Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, gennaio 16, 2010

Le antiche civiltà musicali

E' caratteristico della melodia primitiva che gli intervalli siano pochi, brevi e, soprattutto, indefiniti e, variabili. La musica delle civiltà primitive si differenzia da quella dei primordi per il riconoscimento dell'ottava, con tutto ciò che questo implica; per l'impulso ad affrontare teoricamente il problema di trovare punti di enfasi nei toni e semitoni in cui essi dividevano la scala e, in particolare, nei suoi due complementi, la quarta e la quinta; e per il consolidarsi della melodia.
La scala pentatonica testimonia la primissima fase di un tale sforzo. Questa scala è limitata a cinque gradi dell'ottava evitando i semitoni meno facilmente misurati, così come un bambino evita i suoni dífficili di una lingua sostituendoli con altri più facili. A quest'uso fantasioso o espressivo dei toni e delle scale si accompagnò una sapiente misurazione matematica, che condusse alla scoperta - oltre che delle divisioni naturali dell'ottava - di divisioni meccaniche e artificiali. Questi sistemi nuovi e inconsueti rispetto alle scale naturali sono degenerazioni consacrate dalla convenzione più che rozzezze; e su essi si costruirono tipi raffinatissimi di melodia che ci trasmettono l'impressione di un'arte - quella della musica orientale - immatura e sfatta a un tempo.
La scala pentatonica, o per meglio dire non-semitonica, può esser considerata la base rudimentale di ogni altro sistema tonale in Europa e in Asia, ed è riconoscibile in tutti i documenti di musica primitiva da noi posseduti. Della musica nell'antico Egitto conosciamo troppo poco, nonostante l'abbondanza di illustrazioni pittoriche, per poter dire in modo definitivo se la pentatonica fosse adottata in questa antichissima culla della cultura al punto d'incontro di tre continenti. In Cina è invece rintracciabile lo sviluppo dalla scala non-semitonica a quella di sette note, anche se la vecchia pentatonica rimase sempre il fondamento di quella musica. In Giappone, oltre la scala originale, abbiamo una serie di particolari scale pentatoniche nelle quali vengono usati i semitoni. A Giava l'ottava viene divisa in cinque o sette gradi eguali, che non hanno nulla a che vedere con gli intervalli da noi considerati naturali.
La cultura musicale in Turchia e nei Balcani è affatto diversa da quelle, specificamente «orientali», dell'India, dell'Arabia e della Persia. In India, l'ottava normale di sette note è la base di ogni melodia; ma si trasforma e si fa lussureggiante per un'infinità di intervalli minuti usati come ornamento. Il sistema arabo-persiano è ancora più lontano dal nostro; è costruito su piccole unità di un terzo di tono - dapprima diciassette e poi ventiquattro nell'ottava - e mostra l'influenza della teoria musicale greca. Entrambi questi popoli hanno una disposizione naturale, in parte mistica e in parte emotiva, alla musica. Entrambi operano una distinzione tra la musica solenne religiosa - che ammette la più grande varietà nella struttura del ritmo e delle melodie ed è spesso indipendente dal ritmo della parola - e la musica popolare, caratterizzata dal raggrupparsi simmetrico di piccole unità melodiche o motivi, e nella quale l'austerità melodica diventa spesso rigidità. Entrambi hanno inoltre risorse strumentali sorprendentemente elaborate, dagli strumenti a percussione usati con grande virtuosismo, a quelli a fiato, a corda, ad arco e a pizzico. Alla musica araba l'Europa deve il liuto e il violino.
La civiltà primitiva, che ci ha dato esempi supremi nelle arti plastiche e nella poesia, agì nella musica come mediatrice, nel senso più spirituale del termine, fra le tradizioni dell'Oriente e dell'Occidente. Anche per i greci la musica fu, come dice il suo stesso nome, una scoperta divina. I seguaci di Orfeo e di Pitagora vedevano ancora nella musica un mezzo magico di purificazione e di risanamento. Ma dall'esercizio musicale dei greci primitivi a una concezione ideale di questa forma d'arte, la via fu sorprendentemente breve. I greci giunsero a considerarla elemento necessario di educazione e di cultura generale. La considerarono perfino un pilastro di moralità politica, ritenendo che la giusta armonia e l'euritmia fossero assolutamente necessarie allo stato, non meno che all'individuo. Posero la musica tra i soggetti di competizione artistica durante i festeggiamentì rituali delle tribù o delle città; oltre a queste solenni cerimonie vi erano i giochi, primi fra tutti quelli pitici a Delfi, dedicati specialmente alla musica: a competizioni liriche consistenti in invenzíoni poetiche e musicali dette nómoi - lodi agli dèi nella forma definita di strofe melodiche antifonali con accompagnamento di cetra - e, assai presto, alla musica strumentale pura. Già nel 586 a.C. il flautista Sakadas vinse il premio con una sinfonia descrittiva sull'aulós (strumento ad ancia, non flauto) che intendeva rappresentare la lotta del dio Pizio con il drago. Ma la più alta forma di questi agoni artistici divenne ben presto il dramma, la cui origine va ricercata nel ditirambo, danza corale in onore di Dioniso. Nella tragedia e nella commedia - combinazione di musica, poesia e danza - la parte musicale assunse la forma di canti a solo per gli attori e di canti e danze per il coro.
