenti possono perfino cogliere percorsi formali inattesi e innovativi, che sono il positivo rovescio della medaglia di uno sforzo per comporre secondo archi formali non del tutto sentiti, ma non è ancora tutto, non l'essenziale almeno. La grandezza di Grieg è in gran parte nascosta: non per mancanza di fonti pubblicate, ma perché la dimensione intima, domestica, lontana da magniloquenza e virtuosismo, la tiene spesso fuori dalle sale da concerto, e pochi interpreti la considerano un biglietto da visìta da consegnare al disco. Si tratta di due percorsi paralleli, rappresentati da dieci serie di Lyriske Stykker (Pezzi lirici), che vanno dal 1867 al 1901, completati da sette Stemminger (stati d'animo) del 1907, e da un numero infinito di Lieder per canto e pianoforte. I due percorsi talvolta si intrecciano attraverso trascrizioni. In questi brevi pezzi, quasi tutti con un titolo evocativo, Grieg si sente pienamente libero, a partire dall'antica matrice schumanniana. Le forme procedono spesso per libera associazione, alla maniera che sarà di Debussy e di tanto Novecento. L'armonia deriva in una prima fase da una sapiente condotta delle voci che incorpora sottili cromatismi, più tardi associa elementi modali, legati al canto popolare, fino a intuizioni di puro colore. A caratterizzare l'inconfondibile stile concorrono anche soluzioni costanti e riconoscibili (la sensibile che scende alla dominante, il quarto grado della scala alzato). Nonostante la brillante carriera di pianista, la scrittura è abilissima, ma lontana da ogni esibizione. Il canto popolare nordico è spesso protagonista, in parte come vero e proprio recupero, anticipatore delle ricerche del primo Novecento (negli Slaatter, danze paesane, del 1903, sembra anticipare Bartók), in parte come pretesto per inedite esplorazioni armoniche: è infatti un canto che nasce dall'antico incontro fra la remota musica dei vichinghi e l'introduzione del gregoriano con la conversione cristiana, per non contare i trovatori erranti fra le instabili corti medievali, che portavano con sé echi mediterranei. L'incredibile successo nei salotti dell'Ottocento non tragga m inganno: Grieg non propone infatti un folclore presentabile, elegante e imborghesito, ma il più possibile autentico, e sentito come veicolo, per la formazione di una identità culturale nazionale. Oltre al canto popolare ricorrono tracce e allusioni di una natura sicuramente curiosa e cosmopolita (Bizet, Gounod, Massenet, Fauré, Dvorak, spesso Liszt e più tardi Wagner), memorie di percorsi europei, frammenti di un intimo diario musicale. Lungo questo cammino troviamo anche una geniale intuizione, Fra Holbergs Tid (nota anche come Holberg Suite, 1884). E' chiaramente un pezzo da concerto, e discutere se anticipi di trent'anni soluzioni neoclassiche, o più semplicemente partecipi del gusto neogotico che furoreggiava in pittura, nei castelli di Ludwig di Baviera e in certe opere di Wagner, è abbastanza ozioso. Sta di fatto che la soluzione è convincente, e ci mostra un Grieg inedito e sorprendente, che non può mancare negli ascolti di un vero appassionato. Infine, per conoscere a fondo il compositore, e per abbandonare ancora una volta l'abusato cliché piacevolmente salotticro, bisognerebbe andare a scovare le composizioni per coro, come i 12 Canti popolari norvegesi per varie combinazioni di voci maschili del 1880, e i tardi, segreti e intimi Quattro salmi per coro a cappella del 1906, un vero e proprio ponte lanciato verso i decenni più recenti della musica. La morte lo restituì ai nordici elfi nel 1907, in una semplice tomba scavata nella roccia nei pressi della sua casetta sul lago di Troldhaugen, non lontano dalla città natale.

Lorenzo Ferrero (il giornale della musica, 09/07)

domenica, agosto 12, 2007

Charles Burney: il Miserere di Allegri

Il signor Santarelli mi fornì i seguenti particolari, relativi al famoso Miserere di Allegri. Questa musica, che per oltre centocinquant'anni è stata eseguita ogni anno nella settimana della Passione nella cappella ponticifia il Mercoledì ed il Venerdì Santo, è, in apparenza, assai semplice; tanto che, vedendola soltanto scritta sulla carta, ci si chiede dove risiedano la sua bellezza e i motivi dell'impressione che suscita. In effetti essa deve la sua fama più al modo in cui viene eseguita che al valore della composizione: lo stesso motivo è ripetuto più volte con parole diverse, ed i cantori hanno conservato per tradizione taluni usi, che producono grande effetto: come il rinforzare o il diminuire il suono, accelerare o rallentare il tempo in corrispondenza di determinate parole, cantare interi versetti più presto di altri.
