Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, agosto 09, 2006

Giuseppe Sinopoli, un direttore scomodo

Giuseppe Sinopoli
Ho faticato più in questa ora di intervista che nel concerto di ieri sera". Se lo dice il maestro, noi cosa dovremmo dire? Parlare con Giuseppe Sinopoli non è faccenda da prendere sotto gamba. Dietro gli occhiali e la voce grave suadente, sotto l'occhio chiaro e sornione, si agitano una dimensione culturale, una dialettica, che rischiano in ogni momento di immobilizzarti. Altro che intervista: è stata una sorta di lezione, in parte stuzzicata in parte accettata, difficile da "ridurre" entro le dimensioni redazionali consuete e che forse, messa per iscritto, rende solo a tratti l'idea della vivacità e della passione autentica con cui è stata impartita.
Per cominciare, non vi racconteremo Sinopoli-uomo. A voi forse interessava, a lui non va di raccontarlo. Nemmeno Sinopoli-direttore: ci aveva già pensato Lorenzo Arruga, quando sul numero del novembre 1983 di Musica Viva l'aveva incontrato a Perugia. D'altra parte la carriera di questo musicista siculo-venezian-viennese - che in virtù d'un corso accademico regolarmente completato in medicina viene invitato nelle trasmissioni televisive in veste di esperto di patologie psicomusicali e che vive sui massmedia come il direttore-dottore - non ha bisogno di illustrazioni spicciole. Artista di punta dell'etichetta gialla, per la quale ha un fornito carnet di impegni discografici (tra i prossimi Olandese volante, Salome, Tosca, Aida, e poi ancora Wagner, Scuola di Vienna, Strauss, Mahler), Sinopoli s'è dedicato con assiduità alla direzione d'orchestra una ventina d'anni fa, imponendosi simultaneamente come compositore e didatta nei corsi di perfezionamento di Siena e Darmstadt: Lou Salome del 1981, la sua prima opera, è stata la sua ultima partitura di rilievo.
Convertito totalmente al podio, con vari rapporti stabili, tra cui l'Accademia di Santa Cecilia (dal 1983 al 1987) e la Philharmonia Orchestra di Londra (che gli ha rinnovato unanimemente la fiducia fino al 1994), Sinopoli ha continuato a lavorare soprattutto nei teatri tedeschi, almeno fino alla recente rottura con la Deutsche Oper di Berlino. In piena immersione wagneriana (ai primi di settembre dirigerà al Festival di Taormina Lohengrin, prima tappa d'un ciclo sul teatro mitologico che trova ospitalità quasi fatale in quel luogo carico di memorie), fresco e felice della prima collaborazione con la Filarmonica della Scala (tornerà nel 1993, pochi mesi prima dell'esordio teatrale scaligero con Elektra) e di quella consolidata con la nomina stabile alla Staatskapelle di Dresda, cui sarà legato il progetto di registrazione dell'Anello del Nibelungo oltre che dell'integrale sinfonica di Bruckner e di Schumann, Sinopoli ha deciso che era giunto il momento di occupare anche i tempi morti: visto che non ama guardare la televisione né leggere i quotidiani (ma i saggi sì), s'è iscritto in incognito alla facoltà di archeologia dell'Università di Roma. Non frequenta ma studia regolarmente, ha dato già qualche esame e sta sudando come per analizzare una partitura di Shostakovic - autore al quale guarda con sempre maggiore interesse - sulla decifrazione d'una monumentale grammatica egizia.
"Non vorrei passare per un fanatico dell'impegno super-intellettuale", tiene comunque a precisare con una certa toccante trepidazione e con l'aria di volersi scusare. Sono normale, cioè: "sarebbe triste figurare come caricatura dell'intellettuale della musica, come spesso tentano di farmi passare. Certo il far musica implica intelletto, ragionamento e approfondimento costante; ma soltanto nella fase preparatoria - la musica nasce dal lavoro ma non è lavoro, va oltre, aveva detto ad Arruga - più importante è la risoluzione nella dimensione del fantastico: quando la rielaborazione mentale e rituale porta l'interprete a una capacità e disponibilità visionaria, onirica, affettiva. Al di là dell'intellettualizzazione letterario-musicale a priori, credo a un far musica solo creativo, di puro slancio spirituale".
