Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, ottobre 03, 2015

I paesaggi sonori di Italo Calvino

disegno di Adriano Zannino
"Italo era intimidito dalla musica", scriveva Luciano Berio nel 1988. Ancora. oggi, a trent’anni dalla scomparsa di Calvino (1923-1985), la sua opera letteraria e forse una delle più musicali nella letteratura del secolo appena trascorso per la polifonia dei livelli di lettura dei romanzi e racconti, e il suo percorso creativo può essere paragonabile a una "architettura musicale" fatta di prospettive assai varie, di costruzioni proporzionate e armoniche. Il tracciato - a volte labirintico - del suo percorso narrativo sembra., inoltre, acquisire con il tempo caratteri sempre più musicali e può essere letto perfino come progressivo avvicinamento alle forme della musica; cosi le allusioni debussiane di Se una notte d'inverno  un viaggiatore o gli echi bachiani delle Variazioni Goldberg in Palomar. Dal "timore" per la musica, dalla (inconscia) affiliazione con forme musicali e architetture sonore e, non ultimo, dalla collaborazione diretta con il grande amico Luciano Berio, nasce tutta una rete di rapporti con l'arte musicale, ancora oggi da indagare. Lo studio comparato del rapporto letteratura/musica. - quel particolare momento in cui nel terreno fertile dell'opera letteraria viene immessa la componente sonora - risulta per noi, dunque, particolarmente interessante proprio perché ci permette di fare luce sull'evoluzione del suo percorso di narratore.
Già Elio Vittorini affermava, infatti, che l'arte di Calvino si sviluppa in due vie: da un lato gli scritti "realistici" del periodo '52-'63 (come La speculazione edilizia, La giornata d'uno scrutatore, Marcovaldo) che, rinunciando al gusto avventuroso della narrativa giovanile, appaiono grigi e asciutti nella sostanza e nel linguaggio; dall'altro, le "storie degli antenati" (come la "trilogia araldica" de Il visconte dimezzato, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente, o come il racconto senza tempo Un re in ascolto) che non sono affatto fiabe, ma allegorie, cioè strumenti interpretativi per eccellenza del mondo che ci circonda. La compresenza delle due soluzioni ci permette di indagare la realtà da due prospettive, entrambe nel segno di un'acuta, aspra e ansiosa intelligenza; da qui si sviluppa l'u1tima fase dell'attività di Calvino, da Le città invisibili a Palomar, con il mutevole sperimentalismo e il sapiente uso delle tecniche più varie, talvolta con la perizia di uno scienziato, talvolta con una disinvoltura che rasenta la parodia.
Parallelamente al doppio approccio letterario e nella ricerca di una nuova prospettiva musicale, si possono indicare due "tragitti musicali" indispensabili, e di straordinaria modernità nell'arte di Calvino (lucidamente individuati nei preziosi Studi di Roberto Favaro): l’uso del paesaggio sonoro (o soundscape) e la riflessione sull’ascolto e sulla psicologia uditiva, entrambi affiancati da considerazioni sulla società, sui generi musicali, sull’architettura dello spazio sonoro, sulla musicalità della lingua.
Nel momento in cui lo scrittore trasforma i suoni reali (di natura o artificiali) in "suoni di carta" (quasi "evocati" dalla scrittura), l’opera letteraria costruisce in sé un autentico paesaggio sonoro, fatto di carta, allusioni, inchiostro: un’autentica partitura di suoni e rumori che si offre, anche all'interno della narrazione, come evento privilegiato per l'ascolto. Ma accade che il suono, proprio per il suo "essere nel tempo", tenda, nell’opera letteraria, a farsi memoria. Il suono di natura (pensiamo alla lezione pascoliana) non è, infatti, presenza viva ma traccia della sua assenza, del suo morire grammatizzandosi: nel momento in cui la "voce del mondo" è cristallizzata nella forma linguistica, lo scrittore porge al lettore l’estrema testimonianza della morte di quello stesso mondo che gli è vicino. Ed è cosi che nascono le "partiture naturali" de Il barone rampante (1957), in cui il giovane barone Cosimo Piovasco di Rondò - che sceglie di vivere sugli alberi in seguito a un futile litigio domestico - è capace ora di udire, nel silenzio del (suo) mondo, suoni e rumori di cui aveva perso ormai memoria e che ormai erano estranei, "morti" alla percezione degli altri uomini: "era il mondo ormai a essergli diverso [...] c'è il momento in cui il silenzio della campagna si compone nel cavo dell'orecchio in un pulviscolo di rumori [...] a ogni levarsi o scorrer via del vento, ogni rumore cambiava ed era nuovo. Solo restava nel cavo più profondo dell’orecchio l’ombra di un mugghio o murmure: era il mare".
Non diversamente, fm dalle prime righe della novella Un viaggio con le mucche, decima delle venti che compongono il libro per ragazzi Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (1963), Calvino indaga, sotto l’attento sguardo della propria scrittura, la tematica del paesaggio sonoro: "i rumori veri della città notturna si fanno udire quando a una cert'ora l'anonimo frastuono dei motori dirada e tace, e dal silenzio vengon fuori". Tuttavia la stessa novella, che fin dall’inizio si apre "musicalmente" all'ascolto del lettore, ridimensiona nel finale il paesaggio e il lavoro "campestre", proprio perché ormai la stessa natura - come testimoniano i suoi suoni - "è dispettosa, contraffatta, compromessa con la vita artificiale".
