Ferruccio Busoni (1866-1924) |
Conobbi Busoni a Berlino nel 1922, quand’egli, dopo la prima guerra mondiale, da lui trascorsa in Svizzera, fece ritorno nella capitale tedesca e si stabilì di nuovo nella sua bella abitazione sulla Viktoria-Louisenplatz. Mi presentai a lui come allievo di composizione musicale all’allora Accademia prussiana delle Belle Arti.
La prima impressione ch'egli mi fece fu irritante e discorde. Mi colpì il suo spirito vivace e scintillante d’arguzia, la sua limpida energia, la sua cultura universale, gli scoppi del suo riso frenetico, la sua "mala lingua", che spesso nascondeva una bontà di cuore non avvertita sempre né da tutti. Uno dei pensieri di Busoni, da lui spesso ripetuto, era questo: "Non bisogna pensare che tutti gli uomini, in fondo, siano buoni. Noi italiani, ad esempio, non lo siamo affatto, e se qualcuno ci tratta male non ci meravigliamo. Non resta che riderci sopra o arrabbiarsi. Così, a tutta prima, non ci fidiamo di nessuno... I russi, al contrario, sono in fondo dei bonaccioni dall’anima aperta. Ma basta ingannarli una volta, tradire una volta la loro sincerità, e ti diventano chiusi e diffidenti per sempre".
Poiché mi ero immaginato Busoni un uomo nel fior degli anni (a quel tempo aveva superato da poco la cinquantina) rimasi molto colpito dal suo aspetto: sul suo volto era già impresso un marchio incancellabile. Lo vidi e lo sentii; e Busoni se ne accorse... Cosi, in un partecipe silenzio, ci vedemmo di fronte a un destino ormai inevitabile. Da ciò, forse, quell’inespressa vicinanza, quella simpatia reciproca che mi legò a lui fin da principio.
Ma Busoni pianista di fama mondiale lo avevo già sentito quand’ero ancora giovinetto a Mosca, mia citta natale. Ciò che colpì allora il mondo musicale russo e lo sbalordì come un’audacia senza pari fu il fatto che Busoni, nei programmi dei suoi concerti, includesse opere di Bach. Fino allora, infatti, la musica pianistica di Bach era considerata, in Russia, un puro esercizio delle dita e del cervello, che si studiava nelle classi superiori dei conservatorii: la si giudicava, insomma, un insieme di studi a carattere unicamente pedagogico e assolutamente inadatta a un concerto perché il pubblico russo non l’avrebbe certo capita. Ma chi ascoltò, allora, l’interpretazione busoniana di Bach, si meravigliò di questa musica tanto estranea alla sensibilità musicale russa: gli ascoltatori purtroppo non ne capirono
la grandezza, ma furono ugualmente trascinati all’entusiasmo da quella esecuzione così congeniale. Tuttavia, ciò che il pubblico pretendeva allora da un così grande virtuoso lo rivelarono le grida che risuonarono nella sala prima ancora che si fosse spenta l’ultima nota di un corale o di una fuga di Bach: "La carnpanella! La campanella!" Busoni mi raccontò quanto quella richiesta lo avesse indignato e persino offeso, e che non sarebbe più tornato sul podio se il suo impresario non gli avesse fatto cambiare idea.
Un altro episodio caratteristico della prassi concertistica busoniana. Quando si diffuse nel mondo la voce ch’egli fosse uno dei più grandi pianisti dopo Liszt, venne a cercarlo a Berlino anche un impresario polacco, offrendogli una tournée in Polonia. Il compenso era cospicuo e Busoni accettò. Quando però si cominciò a parlare dei programmi, l'impresario polacco si affrettò a dire a Busoni che poteva sonare tutto ciò che voleva tranne le opere di Chopin. In Polonia, infatti, attraverso la tradizione nazionale di un Paderewski, si aveva una concezione così fissa e ormai immutabile di Chopin, che il volerlo eseguire sarebhe stato solo dannoso, anzi avrebbe compromesso l’esito dell’intera tournée e provocato una catastrofe finanziaria. E Busoni, di rimando: "O il mio primo concerto a Varsavia lo dedicherò tutto a Chopin, o rinuncio alla vostra offerta". L'impresario impallidì... Busoni diede un concerto di sole musiche chopiniane e fu uno dei maggiori trionfi della sua carriera.
