Philip Glass (1937) |
Dire che è un musicista significa fornire una definizione riduttiva: Philip Glass ha dimostrato che si può suonare per il mercato, per blandire il pubblico, per virtuosismo, per ricerca. Senza mai tradire se stessi. E' una specie di alieno, apparso 48 anni fa a Baltimora, una sorta di piccolo grande uomo in viaggio sul pentagramma, nuovo e diverso da tutti, capace di intersecare il suono classico con il rock passando per l'avanguardia, di raccogliere lo spettatore colto e quello più sensibile al genere di consumo.
All'ultimo Festival di Cannes è stato premiato per la colonna sonora di Mishima, il film di Paul Schrader e mentre quell'album sarà a disposizione solo a settembre inoltrato, è appena stato pubblicato un cofanetto di tre dischi derivato da Satyagraha che fa parte di una trilogia di opere iniziata con Einstein on the beach (1975) e chiusa con Akhnaten (1983). Ispirato alla figura di Gandhi è trascritto nell'adattamento dal Bhagavad-Gita, le sacre scritture indiane, Satyagraha è un lavoro complesso e articolato attraverso l'esecuzione di una grande orchestra di una sessantina di elementi e di un coro di oltre trenta unità, che si aggiungono ai nove cantanti protagonisti.
Già segnalato come esponente di punta del movimento minimalista e ripudiata quella qualifica, Glass, che preferisce parlare di musica a struttura ripetitiva, ha condotto il suo linguaggio a una rottura spirituale, con il mondo arido, atonale e in gran parte aritmico dei compositori d'avanguardia degli Anni Cinquanta e Sessanta. E per capire l'approccio intellettuale di Glass alla musica, può venire in soccorso il giornalista e studioso John Rockwell con il suo libro All american music - Composition in the late 20th Century. L'amplificazione — scrive Rockwell — generalmente aumentata a livelli che diventano per i non ascoltatori di rock letteralmente insopportabili è il punto di congiunzione tra Glass e il rock. Creando il suo stile Glass ha ulteriormente illuminato e chiarito la relazione che nella musica sussiste tra semplicità e complessità.
Abbiamo incontrato Glass, di passaggio in Italia.
Mr. Glass. lei è il padre riconosciuto di un'area musicale denominata "minimale": da perfetto alchimista però ha respinto la qualifica e il ruolo. Perchè?
"Perchè era inadatta e parziale, le etichette non servono più per identificare una musica. Dopo Einstein on the beach la musica è cambiata, non solo per una decisione personale: in quegli anni sono successe molte cose, negli Usa e in Europa, per certi versi sono cambiati l'ordine e le norme che regolavano il business. Mi riferisco alla generazione punk, che ha avuto riflessi sulla società e sui comportamenti culturali".
Quali sono i motivi artistici extramusicali che muovono il suo lavoro?
"C'è tutta una generazione di artisti tipicamente newyorkesi che hanno una tensione ideale comune e hanno sviluppato una pratica espressiva che non segue un modello accademico e nel teatro, nella musica, nel cinema, nelle arti figurative hanno trovato una sintesi di sperimentazione molto interessante, in cui mi riconosco: i contatti che ci possono essere con Bob Wilson, con Lucinda Chllds, con Meredith Monk o Laurie Anderson fanno parte di questo universo dalle suggestioni multiformi, Per quello che mi riguarda personalmente ho imparato molto dalla tecnica orientale: studiando con Ravi Shankar ho capito che esistevano tante musiche possibili e che la struttura ritmica poteva diventare il motore di un pezzo, governarlo e dargli vita in un processo di uguaglianza tra lo spazio ritmico e quello nielodicoarmonico. La musica orientale e additiva, prende piccole unità e costruisce da esse: così mi si sono aperte le porte".
Enzo Gentile ("La Stampa", 31/08/1985)
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