Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, giugno 18, 2015

Arturo Benedetti Michelangeli: lontano dai riflettori

Arturo Benedetti Michelangeli (1920-1995)
Da tempo ammalato di tumore, ha voluto morire lontano dai riflettori.

Se ne è andato nel suo stile, in silenzio, dopo essere stato ricoverato per una settimana all'Ospedale Civico di Lugano per una malattia inguaribile. Ora il suo corpo riposa da ieri mattina nella camera ardente di questo palazzo di tredici piani che sovrasta il lago grigio e guarda le montagne bagnate. "Era questo l'ultimo desiderio del Maestro: che la sua morte rimanesse una cosa privata, che non fosse annunciata alla stampa". Sono le poche parole di Anne Marie Gros Dubois, la sua segretaria e compagna, più giovane di una ventina d'anni. "Lasciamolo partire tranquillamente", aggiunge a voce bassa. Abitavano in una villetta a Pura, un paesino di mille abitanti verso il confine di Ponte Tresa. Lì Arturo Benedetti Michelangeli viveva dall'agosto 1979, ma era in Ticino dal 1970. La rigorosa e leggendaria riservatezza del Maestro, attenta a custodire la sua vita dall'occhio esterno, veniva intaccata però ogni tanto dallo sguardo discreto di qualche vicino di casa. Così un'anziana coppia che abitava nella casa a fianco ricorda di averlo incrociato qualche volta anni fa in mezzo ai boschi circostanti: "Ma non dava confidenza a nessuno; sì, salutava, ma niente di più". E la signora si lascia sfuggire senza volerlo un "antipatico", subito corretto da un più morbido "burbero". "Non lo si sentiva suonare, forse la sua casa era insonorizzata". Quando arriva a Pura, da Sagno (nei pressi di Chiasso), Benedetti Michelangeli prende in affitto da una signora olandese un appartamento che lascerà a un altro mito del pianoforte, Vladimir Ashkenazy. "Per un po' di tempo scomparve, in paese i maligni dicevano che non aveva soldi per pagare l'affitto, poi invece tornò e comperò la villetta". Il Ticino ha rispettato il suo desiderio di solitudine. Pochissimi abitanti del posto, ogni tanto, osavano bussare alla sua porta. Come un impiegato comunale, che nel Natale scorso fu ricevuto per qualche minuto: il tempo di un autografo, niente di più. "Rimasi imbarazzato perché non disse nulla, feci in tempo a vedere il salone, lui era seduto in poltrona a guardare la televisione. Mi accompagnò la signora Dubois, che conoscevo da molti anni". Dopo un corso di specializzazione impartito ai giovani pianisti della locale Villa Aeleneum nel 1970, l'unico ricordo pubblico che il Ticino conserva del Maestro risale al 1981. Carlo Piccardi, musicologo e oggi direttore radiofonico, non dimenticherà mai quei tre concerti che Benedetti Michelangeli diede all'Auditorium della Radio della Svizzera Italiana: "Lo seguii per quattro giorni. Arrivava alle 10 del mattino e lavorava senza interruzione per ore e ore, mangiava in camerino...". Ricorda che replicò tre volte lo stesso concerto (Brahms, Beethoven, Schubert) per non andare al Palazzo dei Congressi o al Kursaal, che avrebbero garantito una capienza di pubblico maggiore, ma non assicuravano un'eguale qualità acustica. "Fece portare i suoi tre pianoforti e con il suo accordatore provava per scegliere il migliore: non gli sfuggiva niente delle condizioni acustiche e valutava persino l'umidità del locale", ricorda ancora Piccardi. "Lì capii che i suoi non erano capricci o manie inutili, aveva un rapporto fisico con lo strumento, era anche un grande artigiano del pianoforte, con cui intratteneva una relazione di simbiosi, una specie di lungo corteggiamento. Ha vissuto per quattro giorni in funzione dei concerti e per non distrarsi decise di abitare in albergo, piuttosto che tornare a casa". Sono particolari che la dicono lunga sull'ostinazione del Maestro, sul suo desiderio di perfezione assoluta. "Si è molto insistito sul suo carattere bizzarro o eccentrico, ma per lui ottenere il meglio era un'esigenza profonda, un modo per non tradire il pubblico". Neanche in quell'occasione mancarono i problemi: l'ultima sera il Maestro ordinò di spostare il pianoforte, quando già tutto era stato previsto (luci e suoni) per una emissione televisiva. Benedetti Michelangeli continuava a ripetere: "Non me ne importa niente dell'immagine, per me conta solo il suono".

Di Stefano Paolo ("Corriere della Sera", 13 giugno 1995)

martedì, giugno 02, 2015

Harnoncourt: "I tempi della Passione"