Nel 1922, già molto affaticato da una breve tournée a Parigi e a Londra, Busoni tornò a Berlino. A Parigi, mi raccontò egli stesso, gli era successa questa piccola avventura. Alla fine di un suo concerto lo si pregò molto cortesemente di voler intervenire a un ricevimento personale in un hotel particulier. Lui accettò, stanco, e venne portato in macchina a una villa della Avenue Kléber. La Villa si chiamava "Raffaello". Il nome riuscì molto gradito a Busoni, perchè era quello del suo figlio minore. Ma assai più grande fu la sua sorpresa quando, nelle sale di ricevimento, vide esposti prime edizioni e manoscritti delle sue opere, oltre a molte sue fotografie e a oggetti a lui ben noti. Gli parve di trovarsi in un piccolo museo busoniano. Stupito e commosso, domandò a un anziano signore che gli veniva incontro presentandosi come Monsieur Hausère, che cosa significassero quei segni di ammirazione e in casa di chi egli si trovasse. Monsieur Hausère gli rispose di essere un proprietario d’albergo e che accanto alla sua villa sorgeva l’Hotel Majestic (un edificio lussuoso e uno dei migliori alberghi della Parigi di allora). Ma molti, molti anni prima era il padrone di una piccola modesta locanda a Trieste, in quel tempo sotto l’Austria, e si chiamava Hauser. Busoni certo non lo ricordava, ma quando i suoi genitori, durante una tournée concertistica, erano scesi nella sua umile locanda, il loro figliuolo, il fanciullo prodigio Ferruccio, non aveva potuto seguirli a causa di una polmonite. Questi, allora, avevano affidato il ragazzo al signor Hauser, che lo aveva amorevolmente curato fino alla guarigione. Da allora il signor Hauser seguiva il destino e la luminosa carriera del bimbo che a suo tempo gli era stato affidato. Fattosi un nome e un patrimonio, si stabilì a Parigi come Monsieur Hausère, aprì l’albergo Majestic e andò ad abitare in quella villa, che trasformò in un sacrario busoniano. E adesso era felice che gli fosse accordato di rivedere in casa propria l’artista ormai famoso. Busoni gli porse la mano, commosso, e Monsieur Hausère gliela baciò.
Al Majestic - la "gabbia d’oro", come Gerda Busoni chiamava quel lussuoso albergo - gli allievi e gli amici intimi di Busoni venivano sempre ospitati gratis.
La prima impressione ch'egli mi fece fu irritante e discorde. Mi colpì il suo spirito vivace e scintillante d’arguzia, la sua limpida energia, la sua cultura universale, gli scoppi del suo riso frenetico, la sua "mala lingua", che spesso nascondeva una bontà di cuore non avvertita sempre né da tutti. Uno dei pensieri di Busoni, da lui spesso ripetuto, era questo: "Non bisogna pensare che tutti gli uomini, in fondo, siano buoni. Noi italiani, ad esempio, non lo siamo affatto, e se qualcuno ci tratta male non ci meravigliamo. Non resta che riderci sopra o arrabbiarsi. Così, a tutta prima, non ci fidiamo di nessuno... I russi, al contrario, sono in fondo dei bonaccioni dall’anima aperta. Ma basta ingannarli una volta, tradire una volta la loro sincerità, e ti diventano chiusi e diffidenti per sempre".
Poiché mi ero immaginato Busoni un uomo nel fior degli anni (a quel tempo aveva superato da poco la cinquantina) rimasi molto colpito dal suo aspetto: sul suo volto era già impresso un marchio incancellabile. Lo vidi e lo sentii; e Busoni se ne accorse... Cosi, in un partecipe silenzio, ci vedemmo di fronte a un destino ormai inevitabile. Da ciò, forse, quell’inespressa vicinanza, quella simpatia reciproca che mi legò a lui fin da principio.