Malgrado i suoi desideri e le altre nostre curiosità, abbiamo volutamente circoscritto la conversazione - e la presente trascrizione, che si limita a riassumerne i passaggi essenziali - alla speculazione sulla musica. A seguire quel continuo filtro culturale, talvolta perfino dimostrativo (come alcune sue esecuzioni altrimenti difficilmente leggibili secondo i criteri illusori del virtuosismo interpretativo fine a se stesso cui ci hanno abituato troppi musicisti oggi), che forse riesce a darci l'illusione di poter penetrare il mondo spirituale incandescente (e il senso delle esecuzioni) di questo direttore scomodo, che divide gli spettatori e lascia talvolta spiazzati gli addetti.
Ci assumiamo tutte le responsabilità del caso, se il tono complessivo dell'incontro rimane sentenzioso e intricato. La prima volta che avrete occasione di conoscerlo, potrete rifarvi direttamente - il cipiglio non è che una maschera per difendersi dalla stupidità e dall'invadenza - scoprendone la simpatia, il repertorio aneddotico, soprattutto sui primi anni viennesi e il rapporto stregonesco con Hans Swarowski, la mercuriale voglia di conoscere e confrontarsi con le nuove idee, con le persone...
"Non intendo fare il musicista per tutta la vita", è una sorta di intercalare ricorrente per Sinopoli. Sotto quel tanto di civetteria, ci sembra di avvertire un tono serio che fa pensare. Forse anche la musica è una gabbia per le curiosità umanistiche sfrenate di Giuseppe Sinopoli? Staremo a vedere: di certo ci prenotiamo anche per quando sarà nelle vesti di interprete d'un vaso attico e di qualche mito antico. Un intellettuale dionisiaco di tale forza non si convertirà mai all'acquiescenza o alla routine.
Il linguaggio degli autori è uno degli argomenti su cui Sinopoli si appassiona subito. Quasi involontariamente ci siamo trovati a parlare di Puccini, autore che il maestro ha frequentato a lungo, sia in teatro che in disco, con esiti abbastanza radicali.

Un certo Puccini, quello di Fanciulla del West, non è forse la dimostrazione della diffusione italiana di determinati linguaggi dell'avanguardia internazionale?
Certamente. Su Puccini bisogna fare ripensamenti approfonditi, cavandolo fuori per cominciare dal cosiddetto verismo e facendolo rientrare in un disegno culturale europeo, come dimostra la scrittura orchestrale, armonica, e soprattutto la concezione drammaturgica. Senza considerare la struttura ritmica, che è veramente nuova per tutto il mondo italiano - basti pensare alla contemporaneità tra Falstaff e Manon Lescaut: siamo su mondi assolutamente diversi. Ma il problema del linguaggio impone una riflessione ulteriore su ciò che un autore rappresenta nel suo tempo; la documentazione cioè della sua devianza, di una fragilità storica. A partire dal Novecento i compositori non sono più al servizio della società ma di una devianza loro ri-spetto alla società: tale atteggiamento è già pienamente consapevole in Puccini. Consideriamo la diversità con Verdi sul campo degli argomenti sociali e affettivi. Verdi si interessa a certe strutture psicodinamiche che possono anche non avere un nome o una catalogazione storica precisa, nonostante il clima risorgimentale - l'odio è odio, l'invidia è invidia, l'amore è amore, la vendetta è vendetta - e che possiamo definire archetipici. Categorie assolute: in Verdi non si muovono a livello esistenziale ma affettivo. Per Wagner erano concezione del mondo, per Verdi affetti.
Siamo alla differenza tra simbolo e metafora?
Esattamente. In Wagner, soprattutto nel Ring, esiste un riferimento simbolico globale - l'uso della musica e della lingua: e tutto diventa implacabile in Parsifal e un certo tipo di utilizzazione dei Leitmotiv diventa simbolico. Il segno iconogafico e sonoro rimanda ad altre cose. E' impressionante seguire questa sorta di deformazione continua dei Leitmotiv, messa a reggere una significazione segreta, che sta al di là della storia raccontata e attinge al pessimismo universale entro cui è radicata tutta la cultura tedesca di quel periodo (attraverso i Leitmotiv Wagner ha scavato più di Freud nell'inconscio dell'uomo). Le categorie kantiane sono state messe da parte: vale il non conoscere e semmai il soffrire insieme. La sicurezza del non-conoscere deforma continuamente qualsiasi certezza: esistono degli spostamenti mentali radicali per cui nel Götterdammerung i Leitmotiv appaiono così trasformati che l'uno potrebbe diventare l'altro. Non c'è più neppure questa certezza nominale: il linguaggio, il segnale, l'iconografia musicale diventano un riferimento non alle azioni di palcoscenico, non alla soluzione drammaturgica, ma ad altre cose. Il riferimento di Verdi è diretto, la presa di tipo affettivo.