Programma di sala
Nel 1985, anno che l’Europa dedica alla musica, si festeggia tra l'altro il tricentenario della nascita di Johann Sebastian Bach. Lei, insieme all'esecuzione della Matthäus-Passion commemora anche i dieci anni di direttore delle Passioni di J. S. Bach con il Concertgebouworkest. Che significato ha per lei Bach nella storia della musica e quale posto occupa la Matthäus-Passion nell'opera omnia di Bach?
Fin dall’inizio del XVIII secolo, quando è entrato attivamente a far parte della storia della musica, Bach ha recuperato al proprio tempo sia la polifonia fiamminga che il grande barocco di Monteverdi e ancora lo stile del quasi coetaneo Vivaldi, rielaborandoli insieme. E' stato il più grande maestro della polifonia; ha sviluppato le conquiste dell’estro strumentale del concerto italiano, coniugandolo con le forme ridotte ma interessantissime della musica francese. Non vedo nella storia della musica una personalità di così alta statura come quella di Bach, in cui tutto converge. Egli non ha seguito una precisa direzione, in effetti non ha inventato niente di nuovo, ha piuttosto raccolto tutto ciò che era già a disposizione. Operando in questo modo si ha l'impressione che volesse indicare un futuro lontano. Grande significato ha pure il suo incredibile senso del suono, legato probabilmente a1l’organo. Aveva nel sangue il senso dell’acustica, e sapeva sempre esattamente dove col1ocare il coro e l’orchestra.
Era come se avesse un’enorme tavolozza, in parte sua e in parte ereditata, sulla quale combinare i colori del suono. Molti hanno provato a definire i vari aspetti del suo lavoro, giustificandoli col fatto che Bach iniziò a comporre prima per una corte e poi vincolato alle esigenze della sua nuova funzione di Kantor. Per conto mio questa interpretazione è completamente errata: nessuno è mai pienamente soddisfatto del proprio lavoro, ed è umano tendere verso cose sempre più difficili, verso l'impossibile. Le vicende della vita di Bach (la partenza dalla corte di Köthen e la nomina a Kantor della chiesa di S. Tomaso a Lipsia), non costituiscono certo una buona ragione per considerare negativo il fatto che abbia scritto molte cantate di argomento religioso e nessun melodramma.
Non ha senso d’altra parte definire Bach come "quinto evangelista" e rimpiangere il presunto tempo perso a comporre i Brandeburghesi. Bach era un musicista completo, sempre alla ricerca di un posto di lavoro interessante. Io credo che la sua vita sia stata intensa e che noi non dobbiamo argomentare su come avrebbe potuto essere.
Bach compose un notevole numero di cantate per i servizi liturgici domenicali di Lipsia, che certamente entusiasmarono una buona parte dei credenti, anche se tutti non furono soddisfatti perché la sua musica era troppo esoterica. Comunque Bach fu il culmine della storia della musica, così come la Matthäus Passion fu il culmine delle sue cantate.
In genere una Cantata è mediamente di venti minuti; questo lavoro invece ha una durata di tre ore. Composto ne1l’alternanza di recitativi, arie e corali, si sviluppa in una architettura grandiosa dove ogni numero è una pietra indispensabile al tutto.
Con quest’opera Bach ha creato una cosa assolutamente nuova. Se si arriva a far attraversare all’ascoltatore questo grandioso monumento - una vera Via della Passione - allora l’esecuzione è buona.
L'architettura formale deve esprimersi nell’interpretazione, ma non è indispensabile che l’ascoltatore ne abbia piena coscienza, essendo ugualmente possibile coglierne la bellezza nell’esecuzione.

Quando ha ascoltato per la prima volta la Matthäus Passion e che impressione ne ha ricavato?
Mi trovavo a Graz, avevo dieci o undici anni appena, era poco prima o subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. La Matthäus Passion mi ha impressionato incredibilmente e in diversi momenti sono stato sopraffatto dalla bellezza della musica. Non ricordo con precisione lo stile dell’esecuzione, ma non posso mai dimenticare le emozioni che ho provato quella prima volta.
Ho poi assistito a un'esecuzione della Matthäus Passion diretta da Wilhelm Furtwängler che sedeva al pianoforte, ma questo fatto non mi ha disturbato per niente. Allora non avevo ancora un senso critico:
ero aperto a tutte le impressioni.
Più tardi invece, verso i quindici anni, mi era facile rimanere deluso se un’esecuzione non esprimeva sufficientemente la grandezza del lavoro di Bach. Purtroppo non ho mai assistito a un'esecuzione diretta da Willem Mengelberg, dal momento che lui ogni tanto dirigeva la Matthäus Passion a Vienna, mentre io vivevo a Graz. Dopo la guerra ebbi per la prima volta un giradischi e i primi dischi ricevuti (non ricordo da chi diretti) furono proprio esecuzioni della Matthäus Passion, e mi impressionarono molto. A partire dal 1952, quando divenni violoncellista dell'orchestra sinfonica di Vienna, collaborai ogni anno alla Matthäus Passion, diretta ora da Karajan, ora da Böhm, Richter e Scherchen.
 
Nel 1971 ha inciso un disco della Matthäus Passion con il "Concentus Musicus Wien". Cosa voleva dire dl diverso con questo disco?
Principalmente volevo usare strumenti antichi, questa idea mi affascinava. In genere tutte le esecuzioni finivano per assomigliarsi: ogni direttore procedeva sempre allo stesso modo, i cantanti tentavano sempre di imitare Karl Erb o Julius Patzak, e la parte del Cristo era interpretata sempre nella stessa maniera, non c’era volontà di approfondimento. Tutte le esecuzioni mi erano sempre parse copie di una irraggiungibile esecuzione originale ("Uraufführung"). La mia idea è quella di fare sempre, ogni volta, una nuova scelta.
Sono di un’altra generazione e voglio sapere perché faccio qualcosa. Ho ripensato di nuovo tutto: dove usare un certo tempo e come metterlo in relazione con gli altri tempi, che significato hanno le figure dell'evangelista e del Cristo, cosa significa il coro di apertura. Non avevo mai diretto la Matthäus Passion in una sala da concerto o in una chiesa, e questa prima esecuzione su disco non fu proprio un tentativo di cambiare tutto, quanto piuttosto di ripulire la nostra memoria da vecchie esperienze d’ascolto, finché ciò è possibile, e risentire tutto ex novo.