Tutto questo seppi dal signor Santarelli. Aggiungo ancora le notizie apprese dall'opera di Andrea Adami che ho già ricordata: "dopo parecchi vani tentativi fatti nel corso di più di cent'anni dai compositori che lo precedettero, di musicare le stesse parole, in forma che potesse essere gradita dai capi della chiesa, Gregorio Allegri vi riuscì infine ed in modo tale da meritare lodi eterne; infatti con poche note, chiare e ben modulate seppe comporre un Miserere che continuerà ad essere cantato negli stessi giorni di ogni anno, anche nei secoli a venire, e concepito con così perfette proporzioni saprà suscitare anche nelle epoche future la stessa meraviglia e rapimento che negli ascoltatori d'oggi».
Tuttavia, l'impressione prodotta da questa musica può essere attribuita forse, in qualche misura, all'ora, al luogo ed alla solennità del cerimoniale che ne accompagna l'esecuzione: il papa ed il conclave stanno prostrati a terra; le candele della cappella e le torce della balaustra vengono spente ad una ad una e l'ultimo versetto di questo salmo si chiude con due cori. Il batte il tempo sempre più lentamente, mentre il suono delle voci dei cantori si affievolisce fino ad estinguersi insensibilmente fino al silenzio assoluto'.
I cantori sono scelti tra i migliori, eseguono parecchie prove, in particolare il lunedì della settimana della Passione, dedicato alle ripetizioni ed al perfezionamento dell'esecuzione.
Questa composizione era considerata oggetto di venerazione al punto che avrebbe corso il rischio della scomunica chi avesse tentato di farne una copia. Il Padre Martini mi aveva detto che non ve ne furono mai più di tre copie, eseguite col permesso dell'autorità; una per l'Imperatore Leopoldo, una per il defunto re del Portogallo ed una per sé; fu questa che egli mi permise di copiare a Bologna, ed il signor Santarelli me ne offrì un'altra, tratta dagli archivi della cappella pontificia. Confrontando queste due copie le trovai quasi concordanti, tranne che nel primo versetto. Ho esaminato parecchie copie spurie di questa composizione, in possesso di persone diverse, in cui la melodia del soprano, cioè la parte più alta, era abbastanza corretta, mentre le altre parti differivano notevolmente dall'originale. Questa circostanza mi fa supporre che la parte alta sia stata scritta a memoria, cosa non difficile date le numerose ripetizioni dei versetti durante l'esecuzione, mentre le altre sono state aggiunte in seguito da qualche contrappuntista moderno.
Prima di chiudere il discorso su di un argomento così interessante per gli appassionati di musica sacra, ricorderò ancora un aneddoto, riferitomi dallo stesso Santarelli.
L'Imperatore Leopoldo I, che di musica non era soltanto amante e mecenate, ma anche buon compositore, aveva ordinato al suo ambasciatore a Roma di intercedere presso il Papa perché gli concedesse una copia del celebre Miserere dell'Allegri, per la Cappella imperiale di Vienna. Il favore gli venne accordato e il della cappella pontificia ne trascrisse una copia che fu mandata all'Imperatore che aveva allora al suo servizio alcuni tra i migliori cantanti del tempo; ma, nonostante la loro bravura, l'esecuzione non corrispose per nulla all'attesa dell'Imperatore e della sua corte; tanto che egli concluse che il del Papa, volendo conservare al Miserere il suo mistero, aveva voluto giocargli un tiro birbone, mandandogli un'altra composizione'.
Allora, sdegnato, l'Imperatore inviò un corriere espresso da Sua Santità con un lagnanza contro il , la quale bastò a farlo cadere in disgrazia ed a fargli perdere il posto presso la cappella pontificia. Il Papa stesso, fu così offeso da quello che credeva esser stato un inganno del suo compositore, che per molto tempo non volle né vederlo né ascoltare ciò che avrebbe voluto dire in propria discolpa. Alla fine, tuttavia, il pover'uomo ottenne che uno dei cardinali perorasse la sua causa, facendo sapere a sua Sua Santità che lo stile in uso tra i cantori della sua cappella, in particolare nell'esecuzione del Miserere, era tale da non potersi esprimere con le note soltanto, né essere insegnato se non con l'esempio; ciò spiegava perché il pezzo in questione, anche se fedelmente trascritto, non poteva produrre lo stesso effetto se eseguito altrove.