Come già detto, la nostra è anche un'indagine sul piano più specifico dell’ascolto: l'ascolto del romanzo è  una lettura attenta e partecipata che riconosce proprio nella scrittura il miglior veicolo per esplorare e rendere "reali" territori sonori, acustici, musicali, virtuali. Proprio Roland Barthes ci ha sensibilizzato all’ascolto della "musica di carta", intesa appunto come ricezione e decifrazione, da parte del lettore, dei suoni presenti nel testo scritto, come azione attiva che ha il potere e la funzione di esplorare terreni sconosciuti. La lettura rappresenta il "1uogo di significanza" in cui avviene una sinestesia psicologica che accomuna impressioni, suggestioni, suoni, colori, immagini, ovvero una indivisione dei sensi psicologici che "accomuna le loro impressioni in modo tale da poter attribuire al1'uno, poeticamente, quanto accade all'altro". Proprio dal saggio barthesiano Ascolto (1976) è nato, per una sorta di proliferazione di idee e di stimoli, il racconto Un re in ascolto, terza parte della trilogia Sotto il sole giaguaro di Calvino, musicato da Luciano Berio nel 1984. La trama è molto semplice: il sovrano di un regno (intagliato sul Prospero shakesperiano) vive aggrappato al trono posto al centro del suo palazzo, terrorizzato dall’idea di essere spodestato. Da lì, solo attraverso l’ascolto dei suoni e dei rumori che lo circondano all’interno e al di fuori del palazzo, ha esperienza della realtà, dei luoghi, della storia, delle azioni che lì si compiono, del passare del tempo, ma anche dei pensieri, dei significati, dei drammi che si agitano nella sua mente e che agitano la sua coscienza. L’apparente immobilità de1l’azione non deve trarre in inganno: il palazzo è una "costruzione sonora" che ora si dilata ora si contrae, che si stringe come un groviglio di catene perché "c’è una storia che lega un rumore ad un altro". Il testo barthesiano ispiratore, che viene qui "narrativizzato" da Calvino, suggerisce, infatti, di poter considerare tre livelli di ascolto: l’utilizzo dei suoni, per avere percezione della realtà che ci circonda; la rappresentazione simbolica dei suoni, che attiva semplici associazioni o sinestesie tra arti diverse; l’ascolto come "ascolto della coscienza", individuabile direttamente con la psicanalisi, ampiamente utilizzato nell’approccio psicanalitico della narrativa moderna.Anche nelle sue opere ultime Calvino pone sintomatica attenzione alla tematica dell`ascolto. Le città invisibili (1972) propongono, sul piano della pura immaginazione fantastica, la possibilità di "vedere" le città che Marco Polo descrive con grande enfasi al Gran Kan dopo il suo lungo viaggio nell'Impero: tutto passa attraverso la sua voce, le sue urla spasmodiche, i suoi gesti che costruiscono mondi, situazioni, momenti di vita vissuta. Ma altra cosa e scrivere delle città. Il divario tra narrazione, scrittura e ascolto diviene qui tematica fondamentale: "Io parlo parlo - dice Marco Polo - ma chi m'ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei campanelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno scrivano di romanzi d'avventura. Chi comanda al racconto non è la voce: è l'orecchio".
Infine in Palomar (1983), romanzo sulla ricerca e sull’esplorazione, Calvino cerca di superare, nel paesaggio sonoro del gracchiare dei merli, in cui è spesso e volentieri immerso il protagonista, il livello della casualità organizzata dalla natura, e tenta di individuare anche qui un senso, un ordine, una ragione del caos. La lettura tende, dunque, a svelare il senso del suono paesaggistico, a concepire il silenzio come insieme di suoni mai colti, a scoprire le ragioni profonde di un legame suono/natura ancora tutto da comprendere per 1'uomo moderno. L’inclinazione all’indagine quasi scientifica - tipica dello stile narrativo di Calvino - si spin
ge fino a riflettere sul tema della significazione verbale, del divario tra veste fonica e contenuto delle parole, nel momento in cui l'elevazione del significante a significato acquista interessanti connotati musicali, riferibili all’opera e al pensiero estetico-musicale di Luciano Berio: "Se l’uomo investisse nel fischio tutto ciò che normalmente affida alla parola, e se il merlo modulasse nel fischio tutto il non detto della sua condizione d’essere naturale, ecco che sarebbe compiuto il primo passo per colmare la separazione tra tra che cosa e che cosa? Natura e cultura? Silenzio e parola? Il signor Palomar spera sempre che il silenzio contenga qualcosa di più di quello che il linguaggio può dire. Ma se il linguaggio fosse davvero il punto d’arrivo a cui tende tutto ciò che esiste? O se tutto ciò che esiste fosse linguaggio, già dal principio dei tempi?".
 
di Alessandro Cazzato ("Musica", n.266, maggio 2015)

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