Molti fanno confusione tra il suo tentativo di avvicinarsi all’essenza dell’opera e il desiderio dell'autenticità, cioè di una replica dell'esecuzione diretta da Bach in persona.
Il mio scopo è quello comune a ogni serio musicista: la Matthäus Passion è un’opera d’altri tempi e io voglio comprenderne il significato profondo per quanto è possibile e ritrovare le intenzioni dell’autore. Non intendo farne un problema di alta speculazione ma interpretare alla luce di tutto ciò che posso scoprire. L’altro punto di partenza è che vivo duecentocinquanta anni dopo e che 1’idea base dell’opera frattanto è completamente cambiata. Che cosa significa la Matthäus Passion del 1729 riproposta nel 1985? Se anche potessi ricostruire la prima esecuzione e se anche avessi la conoscenza esatta del suono di allora e se potessi realizzarlo, tutto questo non avrebbe per me un senso musicale, dal momento che allora questa musica aveva una collocazione sociale e religiosa totalmente diversa. La società di oggi ha acquistato libertà di spirito, ma questa libertà per me è assurda: io non sono affatto libero, ho un corpo e delle esigenze, la mia libertà è circoscritta da un sistema determinato.
Se leggo le motivazioni culturali-politiche, specialmente quelle degli artisti, scrittori, uomini di teatro che fanno battaglia per una libertà del1’arte senza limiti, allora mi è chiaro che viviamo in una situazione completamente diversa, Le idee di oggi hanno la loro radice nell’illuminismo, vecchio già di 200 anni, ma queste stesse idee sono diventate sempre più forti e prevaricanti. Se eseguo una Passione di Bach o una sinfonia di Mozart, mi devo chiedere: devo eseguirle solo perché sono due capolavori di allora che noi ammiriamo per questa ragione? Se volessi questo, lo farei per mostrare: guardate come era grandiosa l'arte di una volta. Però, se sono d’avviso che nell’arte ci sono valori immutabili che non hanno bisogno di essere attualizzati perché sono sempre attuali, allora devo pensare a un’esecuzione per niente storicizzata: una esecuzione dell’anno 1985, per gente del nostro tempo.
Inoltre c'è da considerare anche il problema tecnico, non essendo comunque possibile ricreare lo stesso clima della prima esecuzione. Anche se volessi fare una esecuzione "da museo", essa non sarebbe possibile. Potrei avere gli strumenti storici più perfetti ma questi sarebbero suonati oggi da persone che non hanno nessuna conoscenza dell’estetica del suono settecentesco. I cantanti di oggi hanno le stesse corde vocali ma un’altra estetica. Per farle un esempio: i bambini d’oggi sono diversi da quelli di una volta che cantavano da soprano dai quindici ai diciotto anni. Oggi si incomincia a undici quando il fisico è meno sviluppato e l'esperienza minore.

Perché adopera ora gli strumenti antichi e ora gli strumenti moderni?
Quando devo scegliere il tipo di esecuzione penso principalmente all’effetto musicale, E solo dopo viene la questione storico-musicale. So che quasi tutta la musica si suona meglio con gli strumenti autentici; non esiste nulla in grado di sostituire un oboe da caccia, o le corde di budello o gli archetti antichi. Nell’orchestra barocca non esistono problemi di equilibrio. Darei volentieri sempre la preferenza a una orchestra di strumenti autentici; ma devo poi valutare i pro e i contro. Se ho a disposizione una orchestra moderna di buon livello, già mi avvicino al mio ideale stilistico; con un'orchestra barocca formata per l’occasione invece si pone spesso il problema di musicisti meno abituati a suonare insieme. Mi viene da sorridere se qualcuno parla di un’esecuzione senza compromessi: non esiste.

La sua prima esecuzione della Matthäus Passion con il Residentie-Orkest, a Scheveningen nel 1974, era con strumenti moderni. Che ricordi ha di quella esecuzione?
La sala del Kurhaus non ha un podio fisso e quindi ho potuto felicemente disporre i musicisti sottolineando la disposizione dei due cori vocali e strumentali.
So come funziona un’orchestra: ci ho lavorato per anni, discutendo a lungo con i capi dei gruppi strumentali per spiegar loro le mie idee. Mi ricordo che alcuni critici facevano confronti tra le mie tre diverse esecuzioni della Matthäus Passion. Quella di Rotterdam era stata più lenta di quella di Amsterdam, e quella dell’Aja più veloce di quella di Amsterdam.
Ero alquanto scioccato nel notare questa attenzione all’elemento diciamo "sportivo". Penso che un’esecuzione abbia in realtà ben altre mete da raggiungere; la lunghezza di un’esecuzione è il risultato del suo contenuto, e i tempi delle singole parti sono solo un aspetto del totale. Così un tempo oggettivamente rapido, può apparire lento. Facendo un paragone fra diverse versioni della Matthäus Passion in una trasmissione radiofonica ho constatato che l’esecuzione oggettivamente più lenta del coro di apertura nell’incisione di Klemperer si avvicina di più alle mie idee.
Bach ha, dato ad ogni parola una dizione e un significato specifico nell’insieme.
Gli strumenti dovrebbero essere suonati e articolati come autentiche voci. Mi disturba sempre nelle esecuzioni tradizionali la mancanza di articolazione. Ma nemmeno mi piace l’eccesso di articolazione. La parte verbale deve corrispondere al ritmo melodico della lingua e la parte strumentale va articolata in modo che la funzione degli strumenti risulti chiara. Se le due cose combinano alla perfezione, anche il lavoro più complesso diventa trasparente e si può capire l’intenzione dell’opera.