Sua Santità, che non se ne intendeva di musica, non riusciva a capire come le stesse note potessero sembrare così diverse, se eseguite in luoghi diversi; ordinò, tuttavia, al suo di scrivere la propria difesa perché fosse inviata a Vienna; e così fu fatto. E l'Imperatore, non vedendo altro mezzo per appagare il suo desiderio, pregò il Papa di mandare a Vienna qualcuno dei musicisti al suo servizio, perché istruissero quelli della sua cappella sul modo di eseguire il Miserere di Allegri, perché fosse cantato con la stessa espressione dei cantori della cappella Sistina. Il Papa accordò questo favore, senonchè prima che i musicisti giungessero a Vienna, scoppiò una guerra contro i Turchi per cui l'Imperatore dovette lasciare Vienna e il Miserere forse non è mai più stato eseguito da allora altro che nella cappella pontificia.
di Charles Burney (da "Viaggio Musicale in Italia", set/ott 1770 - Edt)

sabato, luglio 21, 2007

L'ultima dei Wagner: Katharina

Il maestro e i suoi eredi.
C’è una signora di nome Katharina che da giovedì potrebbe diventare l’ultima regina della dinastia.

Molti di loro li si riconoscono ancora oggi per la pronunciata forma del naso e del mento e per le palpebre degli occhi un po’ cadenti. Gli altri, invece, quelli con le guance leggermente incavate e la carnagione pallida hanno preso più da Cosima, la figlia di Franz Liszt. Sono gli eredi di Richard Wagner: nella saga di questa famiglia arte e rancori privati, storia tedesca e provincialismo francone diventano un tutt’uno. Dal geniale avo hanno ereditato l’istinto per la teatralità e una volontà indomita. Nella vita di tutti i giorni ripropongono quasi compulsivamente quello che Richard aveva pensato per le sue opere: come Fafner custodiscono il tesoro di Bayreuth, come Wotan costruiscono il loro potere stilando contratti. Ci sono figlie e figli ripudiati alla maniera di Brünnhilde, rotture coniugali e tradimenti ferali alla Hagen. Il loro è un infinito “crepuscolo degli dei” così scrive Claus Spahn sulla Zeit, per introdurre un nuovo capitolo della saga dei Wagner. Una sorta di preludio che da anni ormai, anticipa il Festival di Bayreuth, uno dei più importanti appuntamenti musicali al mondo. Assistervi è un privilegio riservato a pochi. Per i prossimi dieci anni i biglietti sono già esauriti. Per i wagneriani sfegatati e fortunati, tra questi la cancelliera Angela Merkel, ogni anno si ripete il miracolo di quei primi suoni che sembrano provenire dagli inferi. Un effetto voluto dal maestro quando commissionò la costruzione del Festivalhaus e diede precise disposizioni riguardo alla buca dell’orchestra: doveva essere sotto il palcoscenico e chiusa da un coperchio. Bayreuth può essere una meta ambita o no, a seconda dei gusti musicali. Ma nessuno si perde certo le novità sul clan, le indiscrezioni che trapelano da Villa Wahnfried, la maison privata, Fort Knox, dove vive Wolfgang Wagner, nipote longevo del Maestro, con la moglie. E l’appuntamento di quest’anno promette poi particolari emozioni. Ad aprire il festival, tra meno di una settimana, il 25 luglio, sarà, infatti, Katharina Wagner, figlia di secondo letto di Wolfgang. L’ottantottenne patriarca, che da oltre mezzo secolo amministra l’eredità dell’illustre nonno, ha designato lei la sua erede al trono.