I greci attribuivano due funzioni alla musica: l'eccitazione elementare nel corso delle feste e l'elevazione spirituale. Ciò veniva impersonato dalla coesistenza e dalla rivalità tra aulodia e citarodia: la prima, meramente strumentale o di appoggio al canto corale, e l'altra, musica vocale accompagnata dalla cetra.
Nell'epoca trionfale della tragedia, accompagnata dall'aulós, questa rivalità fu decisa a favore dello strumento orgiastico; e in ciò va ricercato il senso recondito della condanna da parte di Platone della tragedia. Il predominio della musica strumentale, la subordinazione del discorso, per mezzo del quale l'uomo poteva dominare l'elemento demonico introdotto da tale musica, l'intrusione della concezione orientale della musica come puro eccitamento sensuale, la preponderanza del gusto popolare e del mero virtuosismo - a tutto questo gli antichi filosofi ascrivevano il declino dell'arte antica. Non possiamo provare il loro giudizio; ma il movimento di questo declino coincise con la completa enunciazione dell'estetica dell'antichità, con i sistemi di armonia, di ritmo e di acustica che avrebbero esercitato la più grande influenza sui posteri.
Il «cromatico» ed «enarmonico» della musica dei greci non ha nulla a che vedere con il significato che oggi diamo a queste parole, come la loro «armonia» non implica musica a più voci o alcunché di simile alla moderna polifonia. Il semplice fatto che il tono e la parola fossero inseparabili e che l'unità di tempo del musicista dipendesse dalla prosodia del poeta escludono ogni ipotesi di una polifonia antica. La musica greca era puramente monodica. L'accompagnamento della prediletta cetra - e anche dell'aulós - era semplice ornamento della melodia vocale per mezzo di note di collegamento e di abbellimento (eterofonia). L' «armonia» greca è una dottrina della melodia, di una melodia sviluppata così pienamente e sottilmente da essere una confutazione convincente dell'armonia così come noi l'intendiamo. La base della melodia greca è una serie di scale consistente in tetracordi che si differenziano per la posizione del semitono. Questi tetracordi, scritti secondo la sensibilità e la teoria greche in forma discendente, sono: dorico la, sol, fa, mi; frigio la, sol, fa diesis, mi; lidio la, sol diesis, fa diesis, mi. Un'ulteriore distinzione di questi elementi era fatta con tre generi: diatonico la, sol, fa, mi; cromatico la, fa diesis, fa, mi; ed enarmonico la, fa, fa maggiore, mi. Una melodia così minutamente sviluppata, stabilita da regole fisse ma suscettibile di ricche modulazioni, combinando le varie specie modali, implica negli ascoltatori una sensibilità eccezionale per il dettaglio ritmico e melodico; il quale a sua volta deriva da un simbolismo lungo e complesso dell'intervallo, con profonde radici nella storia - dal carattere (êtbos) delle differenti scale di ottava. Questa sensibilità è suggerita anche dal fatto che ai greci bastavano le poche note della cetra, che dava un'estensione di circa undici note, e i loro strumenti ad ancia di tono basso - stato di cose assai diverso dal nostro. I greci non avevano strumenti a corda ad arco e disprezzavano l'arpa dalle molte corde degli egizi.
Il più importante teorico greco di musica fu il filosofo peripatetico Aristosseno di Taranto (circa 354-3oo a.C.), uno dei sostenitori dello studio psicologico della musica e oppositore delle ricerche speculative dei pitagoricí, che riguardavano l'acustica. Lo scrittore alessandrino Claudio Tolomeo
(II secolo d.C.) elaborò un compendio della teoria classica, ma gli scrittori che trasmisero al Medioevo la concezione e la dottrina greche della musica furono i «filosofi» della tarda romanità Boezio e Cassiodoro, entrambi del VI secolo d.C..
Nella musica come nelle altre arti, i romani furono improduttivi e dipesero dai greci, che avevano assoggettato.
Ci sono pervenute alcune brevi melodie di musica greca e frammenti di altre più lunghe, ma nessun pezzo virtuosistico delle loro molteplici esecuzioni. Tali frammenti li possiamo interpretare grazie alle due forme di notazione, vocale e strumentale, e dimostrano quanto sia difficile, anzi impossibile, scoprire il valore espressivo della musica greca. Il Medioevo e l'epoca successiva non conobbero tali esempi della musica greca, oppure, se li conobbero, non erano in grado di decifrarli. Questa fu la loro fortuna. La conoscenza della posizione ideale della musica nella vita greca, l'ammirazione per il suo sistema sviluppatissimo, e la conclusione da queste premesse che la musica greca era di un carattere unico e nobile - tutte queste valutazioni «a credito» hanno avuto, dal Medioevo in poi, le conseguenze più feconde, divampando in momenti critici ed eccitando le menti umane, soprattutto perché non si possedevano esempi concreti della musica stessa.

Alfred Einstein (tratto da "Breve storia della musica", SE, 2008)

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