Lavora ormai da dieci anni con il Concertgebouworkest nella riproposta della Matthäus Passion e della Johannes Passion: come sono cambiate le sue idee in proposito? Come si è sviluppata la collaborazione con questa orchestra?
Non potrei dirle con precisione, certo cambiamenti ce ne sono stati in questi anni. Del resto io stesso cambio da un giorno all’altro. Mi spaventerebbe se facessi le stesse cose di dieci anni fa. Che questione scientifica sarebbe: sono diventato più lento o più veloce? Come è l'equilibrio? Quale ruolo hanno i solisti?
Ogni solista significa per me un tempo diverso, il peso di una aria cambia secondo chi la canta. L’acustica poi e una cosa molto importante; a Vienna e in Italia il suono è diverso che ad Amsterdam.
Dopo tanti anni di collaborazione con l’orchestra del Concertgebouw le prove si svolgono ora più in fretta, non è necessario spiegare tutto, c’è una intesa tacita. Quando ero membro d’orchestra mi sentivo scontento perché il direttore spiegava cosa voleva e non il perché; io vorrei evitare questo errore. Discuto perciò ogni cosa e desidero che l’orchestra discuta con me.

Alcuni lamentano le novità da lei introdotte nell’esecuzione della Matthäus Passion. L'esperienza religiosa non ha la preminenza: arie e corali tra i più amati come "Wir setzen uns mit Tränen nieder" suonano come canzonette di danza e dopo viene l'applauso invece del silenzio sacro.
Il coro finale è un minuetto e mi viene naturale renderlo tale. Io non dico "Wir setzen uns mit Tränen nieder" (con lacrime ti seppelliamo), ma "und rufen dir in Grabe zu ruhe sanfte, sanfte ruh!" (e chiamiamo verso la tua tomba riposo sereno, sereno riposo). Come si vede non è un canto funebre presso il sepolcro ma un invito al conforto, e qui sta la grande differenza.
Brahms per il suo Requiem ha personalmente indicato il tempo in cifre metronomiche; ma quando lo ascolto, il tempo è due volte più lento. E allora mi chiedo perché. Il testo dice "Seling sind die da Leid tragen" (Beati coloro che patiscono sofferenza) ma io sento solo "Leid, Leid, Leid" (sofferenza). Il contenuto invece è "Selig" (Beati). Non ho mai eseguito il Requiem di Brahms ma se lo eseguissi tutti proverebbero gioia.
Quando Bach compose i cori finali della Johannes Passion e della Matthäus Passion fece attraversare all’ascoltatore l’inferno della sofferenza umana. Anche oggi il tema è attuale perché sappiamo quanti esseri umani sono torturati. Abbiamo ascoltato, nella Passione, cose terribili ma alla fine si dice che la sofferenza non è priva di senso, e che esiste una sofferenza che porta conforto alla gente. Un tempo si
usavano, nella chiesa, forme di danza per ottenere questi effetti.
Nel minuetto la maestosa grandezza è in stretto legame con una dolcissima letizia. Naturalmente si potrebbe dire che un minuetto della Matthäus Passion è cosa diversa dal minuetto di una Suite. Anch’io lo credo, e in una Suite avrei sottolineato maggiormente l’elemento danzante.
Tuttavia non mi sembra sconveniente che un minuetto concluda una Passione e trovo anzi miracolo che Bach sia riuscito a tradurre il conforto in una forma cosi umana.
Per quanto riguarda l’applauso sono molto più meridionale del pubblico di Amsterdam. Sono stato spesso in Italia e quando la gente in chiesa prova gioia, grida "bravo" e applaude.
La chiesa. non è uno spazio creato unicamente per il devoto silenzio; la gente può esprimere i suoi sentimenti religiosi a voce. Secondo gli usi locali questo non si fa ad Amsterdam ma si fa a Napoli. Comunque la gente di Amsterdam non ha il diritto di dire che i napoletani non sappiano come comportarsi in chiesa. Posso rispettare le persone che ad Amsterdam sono infastidite da un applauso; ma se c’è gente che vuole esprimere gratitudine, non mi turba il loro applaudire, Nessuna delle due parti deve per questo offendersi.
Mi hanno chiesto spesso di far smettere l'applauso, ma a volte è possibile, altre no.
Forse, chi applaude intende dire "L’aspetto religioso è secondario... questo è un concerto come altri». Non è questo il genere di applauso che preferisco, ma non si può costringere nessuno a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro. Mi disturberebbe certo un applauso alla fine de1l’Incompiuta di Schubert, perché in quel momento mi sento addosso una mano che mi strozza e mi viene da piangere. Alla fine della Matthäus Passion invece non ho bisogno di piangere, provo conforto e gioia.