Occhi puntati dunque sulla ventinovenne, che per la sua prima volta sul palco di Bayreuth ha scelto (ma lei sostiene che è una questione di rotazione e basta) la regia de “I maestri cantori”, unico dramma musicale del bisnonno con vero happy end. L’ultima messa in scena di quest’opera l’ha firmata, peraltro, dieci anni fa proprio suo padre. Se andrà bene, e deve andare bene, Wowa, Wolfgang Wagner, potrà imporre il suo successore, anziché veder passare lo scettro, magari dall’alto dei cieli – il suo contratto è a vita – a chi negli ultimi anni ha cercato di sottrarglielo, cioè la figlia di primo letto Eva e la nipote Nike. Una corsa al trono che non ha escluso colpi bassi. C’è chi ha gufato sulla sua età, chi ha ritirato fuori quell’amicizia particolare che legava sua madre Winifred al Führer. Se Wowa la spunta, sarebbe peraltro di nuovo una donna a diventare custode dell’Oro del Reno, del Tesoro dei Nibelunghi, del Santo Graal, dell’eredità di Richard Wagner. E così dev’essere, visto che la Dinasty wagneriana, ha avuto soprattutto nelle donne guardiani irremovibili, capaci di battersi come leonesse. Leonessa, questo anche il soprannome dato a Winifred Wagner, moglie di Siegfried, terzo e ultimogenito di Richard e Cosima. Leonessa perché come una belva Winifred ha difeso il lascito dell’illustre suocero. Lupo, Wolf – Onkel Wolf per i bambini – veniva invece chiamato, perché così volle Winifred, il Führer. Lei lo venerava e segretamente, non è da escludersi, lo amava. E’ vero che Siegfried era il suo sposo, è vero che con lui aveva messo al mondo quattro figli, ma Siegfried non era istintivamente attirato dalle donne, anzi il suo cuore batteva per gli uomini. Un tratto, se si vuol dar credito a quanto racconta Nietzsche nel “Caso Wagner”, ereditato peraltro dal nonno. Le sue intuizioni il filosofo le rende pubbliche solo a rottura consumata, una rottura dolorosissima, vista la venerazione che già al loro primo incontro aveva provato, Nietzsche era ancora studente, e che poi si era mantenuta viva per anni. “Nei giorni passati” scrive Nietzsche ricordando alcuni momenti passati insieme “Wagner era assolutamente feminini generis”. Nonostante il noto dongiovannismo di Wagner, c’era in lui sicuramente anche un tratto femmineo che non poteva sfuggire al suo attento e sensibile discepolo. Nietzsche sapeva poi – da Cosima, che ne era molto irritata – della predilezione di Wagner per gli abiti femminili appariscenti, della sua passione per tessuti preziosi e profumi. Che avesse anche altre inclinazioni non è testimoniato da alcuna parte, certo però godeva nel vedersi circondato da uomini giovani e innamorati di lui, caduti nella sua tela di ragno. Wahnfried, così si chiama la casa che Richard Wagner volle far costruire a Bayreuth, paesino incassato nella regione della Franconia, Baviera settentrionale, dove Wowa risiede con la famiglia e riceve chi del parentado non è ancora stato scacciato dall’Olimpo. La parola Wahn, per Wagner significava ancora attesa, speranza, ma anche sospetto. Friede invece vuol dire pace. Oggi Wahn sta più comunemente per delirio, per vaneggiamento. Un adattamento semantico che rispecchia, a dire il vero, più propriamente l’indole dei suoi eredi. Volere e potere, dominio e onnipotenza. Le faide dei Wagner sul Grünen Hügel, la collina verde, dove si trova la villa, hanno segnato quel luogo tanto quanto la musica che ogni anno vi riecheggia. A Bayreuth, questo voleva Wagner, dovevano essere rappresentate solo le sue opere. Dal 1876 quando per la prima volta il Festivalhaus aprì i battenti e venne messa in scena la sua maestosa tetralogia dell’“Anello dei Nibelunghi”, mai nessun altro suono che non fosse stato concepito dal Maestro ha riempito quello spazio. Solo i dieci drammi musicali da lui composti riecheggiano in questa sala. Null’altro. Anzi a voler dar credito a una fonte, Wagner avrebbe voluto, che rappresentate tutte e dieci le opere una volta, partiture e Festivalhaus venissero messi al rogo. Magari, il non aver rispettato questa volontà, equivale un po’ alla maledizione che il nano Alberich impresse all’anello dei Nibelunghi. Sarà per questo che si perpetua quel Wahn, quella sorta di mito/delirio, che dura da centotrent’anni e alimenta gli intrighi di palazzo. Nessuno è mai retrocesso