In che rapporto col sentimento?
L'affetto è una categoria da distinguere dal sentimento perché è una categoria primaria. Il sentimento è una sorta di "commento" all'affetto. In Puccini non ci sono gli affetti ma il "commento", e soprattutto emerge nella sua opera una categoria tipicamente tedesca, il senso della perdita. Nella sua musica c'è l'elaborazione del senso di perdita (soffrire della perdita diventa sentimentale): è però sbagliato compiacersi di questo sentimento, bisogna scavare a monte, tra le incrinature che passano tra affetto e senso della perdita di questo affetto, cioè a monte del sentimentalismo. Lavorare su questi "veleni" - veleno della borghesia, che poi in Italia s'è perso tutto - per ritrovare l'autentica immagine pucciniana e della nostra musica a cavallo del secolo. Spesso si preferisce il fraintendimento, l'archiviazione del caso-Puccini. Il compositore è sistemato nel carrozzone del verismo italiano, movimento nel quale non c'erano né affetti né sentimenti ma una cruda maniera, solo emozionale, di reagire alle situazioni reali, fuori dal controllo del sentimento.
Come si inquadra, in questo giudizio globalmente negativo sul verismo, l'interesse per Cavalleria rusticana?
In biologia si parla di fenotipi e genotipi. Il fenotipo è l'apparenza, il genotipo sta alla base di tutta l'organizzazione biologica. In Cavalleria la base (anche emozionale) non è Mascagni ma Verga, la Sicilia arcaica in cui c'è una pietrificazione degli affetti: che non sono di tipo esistenziale ma determinizzato. Nella macchina drammatica entra l'antica moira greca, il destino che tutto fissa e nulla lascia libero: la storia della cultura siciliana, da Verga a Pirandello a Quasimodo, porta indietro: a questa sorta di pietrificazione delle possibilità affettive. Ho letto Cavalleria rusticana non come opera del verismo musicale ma di quello letterario. Il "caso" di Cavalleria, sotto questa maschera antica, non riguarda i personaggi ma una donna sola, dai tratti tipicamente greci, calata in una serie di difficoltà. L'isolamento della donna-protagonista è il centro dell'opera.
In questo modo, però, si scinde lo storico binomio Cavalleria-Pagliacci..
Infatti non incido Pagliacci. La mia casa discografica, lo stesso Domingo mi stanno alle costole da due anni ma non mi convincono. Anche se la musica di Leoncavallo per certi versi è più raffinata, non riesco a capire quel mondo...
Da qui il modo di frantumare la cantabilità, di far sentire nuovi i passaggi più "facili", di sorprendere l'ascoltatore con particolari portati in primo piano e altri intorbidati. Certo, l'intervento del direttore si avverte molto. E' giusto che sia così? Stiamo parlando della Cavalleria rusticana "di" Giuseppe Sinopoli o di quella di Mascagni? E le sta bene o la infastidisce?
Non è una questione semplice e ci ho pensato a lungo. Spesso si dice questo non è Mozart, questo non è Beethoven... Ma nessuno è in grado di definire un autore. Il problema va posto in termini un po' più seri rispetto a quelli usati da un musicista con la mentalità da Conservatorio. Il nodo è nella divaricazione che esiste tra significato e supporto del significato: c'è sempre una frattura tragica tra momento di esigenza del significato, formulazione mentale del significato e realizzazione pratica.
Un tempo l'esigenza sociale diventava mito: l'esigenza di rievocazione di questa necessità era il rito. Un modello del genere si è spostato nei secoli ed è l'opera d'arte (se poi il rito sia diventato mistero e il mistero tragedia nell'antica Grecia, presuppone, come notò Nietzsche, un abbassamento del problema della conoscenza: la perdita del sacro). Queste esigenze si trasformano nell'opera d'arte in immagine (sonora o plastica) e da qui si va all'applicazione pratica. Soltanto che nell'opera d'arte di tipo iconografico la fenomenologia coincide con l'opera in sé (anche nel caso della letteratura, benché sussista la polivalenza di significati della parola) mentre nella musica la partitura non è fenomeno: c'è un'altra frattura che allontana il significato.