Intervista di Kasper Jansen a Nikolaus Harnoncourt
(dal libretto di sala in occasione della tournée in Italia del 1985 che ha toccato le città di Milano, Modena e Firenze)

lunedì, aprile 06, 2015

Magris: Il tavolo di Schönberg

Scacchiera per quattro giocatori
ideata da Arnold Schönberg (1874-1951)
L'immagine della bontà è spesso collegata a un rapporto amichevole e confidenziale con le cose, a una rispettosa familiarità con gli oggetti, a un'attenta e sapiente capacità di maneggiarli con abilità, ma anche con cura e riguardo. La gentilezza rivolta alle persone, agli animali, alle piante si estende, spontaneamente, alle cose, al bicchiere in cui si infila il fiore; la bontà è anche nelle mani, nel modo in cui si tendono verso altre o prendono un portacenere dal tavolo. L'attenzione, è stato detto, è una forma di preghiera, il riconoscimento della realtà oggettiva, di un ordine, di confini; un modo di guardare al di là e al di sopra del proprio Io, di sapere che nessuno è il satropo tirannico e capriccioso del mondo né può devastarlo a suo arbitrio, come ci accade in quei penosi e impotenti scatti di collera in cui, non potendo distruggere noi stessi, gli altri o l'universo, facciamo a pezzi il primo oggetto che ci viene a tiro. C'è una robusta bontà delle mani, proprio di chi bada all'altro e non si concentra sterilmente solo sulle proprie smanie; assomiglia all'infanzia, la cui fantasia si accende per un sasso o per una scatola di fiammiferi vuota, e assomiglia soprattutto all'arte, che non esiste senza questa sensuale, curiosa e scrupolosa passione per la concretezza fisica e sensibile dei particolari, per le forme, i colori, gli odori, per una superficie liscia e spigolosa, per la rivelazione che può venire dall'orlo della risacca o dal bottone fuori posto di una giacca.
Tutte le cose e i materiali possono essere avvolti in questa luce, chiodi rugginosi, vetri di grattacieli o schermi di computer che si animano come la lampada di Aladino, ma soprattutto il legno ha una sua religiosa fraternità, forse per la stretta vicinanza alla mano che lo tiene e lo modella, per il piacere che dà al tatto, per l'odore vivo. Non per nulla il falegname è un'antica, mitica figura di protettiva bontà paterna, come san Giuseppe o Geppetto.
Anche il tavolo di lavoro di Arnold Schönberg è zeppo di oggetti, accatastati a profusione in quell'apparente disordine in cui solo chi li messi e dispersi a quel modo si raccapezza, ma che - appunto per questo - è il vero ordine di chi vive e lavora, disponendo e organizzando la realtà. Su quel tavolo, alla rinfusa, ci sono quaderni, calamai, blocchi di appunti, fogli di musica fitti di note, matite, portapenne e libri, rullini costruiti ingegnosamente per appiccicare francobolli o chiudere lettere, un violino di cartone, complicate scacchiere escogitate da lui e diverse da quelle consuete, con bizzarri pezzi di scacchi, modelli e disegni delle celebri carte da gioco di sua invenzione, i quadratini di cartoncino colorato che gli servivano per studiare le possibilità combinatorie delle dodici note. Per terra ci sono stecche, piega-carte, seghe, martelli, utensili e marchingegni di vario genere. Nella maggior parte si tratta di arnesi fabbricati da lui stesso, un po' per necessità, un po' per risparmiare, un po' per gusto e piacere. Schönberg si costruiva il suo mondo come Robinson Crusoe, tagliava, segava e incollava, si faceva i cestini per la carta straccia o i cilindri per tenere penne e matite, avvolgeva con cura in striscioline di cartone i mozziconi di lapis per farli durare più a lungo.
Quel tavolo non si trova a Vienna ma a Los Angeles, all'Arnold Schönberg Institute presso la University of Southern California . la più vera Vienna, del resto, sopravvive forse nell'esilio. Quel caldo mare di cose sta nella città in cui il musicista si era rifugiato per sfuggire al nazismo; e non nella casa dove egli abitava - e dove ora abita uno dei suoi figli, Ronald - ma nell'istituto che raccoglie il ricchissimo materiale d'archivio messo a disposizione nel 1976 dai tre figli: seimila pagine di manoscritti musicali, letterari e personali, duemila volumi spesso ricchi di annotazioni autografe in margine, saggi e articoli, epistolari, fotografie, riviste, dischi e cassette, quadri, testimonianze di vario genere, dai fogli-licenza durante la Prima guerra mondiale a biglietti d'auguri, documenti d'ogni sorta e di grande interesse classificati e ordinati con chiarezza e precisione.
Ma quel tavolo non fa pensare all'esilio, allo sradicamento o alla lontananza, bensì alla casa, ai Lari, a una vita profondamente radicata nella famiglia, negli affetti, nell'ordine quotidiano. Quella calda miriade di oggetti - che fa sentire la vita d'ogni giorno, provvisoria e caotica ma indistruttibile nel suo appassionante fluire - dice la regalità sabbatica dell'idillio familiare ebraico, che nessun pogrom e nessuno sterminio possono distruggere. E' la casa dell'ebreo della diaspora, il quale non ha patria ma ha una patria nel cuore, che porta sempre con sé e che niente può annientare; l'ebreo inserito nella tradizione, nella Legge, nel Libro, il quale, secondo la vecchia storia, quando lo vedono partire e gli chiedono se vada lontano, risponde talmudicamente con una domanda ossia chiede a sua volta: "Lontano da dove?", perché da una parte egli è sempre e dovunque lontano, ma dall'altra non è mai lontano dal suo centro di valori.