Ma Busoni pianista di fama mondiale lo avevo già sentito quand’ero ancora giovinetto a Mosca, mia citta natale. Ciò che colpì allora il mondo musicale russo e lo sbalordì come un’audacia senza pari fu il fatto che Busoni, nei programmi dei suoi concerti, includesse opere di Bach. Fino allora, infatti, la musica pianistica di Bach era considerata, in Russia, un puro esercizio delle dita e del cervello, che si studiava nelle classi superiori dei conservatorii: la si giudicava, insomma, un insieme di studi a carattere unicamente pedagogico e assolutamente inadatta a un concerto perché il pubblico russo non l’avrebbe certo capita. Ma chi ascoltò, allora, l’interpretazione busoniana di Bach, si meravigliò di questa musica tanto estranea alla sensibilità musicale russa: gli ascoltatori purtroppo non ne capirono
la grandezza, ma furono ugualmente trascinati all’entusiasmo da quella esecuzione così congeniale. Tuttavia, ciò che il pubblico pretendeva allora da un così grande virtuoso lo rivelarono le grida che risuonarono nella sala prima ancora che si fosse spenta l’ultima nota di un corale o di una fuga di Bach: "La carnpanella! La campanella!" Busoni mi raccontò quanto quella richiesta lo avesse indignato e persino offeso, e che non sarebbe più tornato sul podio se il suo impresario non gli avesse fatto cambiare idea.
Un altro episodio caratteristico della prassi concertistica busoniana. Quando si diffuse nel mondo la voce ch’egli fosse uno dei più grandi pianisti dopo Liszt, venne a cercarlo a Berlino anche un impresario polacco, offrendogli una tournée in Polonia. Il compenso era cospicuo e Busoni accettò. Quando però si cominciò a parlare dei programmi, l'impresario polacco si affrettò a dire a Busoni che poteva sonare tutto ciò che voleva tranne le opere di Chopin. In Polonia, infatti, attraverso la tradizione nazionale di un Paderewski, si aveva una concezione così fissa e ormai immutabile di Chopin, che il volerlo eseguire sarebhe stato solo dannoso, anzi avrebbe compromesso l’esito dell’intera tournée e provocato una catastrofe finanziaria. E Busoni, di rimando: "O il mio primo concerto a Varsavia lo dedicherò tutto a Chopin, o rinuncio alla vostra offerta". L'impresario impallidì... Busoni diede un concerto di sole musiche chopiniane e fu uno dei maggiori trionfi della sua carriera.
Nel 1922, già molto affaticato da una breve tournée a Parigi e a Londra, Busoni tornò a Berlino. A Parigi, mi raccontò egli stesso, gli era successa questa piccola avventura. Alla fine di un suo concerto lo si pregò molto cortesemente di voler intervenire a un ricevimento personale in un hotel particulier. Lui accettò, stanco, e venne portato in macchina a una villa della Avenue Kléber. La Villa si chiamava "Raffaello". Il nome riuscì molto gradito a Busoni, perchè era quello del suo figlio minore. Ma assai più grande fu la sua sorpresa quando, nelle sale di ricevimento, vide esposti prime edizioni e manoscritti delle sue opere, oltre a molte sue fotografie e a oggetti a lui ben noti. Gli parve di trovarsi in un piccolo museo busoniano. Stupito e commosso, domandò a un anziano signore che gli veniva incontro presentandosi come Monsieur Hausère, che cosa significassero quei segni di ammirazione e in casa di chi egli si trovasse. Monsieur Hausère gli rispose di essere un proprietario d’albergo e che accanto alla sua villa sorgeva l’Hotel Majestic (un edificio lussuoso e uno dei migliori alberghi della Parigi di allora). Ma molti, molti anni prima era il padrone di una piccola modesta locanda a Trieste, in quel tempo sotto l’Austria, e si chiamava Hauser. Busoni certo non lo ricordava, ma quando i suoi genitori, durante una tournée concertistica, erano scesi nella sua umile locanda, il loro figliuolo, il fanciullo prodigio Ferruccio, non aveva potuto seguirli a causa di una polmonite. Questi, allora, avevano affidato il ragazzo al signor Hauser, che lo aveva amorevolmente curato fino alla guarigione. Da allora il signor Hauser seguiva il destino e la luminosa carriera del bimbo che a suo tempo gli era stato affidato. Fattosi un nome e un patrimonio, si stabilì a Parigi come Monsieur Hausère, aprì l’albergo Majestic e andò ad abitare in quella villa, che trasformò in un sacrario busoniano. E adesso era felice che gli fosse accordato di rivedere in casa propria l’artista ormai famoso. Busoni gli porse la mano, commosso, e Monsieur Hausère gliela baciò.