nella battaglia per aggiudicarsi l’eredità, amministrarla e custodirla come una sacra reliquia. In nome di questo, per tornare ai giorni nostri, sono stati banditi figli e nipoti che avevano avuto l’ardire di mirare al tesoro o di criticare la storia di famiglia. Prima fra tutti Nike Wagner, che a 60 e passa anni è diventata la fotocopia di sua nonna Cosima. Nike è figlia di Wieland, fratello maggiore di Wolfgang. I due fratelli, nel 1954 quando viene ripreso il festival, si dividono la gestione. Wieland si occupa della parte creativa, Wolfgang di quella organizzativa e amministrativa. Wieland muore però già nel 1966 per un tumore ai polmoni. Da allora Wowa dirige da solo Bayreuth. Ne diventa signore e padrone indiscusso. E a poco serve che nel 1974 si decida di costituire una fondazione, con consiglieri e direttorio che in teoria avrebbero anche voce in capitolo sull’organizzazione. Lì per lì, e a dire il vero fino a oggi, la fondazione è servita solo a trovare la somma di 12,4 milioni di marchi per garantire la sopravvivenza del festival e l’acquisto dei possedimenti della famiglia Wagner – Festivalhaus e Villa Wahnfried – diventati anche fuori stagione mete turistiche, luoghi di pellegrinaggio. Ma Repubblica federale, Baviera, città di Bayreuth e gli amici/sostenitori, che compongono direttorio e consiglio, nulla hanno potuto sino a oggi contro il diritto veto del “vecchio”. Già nel 2000 si pensava che Wowa, allora ottantunenne, avesse fatto il suo tempo e che il festival aveva bisogno di una mente più fresca per rinnovarsi. Nike e la figlia di primo letto di Wowa, Eva Wagner Pasquier si fanno avanti. Entrambe già note nel mondo dell’arte e dei festival. Nike è conosciuta soprattutto come “storica” di Wagner, Eva come direttrice del Festival di Aix-en-Provence. Ma Wowa non ne vuole sapere di loro due. Nike ha la colpa di aver criticato sempre apertamente lo zio, osando a un certo punto addirittura chiedere pubblicamente di tagliare le sovvenzioni al Festival finché lo dirigeva lui. Eva, che mai ha partecipato alle polemiche e agli intrighi di Villa Wahnfried e dintorni, semplicemente quella di appartenere a un’altra vita, a un’altra relazione. Le due sono bandite dalla frequentazione del Grünen Hügel, ma continuano ad avere l’abbonamento di famiglia al Festival. Assai più dura la punizione inflitta a Gottfried, fratello di Eva. Musicologo e regista d’opera, da anni stabilitosi in Italia, Gottfried ha avuto l’ardire di ritornare una volta ancora nel suo libro “Il crepuscolo dei Wagner” sulle simpatie della nonna e non solo per il Führer. Di scrivere sul New York Times “certo Wagner fu un artista, ma un artista del male”. E di dire, anni prima al padre “forse faresti meglio a partecipare a una manifestazione anziché continuare a fare il pasticciere di corte di una borghesia disumana”. Gottfried oggi non possiede nemmeno più l’abbonamento al Festival. Wowa per un certo periodo aveva coltivato l’idea di cedere lo scettro alla seconda moglie, Gudrun, sua ex segretaria, sfilata all’editore delle memorie di Cosima Wagner. Nonno Richard docet. Cosima era sposata in prime nozze con il direttore d’orchestra Hans von Bülow, e i primi figli che fece con Wagner, vennero riconosciuti da Hans per evitare lo scandalo. Wagner a sua volta era maritato a Minna Planer, dalla quale, per non spezzarle il cuore, mai si separò legalmente, tanto da poter sposare Cosima solo dopo la morte della prima consorte. Tornando all’indole vendicativa, anche le donne della dinastia Wagner (dirette discendenti o acquisite) ne hanno sempre avuto in abbondanza. Basta ricordare quanto accadde alla morte di Cosima nel 1934. La figlia Eva che aveva sposato Houston Stewart Chamberlain, il più famoso teorico della razza dei suoi tempi, si era allora appropriata dei documenti della madre, anche dei diari, 5000 pagine, dedicati al figlio Siegfried. Quattro mesi dopo era morto anche lui e Winifred, sua moglie, aveva denunciato il furto della cognata. Eva allora che pensò di fare? Rediviva Kriemhild, si lasciò accecare dalla furia e bruciò l’intero carteggio tra Cosima e Richard. I diari li consegnò invece nel 1935 al sindaco di Bayreuth con la clausola che restassero sotto chiave per altri 30 anni. Quando nel 2000 divampa poi la prima grande faida