In quella stanza di Schönberg, maestro e creatore di dissonanze, si avverte l'impronta dell'armonia, di un uomo vissuto nell'armonia. E' la stanza di qualche favoloso padre, nonno o zio che forse abbiamo avuto nella nostra infanzia, qualche personaggio di famiglia che magari combinava poco e che i parenti guardavano con sospetto, ma che per noi era il mago che fa vivere le cose, trasformando pezzetti di carta in creature misteriose, costruendo teatri di marionette o presepi con pastori e cammelli che si muovono nell'ombra.
Nuria Schönberg-Nono, la figlia che si prende cura in particolare del museo e sta lavorando auna biografia del compositore, mi racconta infatti dei semafori di cartone o di altri giocattoli immaginosi e complicati che il padre costruiva per lei e i suoi fratelli o delle speciali grucce che egli faceva affinché la moglie Gertrude potesse appendervi le gonne in modo che restassero ben stirate; nel saggio scritto per accompagnare la pubblicazione delle incantevoli carte da gioco disegnate da Schönberg, cinquantadue carte di un whist, Nuria ricorda come da bambina amasse starlo a guardare quando lui preparava i modelli per le sue invenzioni, sforbiciando piallando e appiccicando, e sentire l'odore della colla e della miscela di acqua e farina che il creatore del Pierrot lunaire e di Mosè e Aronne rimestava in una pentola.
Più tardi, a cena in casa Schönberg, ogni tanto i tre fratelli - Nuria, Ronald e Lawrence - ricordano giochi e compleanni, serate e battute in famiglia, a tavola, moniti a far bene a scuola, scherzi e risate, con quella complicità fraterna che è il migliore, spontaneo omaggio a genitori che hanno saputo essere tali.
Guardando quel tavolo e ascoltando quelle storie, si pensa con invidia alla signoria che Schönberg aveva sul tempo, al tempo che adoperava per tante, tante cose apparentemente di poco conto, anziché dedicarlo, come spesso avviene, alla febbrile amministrazione del proprio genio, alle conferenze, alle interviste, alla promozione di se stesso, all'organizzazione culturale.
La grandezza di Schönberg non sembra pesare sui figli, come vuole una retorica stantia e come del resto spesso accade: non li schiaccia, ma li potenzia e soprattutto li allieta, non getta un'ombra sul loro viso ma una luce fresca e amabile, il chiaro affettuoso sorriso col quale la figlia mi parla del papà. Dal loro volto, dal loro modo di essere, s'intuisce che ai tre figli di Schönberg, un grande dell'arte più alta e rigorosa, deve aver dato quell'affetto che educa alla libertà, a sentirsi in armonia col mondo - nei limiti in cui ciò è possibile nella tragedia e nell'assurdità della vita.
La musica di Schönberg si è calata a fondo, con spietata lucidità, in quella tragedia e in quell'assurdità dell'esistenza, nelle dissonanze del cuore, della storia e del destino. Senza l'esperienza della scissione e della lacerazione, senza avventurarsi come Mosè nel deserto, rinunciando alle consolazioni delle immagini rassicuranti, non c'è grande arte e non è neppure possibile dar voce all'armonia e alla gioia, autentiche solo quando passano attraverso la conoscenza e la consapevolezza della tragedia, altrimenti false e posticce. Il grande artista sa, come Kafka, che il suo compito è assumere su di sé il negativo e il male della propria epoca.
Ma questa discesa agli inferi non è necessariamente fascinazione del male e rinuncia all'umanità. Non molto lontano da casa Schönberg e dalle grandi onde del Pacifico che si abbattono all'improvviso enormi sulla spiaggia, c'era la casa di Thomas Mann, anch'egli esule. Gli Schönberg si recavano talora in visita dallo scrittore, ma i bambini, anche grandicelli, dovevano restare fuori, perché in quella casa non si amava troppo l'infanzia.
Schönberg rimase molto addolorato quando nel Doktor Faustus, per rappresentare la tragedia dell'arte contemporanea condannata a una perfezione priva di umanità e a suo modo intrecciata alla barbarie nazista, Mann identificò nella musica dodecafonica quest'arte grande, ma inumana e demonica. Naturalmente Schönberg sapeva benissimo che, come ogni scrittore che inventa un personaggio, Mann aveva il pieno diritto di prestare al suo protagonista immaginario Adrian Leverkühn, tratti o particolari suggeriti da altre realtà e da altre persone, senza pretendere di ritrarre oggettivamente queste ultime.
Il Doktor Faustus non presume certo di essere uno strumento su Schönberg, ma un romanzo. Ma la grandezza e la fama del romanzo possono indurre molti a ritenere che la musica di Schönberg sia effettivamente quella che Mann attribuisce al suo eroe infero. Ebreo e profondamente pervaso da un senso sacro dell'umano, Schönberg non poteva non rattristarsi sentendo che la sua musica veniva in qualche modo connessa con l'esito finale e barbarico dell'involuzione della cultura germanica. "Se Mann me l'avesse chiesto" disse alla figlia "avrei potuto inventare per lui una musica demonica e disumana, che avrebbe potuto descrivere nel suo libro. Io non l'ho inventata, perché una musica di quel genere non mi interessava, la mia è un'altra cosa...".
Fra molti malintesi, quello lo aveva amareggiato particolarmente. Ma Schönberg, creatore di una musica radicalmente nuova e tante volte fraintesa, rifiutata e accusata nei più vari modi, aveva imparato a sopportare con tranquillità anche l'incomprensione dolorosa. "Chi ha avuto dal Signore Iddio la missione di dire qualcosa di impopolare" dice serena e profonda la sua voce in un discorso berlinese del 1931, che ascolto al museo "ha anche ricevuto da Lui la capacità di rendersi conto e accettare che, a essere capiti, sono sempre gli altri".
 