La partitura è solo un segno elementare.
Ma questo segno è fenomeno o è la musica fenomeno? La musica "vive" nel momento stesso in cui si fa fenomeno, però la coincidenza tra fenomeno e segno è molto complessa. E' un po' ingenuo dire io eseguo ciò che è scritto in partitura. Ingenuità stupenda ma inefficace: è come pensare che il Bene possa venire in ogni momento e dominare il Male, come credere nella pluripotenzialità della mamma o del papà...
Ma tornando al concreto: cos'è Mascagni?
La domanda va posta in altro modo: cosa racconta a me Mascagni? lo non ho nessuna pretesa di "rifare" Mascagni ma propongo riflessioni sul caso-Mascagni... oltre tutto alla gente non interessa l'autore in sé: lo conoscono già, l'hanno sentito, ne hanno una loro idea. Voglio fare un lavoro coerente e rendere note mie riflessioni su una musica. Trovo poco utile una lettura solo passionale, emozionale e provvisoria, guidata dall'istintualità musicale di fronte al pensiero: questi momenti di riflessione sono il mio lavoro.
Forse c'è anche l'influenza della speculazione sulla musica che lei ha portato prima come compositore poi come interprete.
In effetti, quando studio una partitura gli aspetti per così dire "direttoriali" sono gli ultimi a interessarmi. Lavoro su cose che al limite non sono neppure musicali, quindi ai rapporti che legano questi concetti alla materia musicale vera e propria.
Questo porta alla selezione severa dei repertorio?
Dirigo soltanto musiche che entrano nei miei interessi mentali e culturali. Rossini, per quanto lo ami, non rientra nei miei interessi per cui non saprei come farlo, non so proprio. Mozart, lo amo moltissimo: come amo il mare. Ma non so nuotare.
E come c'entra un autore come Respighi, di cui sta uscendo una nuova registrazione?
Respighi ha una componente stilistico-espressiva molto simile a quella di Puccini; dal punto di vista ideologico non sento grandi diversità. Anche in lui è ben presente il senso borghese della perdita - e io sono interessato a tutta la musica della perdita, legata al Verlustprinzip che si manifesta nell'esigenza di ricordare (giustificazione anche della sua posizione politica di regime). La Roma che ritorna nelle sue musiche è una Roma molto più avvicinabile delle oscenità iconografiche che sono state fatte per ricordare la vecchia Roma. Respighi si muove nella dimensione dei piccoli affetti che diventano sentimenti; le descrizioni non sono naturalistiche, ma astrattamente della memoria.
Una sorta di profezia del neo-realismo cinematografico?
Perché no? Come nei film Anni Cinquanta è forte il senso della perdita borghese, dell'affetto che slitta nel sentimento.
E dal punto di vista squisitamente linguistico ?
Non è meno stuzzicante: la sintassi orchestrale è assoluta. Respighi non solo scrive benissimo per l'orchestra: come in Puccini "rischia" di evocare situazioni di affetto degenerato, attaccato dai "veleni" piccoloborghesi.
Come Mahler, l'autore un tempo inattuale oggi fin troppo attuale - perfino invadente - nelle nostre consuetudini d'ascolto?
Mahler è rimasto autore inattuale ma è diventato un cavallo di battaglia su cui si sono indirizzati gli appetiti di molti direttori alla ricerca del facile successo.
E di un tradimento generale della sua poetica...
Mahler è l'autore più equivocato del nostro tempo. E' uno dei più difficili: lo Scherzo della Sinfonia n.7 è un passo tecnicamente molto arduo. Ma il problema autentico non sta nell'eseguirlo ma nel porsi l'interrogativo della significazione dei materiali eterogenei usati; in base al significato si agisce musicalmente... Devo dire che se escludiamo le registrazioni di Dimitri Mitropoulos e la Sinfonia n.9 diretta da Bruno Walter - Leonard Bernstein fa un Mahler molto speciale, atipico - ho difficoltà a capire le esecuzioni di oggi, anche se mi rendo conto che i quesiti posti da una partitura mahleriana sono infiniti.
Ci faccia un esempio.
Prendiamo la Sinfonia n.3. Come dirigerla se prima non sono stati posti gli stessi problemi mentali dell'autore. Il rapporto con la natura è naturalistico o rituale? Secondo lo slancio di Dionisio o del Sole mediterraneo? E l'ultimo tempo: è il punto d'arrivo della conoscenza o la scoperta dell'amore primo? Non è sufficiente il bel suono e la lacrima. Mahler va pensato più di quanto vada eseguito.