di successione, i consiglieri della Fondazione appoggiano le candidature di Nike ed Eva, in questo modo il Festival si sarebbe rinnovato restando però nelle mani di una Wagner. Al no deciso di Wolfgang l’unica cosa che il consiglio può fare è rendergli la pariglia dicendo a sua volta no a Gudrun. Eva Wagner Pasquier a quel punto annuncia che per lei il capitolo Bayreuth è chiuso. Nike non si trattiene invece dalla battuta velenosa “L’idea di Gudrun in quel posto è la barzelletta dell’anno”, ma anche lei lì per lì si ritira e nel 2004 accetta la direzione del Festival di Weimar. Noto, sotto la precedente direzione, come un appuntamento artistico a tutto tondo, Nike decide di dargli un’impronta più marcatamente musicale, e un “patrono” d’eccezione: Franz Lizst, padre di Cosima. Vista l’indole wagneriana non è detto che si tratti solo di un tributo al bisnonno che alla corte di Weimar fu anche direttore d’orchestra. Ma c’è un’altra curiosa coincidenza con Weimar. Sopra la collina che domina la città si trova Villa Silberblick, ultima dimora di Nietzsche. La sorella Elisabeth l’aveva trasformato in un luogo di pellegrinaggio, mentre lui stesso, nei sempre più rari momenti di lucidità, si definiva un “povero Lazzaro”. Luogo d’esilio emblematico dunque, anche se Nike, così dicono le lingue biforcute, la cacciata dall’Olimpo di Bayreuth la vive solo come temporanea. Le ultime indiscrezioni sullo zio Wowa parlano di uscite pubbliche sempre più diradate, che l’udito lo sta abbandonando e anche la testa non è più tanto lucida. Forse c’è del vero. Sette anni fa a questi veleni lui stesso replicava: “Per molti sono già andato di testa da anni” – ora invece non ci sono commenti. Sempre nel 2000 per dimostrare che era l’esatto contrario di un vecchio decrepito aveva chiamato a Bayreuth registi d’avanguardia. Ricordandosi del successo ottenuto nel 1976 dall’enfant prodige Patrice Chereau con la regia dell’“Anello dei Nibelunghi”, chiama per il testamento artistico religioso di Wagner, il “Parsifal”, Christoph Schlingensief, l’enfant terrible della scena teatrale tedesca. Una scelta più che azzardata come Wowa stesso poi avrebbe realizzato. Schlingensief voleva installare sul palco anche video. Ci volle la furia del “vecchio” per decidere di lasciar perdere. Infine, aveva chiamato Lars von Trier per l’“Anello dei Nibelunghi” da mettere in scena nel 2006. Sarebbe stato un colpo da maestro se il regista, di punto in bianco, non avesse dato forfait, preferendo un film con Nicole Kidman. Claus Peymann, uno dei più noti registi teatrali tedeschi, lui stesso famoso per “scandalose” messe in scena al Burgtheater di Vienna, aveva commentato queste scelte con “il vecchietto non c’è più tanto con la testa. E comunque, a me non mi ci porterebbero dieci cavalli a Bayreuth, anche se come amante dell’opera avrei certo i migliori requisiti”. Forse un po’ gli rodeva anche di non essere stato preso in considerazione.
Katharina la Valchiria, così qualcuno la chiama, studia da una vita da sovrintendente. Dopo Ragioneria si è iscritta a Scienze teatrali a Berlino. Preparazione a tutto tondo per l’erede designato del Santo Graal. Per il primo debutto come regista nel 2002 a Würzburg, sceglie un’opera del bisnonno, l’“Olandese volante”, ma non va bene. Meglio i lavori successivi, il “Lohengrin” a Budapest e il “Trittico” di Puccini a Berlino. Ora le tocca la prova del fuoco. Nelle interviste ha sempre tenuto un profilo basso. Le malelingue dicono però che da tempo agisce dietro le quinte e che la scelta dei registi d’avanguardia è farina del suo sacco. Lei non se ne cura,
così come glissa sulle rivali anche se sa che Nike e Eva non hanno affatto deposto le armi, nonostante l’età giochi a loro sfavore. Ma se con i “Maestri Cantori” non dimostrerà la sua maestria, Katharina sa che quella “commedia dell’assurdo”, definizione che Nietzsche usò per la vita di Richard Wagner, ma che si adatta benissimo anche alla storia del clan, continuerà. E’ vero che Wowa di anni ne ha 88, ma la moglie Gudrun 62, come Eva e Nike. Insomma la soap opera wagneriana potrebbe continuare. Anche perché gli esperti della saga dei Nibelunghi sanno che Gudrun è l’altro nome del personaggio Kriemhild, la cui furia per vendicare lo sposo Siegfried, è diventata leggendaria.