di Claudio Magris (tratto da "L'infinito viaggiare", Mondadori, 2005)

domenica, marzo 01, 2015

Arturo Benedetti Michelangeli: Il pianoforte perfetto

Era divenuto il simbolo dell'arte pianistica dei nostri tempi. Si negava a ogni pubblicità, ma quanto più si celava dietro le partiture tanto più cresceva il suo fascino. Nell'esecuzione cercava di esaurire ogni aspetto dell'opera d'arte. Faceva pensare a un freddo scienziato ma in realtà aveva conquistato l'equilibrio tra ragione e poesia.

Il grande pianista Arturo Benedetti Michelangeli è morto ieri all'ospedale civico di Lugano. Il musicista, nato a Orzinuovi (Brescia) 75 anni fa, viveva da molto tempo in Svizzera. La scomparsa di Arturo Benedetti Michelangeli priva il mondo non di un grande pianista, specie della quale, nonostante tutto, esistono numerosi esemplari. Ma di colui che ai giorni nostri della stessa arte pianistica rappresenta il simbolo. Per ogni musicista, per ogni musicofilo, per la gente comune, il pianoforte era, è lui. A onta del suo negarsi di decenni all'industria, alla pubblicità, alla stessa popolarità, del suo rinchiudersi come uomo in una fitta ombra donde usciva, e di rado, nella sola veste di musicista. Quanto più si nascondeva dietro quelle partiture pianistiche, quelle opere d'arte cui serviva solennemente da sacerdote, tanto più cresceva il fascino, nel senso etimologico, della sua figura di interprete. E' un vero paradosso, almeno in apparenza, che proprio la devozione il più possibile impersonale alla musica vista come oggetto di culto si trasformi nella causa di un fortissimo carisma personale dell'interprete. Egli viene proiettato prepotentemente in primo piano, l'esecuzione è atto di culto perchè il sacerdote è lui. Un intrico di sensibilità, di disposizioni, di virtù e virtuosismi individuali, da un lato, e di quelle fatalità storiche capaci di forgiarsi gli individui necessari, ne sono la spiegazione. Benedetti Michelangeli appartiene alla razza degli interpreti puri, degli interpreti assoluti, espressione di una sorta di "quaternario" della musica, nel senso di Gottfried Benn: la razza di De Sabata, Celibidache e Karajan, prodotto tipico e obbligato della fase tarda in cui il venir meno dell'impulso creativo concentra tutte le energie vitali dell'arte sull'aspetto ricreativo dell'interpretazione. Esso è divenuto il momento centrale della vita musicale, ormai un immenso umbrarum locus; e si carica di significati e responsabilità che epoche più ingenue e naturali, non ancora passate per le forche caudine del dissolversi del Romanticismo e della crisi del linguaggio artistico del nostro secolo, non avrebbero potuto immaginare. Ecco il terreno di coltura, malsano come sempre avviene per la grande arte, di Benedetti Michelangeli. Questo eccelso dei pianisti ha avuto per la gran parte della sua carriera, e sempre più negli ultimi anni, l'attitudine non a comunicare a un pubblico in modo vivo ed eloquente la sostanza di un pezzo musicale, come facevano gli eredi d'una tradizione umanistica cordiale e severa insieme, per esempio Edwin Fischer, Wilhelm Backhaus, Wilhelm Kempff: ma a voler nel corso dell'esecuzione esaurire ogni aspetto dell'opera d'arte fatta rinascere dalle sue dita, a non lasciarne in ombra il minimo anfratto; in una parola a restituirne quella mitica, forse impossibile, ma sempre inseguita, esecuzione perfetta, esecuzione ideale. Cui non è possibile togliere o aggiungere nulla: la suprema, l'irripetibile, anche se ogni volta, a ogni concerto, ripetuta a prezzo di uno sforzo, di una preparazione e di un sacrificio profondi tanto che possiamo a stento immaginare. E ne nasce anche una lotta del grande Arturo, che ormai s'è lasciato alle spalle gli altri obiettivi, con se stesso, non solo con l'opera di cui sempre più vuole attuare ogni virtualità celata nel mistero della notazione: con se stesso, per l'avventura di raggiungersi, forse di superarsi. Un'arte che per definizione risiede in zone così estreme richiede al suo sacerdote una tensione del pari estrema: non meraviglia che sia capace di distruggere. Senonchè, queste poche e incomplete parole corrono tutto il rischio di dare l'idea di una sorta di scienziato del pianoforte, teso verso una dimostrazione obiettiva e forse arida di un teorema. La colpa è solo delle parole. In modo parimenti approssimativo dirò l'ovvio correttivo che lo scopo dell'indagine di Benedetti Michelangeli era una rivelazione di poesia e di mistero, non una lezione anatomica. Egli rifuggiva dalle plateali esibizioni emotive, dagli eccessi espressivi, e pertanto il riserbo, insieme pudico, aristocratico e classicista del nostro grande musicista venne da taluno scambiato per freddezza: in realtà la delicatezza e la sensibilità delle sue interpretazioni, i