Per la musica moderna, Mahler è punto d'arrivo o di partenza?
Equivale alla figura di Plutarco nella stagione declinante dell'ellenismo: uno stadio in cui c'è tutto un mondo che si sfascia e la riflessione su quel mondo. Mahler riflette sul passato: è un punto di chiusura non di arrivo, e poi ci sono i recuperi del mondo wagneriano che seguono a livello di pessimismo esistenziale se non materico. C'è ben altro oltre l'immobilizzazione borghese di Strauss (anche se forse proprio per questo filtro culturale più incisivo mi attira sempre maggiormente il mondo straussiano), c'è violenza e una forza assoluta: Mahler chiude le riflessioni sull'identificazione dell'Io con lo Stato: il tentativo delle garanzie viene completamente eliminato, l'uomo è ancora una volta, irrimediabilmente, solo; allora c'è la immobilizzazione dei meccanismi della memoria; memoria come fatto regressivo. Tutte queste bande, bandine, fanfare, campane non sono momenti di vagheggiamento ma di regressione psicoanalitica. Esprimono la fuga da una situazione momentanea di disagio verso il ritrovamento di un tempo in cui le tragedie dell'oggi non esistevano: Mahler è il compositore del negativo mentre oggi viene spesso proposto hollywoodianamente, al positivo.
Eppure basta analizzare la musica. Nella Sinfonia n.9 c'è un ossessivo spostamento ritmico sul secondo quarto per un riferimento regressivo molto preciso e particolare: la presenza della madre che era claudicante. Il riferimento alla figura materna in Mahler non è mai diretta (tranne che in Urlicht); questa circostanza metrica non può essere un caso. Affascinante è vedere come spesso gli accompagnamenti ai valzer siano preponderanti rispetto alla melodia: è il primo segnale del negativo. I percorsi di questo percorso al negativo (che culmina nella Sinfonia n.9 e nell'Adagio della Decima) approdano allo stadio in cui l'immobilizzazione funeraria, il senso totale della perdita, che coincide con la morte, porta indietro al momento in cui l'infanzia coincide con il vuoto, con il nulla: la morte diventa una ninna-nanna, ma non serena. E' la fase della massima regressione. C'è una ballata di Wolf in cui si parla di una gondola funebre che attraversa la laguna però si muove come una culla... Mahler recupera il senso della Sensucht di Eichendorff, il momento in cui ti allontani da qualche cosa e la perdi (però la cosa perduta rimane dentro di te): nostalgia che è struggimento, lo stesso di Schumann (il romantico più legato a Eichendorff). In Mahler questi meccanismi vengono rielaborati e radicalizzati.
Quando sono usciti i primi dischi (Schumann e Schubert), lei ha voluto accompagnarli con dei testi. Perché lo fece e perché non l'ha più fatto?
Non l'ho continuato perché questi testi hanno creato delle reazioni contraddittorie: alcune persone colte hanno reagito in modo positivo con proposte di continuare e di pubblicare a parte i testi e mi hanno messo a disagio perché non ho nessuna voglia di fomentare un sistema interpretativo parallelo - altre, soprattutto in Usa e in Inghilterra, sono rimaste spiazzate.
Nel lavoro con la musica contemporanea, cioè con l'autore, il ruolo dell'interprete si modifica? Qual è il suo ruolo?
A cominciare da Toscanini s'è sempre detto che l'interprete serve la partitura. Ribatto: serve la partitura o l'opera? Oppure invece dell'interprete serve la presenza di un pensiero musicale di cui la partitura è una traccia, una documentazione? L'interprete è un mediatore culturale, non uno che fa e basta: certo c'è la tecnica e l'artigianato, ma sono strumenti non funzioni.
Mediatore di cultura significa che l'interprete si deve porre il problema del pubblico cui l'esecuzione è destinata?
No, no... è un discorso molto ambiguo: non è che diriga diversamente a Londra rispetto a Milano... Naturalmente, ci sono vari livelli di conoscenza e di perfezione: se lei vede un vaso, una pittura attica, percepisce su questa una serie di informazioni che sono in rapporto a quello che lei ha dentro e quello che ha lei in rapporto a questo vaso. Nei musei vediamo categorie diverse di osservatori: ci sono i fenomeni tristi (quelli che transitano guardando appena), chi guarda e dice "che bello! " pur non sapendo cosa sono le figure rosse e le figure nere, e via in progressione fino all'archeologo e all'antropologo, che privilegeranno un campo d'osservazione dello stesso oggetto.