Andrea Affaticati
("Il Foglio", sabato 21 luglio 2007)

venerdì, luglio 13, 2007

Il Mahler di Adorno

Introduzione a cura di Ernesto Napolitano. Nuova edizione. Piccola Biblioteca Einaudi. Torino 2005, 198 pp..
In nuova edizione, e non più in gemellaggio con l'altro storico Versuch (über Wagner), sempre da Einaudi (PBE) è stato riproposto il Mabler di Adorno, cui è premessa un'introduzione di Ernesto Napolitano. Questa «costellazione di singole analisi» musicali - sottolinea il curatore citando una definizione dello stesso Adorno - non mostra agli occhi del lettore contemporaneo tracce d'invecchiamento o inattualità imponendosi, viceversa, alla sua attenzione come il saggio «più meritevole, fra quelli che ci ha lasciato in questo campo». A riprova conta il primato, in esso, attribuito all'oggetto sul soggetto, la percezione sensibile dell'Altro, il traguardo estetico riconosciuto a quanto, altrimenti, suole considerarsi gratuito, estraneo, «scarto».
Gli otto capitoli del libro, dai titoli emblematici, annunciano prospettive di analisi i cui punti di riferimento essenziali sono individuati in una concezione formale orientata in tre categorie. Adorno le cita esplicitamente all'inizio del III capitolo (Caratteri): irruzione, sospensione, adempimento. Per ognuna di esse, fornisce chiavi di lettura ed esemplificazioni, rintracciabili un po' ovunque nell'ampio saggio. Così, riferendosi al secondo movimento della Quinta Sinfonia, «la fanfara dell'irruzione prende corpo musicalmente in forma di corale, che non rimane estraneo, bensì va a collegarsi tematicamente al tutto». Tale categoria, liberata dalla sua «ingenuità e ignoranza» e strutturata musicalmente, diventa immanente alla forma. Delegata, invece, a rivestire il ruolo di quanto potrebbe genericamente indicarsi "senza tempo", la sospensione assume carattere «extraterritoriale», come nell'episodio con il corno da postiglione nella Terza. Ancora, nella stessa Sinfonia, alla fine dell'esposizione, nel primo movimento, l'epodo (Abgesang), equivalente alla terza sezione della forma strofica prediletta dai Meistersinger, si configura come adempimento; qualcosa, tuttavia, che «estraneo all'immanenza formale e alle previsioni esatte diventa a sua volta principio formale».
Nel capitolo intitolato "Romanzo", Adorno riconosce a Mahler l'intuizione che fu di Nietzsche sull'insincerità del sistema nella sua integrità. La sua musica si proietta nell'interezza
dell'esistenza, lasciandone inalterata l'oggettività, senza adottare «una metafisica di ricambio» Il procedimento è inverso a quello intrapreso dai classici. Il riferimento a Beethoven è esplicito, laddove quei «concentrati sinfonici sono sempre affiancati da opere la cui durata coincide con quella di una vita felice, piena di moto, paga in sé stessa».
Ma l'affinità più evidente tra la natura del romanzo e la scrittura mahleriana si riscontra sul versante dei Lieder che si «evolvono» nelle sinfonie e che, con esse, spartiscono il medium omogeneo dell'«oggettività stilizzata». Nel Lied von der Erde Adorno riconosce a Mahler un'autonomia stilistica, nella storia del genere, paragonabile solo agli esiti ottenuti da Musorgskij, Janácek o, in alcuni casi, Hugo Wolf, per la capacità di «travalicare il limite consueto di un testo per musica» e per la sensibilità peculiare verso un «est slavo inteso come mondo preborghese». La lettura dell'insuperato saggio, per chi non ne avesse ancora contezza, ma anche la rilettura, per tutti quelli che ne abbiano già scorso le pagine, sono oggi indotte, persuasivamente, da quest'ultima edizione che si avvale anche dell'intelligente revisione effettuata da Elisabetta Fava sulla traduzione di Giacomo Manzoni.

Maina Mayrhofer (il giornale della Musica, 07/07)