chiaroscuri spirituali, le velature timbriche e l'unico equilibrio da lui raggiunto fra ragione e poesia sono gli elementi che l'hanno reso diverso da qualunque altro. E' fatale che un artista siffatto abbia come suo territorio elettivo il grande pianoforte decadente di Debussy e Ravel. Il sogno timbrico dei due compositori che più di ogni altro nella storia hanno esplorato i valori puramente fonici della tastiera e hanno realizzato il piu' vasto spettro dei colori pianistici delle armonie poteva solo trovare la sua massima incarnazione grazie alla tecnica sviluppata da un artista allo scopo di concedere la specifica giustizia a questo stile. L'indagine di Benedetti Michelangeli toccava il peso che ciascun dito della mano, e quindi ciascuna nota di un accordo, con i suoi raddoppi, doveva avere in rapporto all'insieme; e i suoni armonici che se ne generavano (in una bellissima cronaca di un concerto di Bregenz, Maurizio Papini lo descriveva, staccate le mani dalla tastiera, assorto a inseguire gli ipertoni che ancora si sprigionavano dall'ultimo accordo, quasi il suo pensiero li guidasse come le dita i tasti). E quelle cascate di arpeggi dai quali sapeva trarre mille colori diversi; e quelle melodie alitanti su di essi o di tra il loro fluire, differenziate e leggere; e la capacità, davvero unica, di rendere aerea la polifonia pianistica... Il poeta del colore è il Benedetti Michelangeli più noto, diciamo pure più volgarizzato, ed è perciò quello su cui, nella presente triste rievocazione compendiaria, insisteremo di meno. Ancora di più e forse perché ancor più originale, ci era caro l'interprete del grande repertorio classico romantico. In esso, a partire dallo Chopin più elegante, classicista e quasi formalista che si sia mai ascoltato, il nostro genio non considerava nulla come acquisito, allo stesso modo che era miracolosamente capace di riscattare dalla loro fusione subordinata una per una delle note appartenenti alle voci cosiddette di accompagnamento. Allora avevi quelle Sonate di Galuppi e Scarlatti in cui non si trovava più la monotonia della formula compositiva, e quel polittico cromatico, valendo a ricomporre le linee di forza armonico melodiche, chiariva le ragioni della forma, dello stesso processo creativo, più d'ogni patentata indagine. E siamo ancora in un classico aurorale, poco frequentato. Allora avevi quel Mozart in cui la luminosità del timbro pianistico, la perfezione degli accenti, sin nel minimo frammento, ti dava il senso della vertigine: tutto è diventato musica, tanto si può cavare dall'apparentemente facile? Avevi quel Beethoven della Sonata op.111 in cui ti pareva che per la prima volta le variazioni venissero private di quell'alone di utopia che, ora più ora meno denso, sempre le circonda: e poche emozioni potevano pareggiare questa esperienza. Avevi quel Concerto di Schumann in cui la componente onirica era vista come l'aspirazione a un mondo negato di armonia interiore e di bellezza. Ogni tradizione di violenza espressiva era rovesciata. Avevi il Brahms degli Intermezzi, delle Variazioni e, soprattutto, delle Ballate: ove il canto puramente immaginario, assorbito e sublimato in una grande forma di musica assoluta, veniva poi inseguito, snidato nei rivoli di che si compone la polifonia brahmsiana, le voci gravi risonavano quali rintocchi di campana e una sorta di elegia funebre si dipanava con intimità di sentimento ed equilibrio di espressione che la rendevano ancor più struggente. L'aggettivo "funebre" torna di continuo quando si parla di questo artista. A tal punto egli ha coltivato l'isolamento come estetica, attuando in pieno quell'idea di Federico Nietzsche del "pathos della distanza" che la sua stessa vita era non solo, come ho detto, posta in ombra, addirittura assorbita, dalla sua missione artistica, sempre più rarefatta e distanziata nelle manifestazioni. E' come se egli avesse rinunciato del tutto a vivere per consentirsi, attraverso lo studio matto e disperatissimo, quella perfezione, quell'idea del suono come pura bellezza: luce e gioia per gli altri. Ed ecco perché le ultime sue esibizioni davano quasi, con un brivido, l' impressione di assistere a una specie di "nekyia", a un'evocazione postuma: quasi che egli fosse richiamato per la sola durata di un concerto da luoghi e tempi ormai troppo lontani. Così, egli è vissuto in rara coerenza rispetto alla sua visione estetica. Lo stesso "pathos della distanza" egli ha instaurato fra il mondo reale, quello dei concetti e dei sentimenti, e quello dell'arte: pura idea platonica della bellezza, elevata, chiusa in sé, intangibile. La sdegnosa risposta agli orrori del mondo, il rifugio da essi. Quale altra forma d' "impegno" è oggi data a un artista?

Paolo Isotta ("Corriere della Sera", 13 giugno 1995)