Se leggo prima un saggio di Ranuccio Bianchi Bandinelli su un vaso greco, quando lo vedrò sarò portato a leggere quel che lo studioso ha analizzato prima di me... non diversamente avviene con la musica. Le riflessioni fatte su un'opera musicale, su un pensiero o un oggetto - indipendentemente da chi c'è nel "museo" - avvengono (e servono) comunque. Il rapporto col pubblico è sempre un rapporto a posteriori; quelli a priori sono guide musicali. Bisogna decidere se accontentarci di essere delle guide musicali o proporre delle riflessioni, dei quesiti.
Non mi interessa fare musica per turisti. Mi interessa riflettere sulle cose; non è detto che lo faccia sempre attraverso la musica, anzi.
Potremmo anche rovesciare il ragionamento, in quanto il musicista di solito anche quando ha interessi culturali diversi finisce per farli rientrare sotto la dimensione globale della cultura musicale, non crede? Prima parlava dei vasi attici, sappiamo del suo interesse professionale per l'archeologia: se lei non facesse questo mestiere, potremmo parlare di hobby...
No, no. Io non ho hobby! Mi interesso dei vasi greci, ci lavoro sopra. L'hobby appartiene a una categoria del post-lavoro che non conosco. Una volta chiesero a Boulez dove andava in vacanza, e lui disse "La vacanza? cos'è? non so cosa sia". Sono perfettamente d'accordo con lui. Esiste una maniera di interessarsi alle cose; questa curiosità uno ha il dovere di soddisfarla, ma col medesimo impegno. Avere un hobby significa cercarsi una ragione per essere curiosi; poi c'è la curiosità di base...
Le sue curiosità di base in che direzione si muovono?
Diciamo che in linea di massima mi interessa la migrazione dell'uomo, con tutti i suoi caratteri più forti e "sacrali", attraverso tutte le tradizioni. La vita è troppo breve per un lavoro sistematico; si punta allora su alcuni momenti e si indagano con metodicità... In musica mi sono sempre indirizzato verso certi autori e certe problematiche, ma non per dirigere certe musiche. In sé, dirigere fa parte delle cose che non mi interessano.
Però è un'attività preminente; a scapito della composizione.
Non è detto che sarà così per tutta la vita... Tra qualche anno potrei decidere di lasciare anche il podio.
... ciò dipende dagli "obblighi" d'una carriera internazionale o è la speculazione del comporre che la attira meno?
Il processo compositivo mi ha messo in crisi. Ed è in generale in crisi oggi, anche se non significa che bisogna smettere di comporre.
Anche come interprete ha diminuito il rapporto con la musica contemporanea: come mai? Sfiducia nelle possibilità di colmare la frattura coi pubblico?
Il problema principale riguarda il finanziamento della Philharmonia, un'orchestra che vive con una sovvenzione pubblica modesta e deve mantenersi con dischi e tournée. Quanto alla frattura tra musica di oggi - a parte la virata del neoromanticismo, manovra ingenua per risolvere la questione - e pubblico, è un altro problema, che riguarderebbe anche l'arte iconografica contemporanea se non fosse diventata un oggetto di mercato, decorativa. Si torna al problema generale della ricezione: certo Adorno andrebbe archiviato, ma ci vorrebbe una nuova proposta. Per il momento l'osservazione che il pubblico della Quinta di Beethoven vuol sentire soltanto quel che già conosce è ancora valida. Aggiungo quel che conosce e "riconosce" attraverso il disco; e nel pubblico devo mettere purtroppo buona parte della critica. La gente vuole sentire non solo quel che conosce, ma le tracce marcanti, indiscutibili.
Senza parere in questo discorso c'è una battutaccia per la critica musicale. E così scettico nei suoi confronti?
Non credo alla recensione del concerto, non so come facciano i critici a reggerne la responsabilità e il ritmo. Ci sono cose che non si conoscono o di cui non si può essere interessati: io so quanto tempo impiego a riprendere in mano una partitura già studiata: come fa un critico, sera dopo sera? Non credo al giornalismo musicale, letterario-musicale. Come non credo a quello relativo alle arti figurative. Sono invece molto interessato alla critica musicale storica.
Si riconosce nelle sue esecuzioni? C'è un po' di frustrazione sotto il fascino di superficie dei mestiere di direttore?
Se si è onesti la frustrazione c'è sempre. Si deve fare di tutto per essere in grado di realizzare l'idea. Poi, se funziona oppure no, si saprà soltanto dopo anni di lavoro. Per esempio con la Philharmonia dopo molte stagioni qualcosa comincia a prendere forma, perché a pensare e riflettere insieme...
Si sono accorciate le distanze...
Sì, ma bisogna accorciarle prima con se stessi. Dobbiamo essere in grado di formulare quel che pensiamo nel modo più chiaro e diretto. E' un lavoro infinito, però bisogna sempre continuare.
Anche quando siamo un po' obbligati dalla professione: questa sera devo dirigere, non conta se mi sento bene o male, se ho più voglia di leggere un libro, se sono più legato alle problematiche delle Nachtmusik e non sento affatto il problema del giorno come momento della menzogna: (il riferimento è alla Sinfonia n.7 di Mahler, n.d.r.): tutti siamo obbligati a confrontarci con una serie di cose che non è bene fare in quel momento ma dobbiamo fare. C'è sempre una fessura tra inclinazione e dovere, dobbiamo colmarla giorno dopo giorno con la volontà.
Statisticamente viene un rifiuto sistematico a diradare il lavoro con le altre orchestre perché con loro c'è in più la fatica di iniziare sempre il discorso come da capo. Dirigere non è battere il tempo ma creare un rapporto.
La componente impositiva è necessaria nel rapporto?
Capiscano da soli se stai facendo un'attività funzionale o cerchi di avere un rapporto conoscitivo con loro e con l'opera.
Ma non c'è un trasferimento di volontà, un piccolo plagio?
Le cose funzionano solo se c'è un meccanismo di fiducia che dà legittimità al tuo modo di fare. Una legittimità, non arrogante o superficiale, di chi ha lavorato con sé, con l'opera e cerca di farlo insieme ad altri musicisti. L'aver faticato e approfondito è il primo passo per guadagnare quella fiducia. Credo solo a una legittimazione morale.
Mai istintiva, di carisma fisico o gestuale? Dove va a finire tutta la letteratura sulla figura dei direttore?
Non credo alla pietrificazione dell'autorità, delle garanzie. Vorrei trasformare il termine carisma in "rispetto morale".
Dopo Nietzsche e Schopenauer, parliamo di moralità. Come dobbiamo intenderla?
Come sublimazione della fiducia. Rispetto che la fiducia permette: una grande tolleranza culturale, che è quel che manca oggi. Indagare i margini delle tolleranze culturali: di questo dovrebbe occuparsi la critica.
Direttore fa rima con sognatore? C'è in altri termini una fase in cui tutta la scienza viene metabolizzata e l'interprete stabilisce una sorta di corto circuito diretto con la musica?
Ci deve essere! E' la più importante, lo "scopo" di tutta la fase precedente. Non utilizzerei la parola sognatore, ma il processo visionario è fondamentale. Senza quello non si combina nulla: cosa serve aver letto mille libri e aver pensato, se poi le nozioni non si esaltano in momento "sensitivo"?
Questo attimo autorizza anche il godimento dell'interprete?
C'è un momento in cui avverti che l'impegno si sta concretizzando in qualcosa che ha senso: per te o per gli altri. Cinque minuti dopo un concerto andato bene, se ci sono state delle coincidenze profonde, più ancora del piacere c'è un momento di gioia. Subito dopo relativizzi questa gioia e... ricominci il lavoro. Non credo alle sicurezze: passaporti per frontiere molto provvisorie.
Alla gioia è invitato il pubblico, si avverte la sua presenza?
Non dopo, ma durante l'esecuzione certamente. Quando il pubblico partecipa, senti che stiamo pensando e sognando insieme.
E se "non c'è" non viene la tentazione di "richiamare" la sua attenzione?
Cosa? Fai la "mossa", aizzi di più gli ottoni ... ? No, questo non m'interessa, non si può fare. Non sono un giocoliere.
 
intervista di Angelo Foletto (Musica Viva, Anno XV n.7, luglio 1991

1 commento:

Anonimo ha detto...

Heinrich
Thanks very much for this highly interesting and educational interview with Sinopoli - I like him so much and I fell I can learn a lot from his holistic approach to music. Greetings from Malta. Martin Spiteri (ms51159@gmail.com)