Al Majestic - la "gabbia d’oro", come Gerda Busoni chiamava quel lussuoso albergo - gli allievi e gli amici intimi di Busoni venivano sempre ospitati gratis.
Come insegnante, Busoni non era un dogmatico o un pedagogo alla maniera di Hindemith o di Schoenberg. Non ha mai imposto uno stile o una corrente, non ha mai decantato come esemplari le proprie composizioni e solo in poche occasioni, prima di un pubblico concerto, ha sonato qualche sua opera, a casa sua, in una specie di prova generale, eseguendola lui stesso o insieme con Egon Petri o Michael Zadora. La letteratura, da Dante, attraverso Hoffmann, fino ad Anatole France, la pittura fino a Boccioni gli offrivano ricchi e svariati argomenti di conversazione. Forse e anche per questo che i compositori usciti dalla sua scuola hanno battuto vie così diverse, han potuto sviluppare la propria personalità e oggi non portano alcun marchio busoniano né appartengono a una particolare corrente, a un "ismo" musicale. Ma a ciascuno di essi Busoni diede, come base, un’inconfondibile eticità di fronte alla musica.
Quest'incrollabile idea etica che rifugge da ogni tendenziosità ed evita le panie del quotidiano e dell’effimero si manifesta, ad esempio, come puro fatto cosmico, anzi "cosmofilosofico", nella concezione faustiana di Busoni. Il Dottor Faust è una tragedia che si chiude con la morte del protagonista. La grande impresa che fa di lui un eroe è la lotta vittoriosa della sua volontà per superare ciò che è terreno e transitorio (Mefistofele), e insieme la sua rinuncia alla divina perfezione che l’uomo non è degno di raggiungere (Elena), per volgersi invece a quanto vi è, nella realtà terrena, di eterno: il suo donarsi alle generazioni future attraverso la rinascita dell’uomo, portatore dell’idea di vita "fino all’estinguersi dell’istinto". Sia che inorridisca di fronte alla bruttezza, sia che arda di passione per la bella tra le belle, in nessuno dei due estremi l’anima di Faust perde la propria umanità. Egli è una creatura umana, non un eroe, non sta né sui trampoli (Wagner) né in ginocchio (Dostojevskij): "un essere debole eppure un forte lottatore", l’incarnazione dell’idealismo realistico di Busoni, che ancor oggi non ha perso di attualità.
Il genio universale, al contrario di chi ha solo del talento, può giungere a realizzazioni altissime in diversi campi, e tanto più un genio moderno, Vissuto nell’éra in cui si è scoperta la divina sorgente unitaria di tutte le arti. Così Busoni sapeva derivare la poesia dalle stesse radici creative della musica. Il suo testo poetico, restituendo il linguaggio a una sua monumentalità originaria e grazie alla lucidità dialettica che lo distingue, è di una pregnanza proverbiale e risulta accessibile quasi a chiunque.
L’azione si riduce ai fatti principali, rinunciando alla "logica naturalistica della progressione"; non è analitica ma sintetica, non psicanalitica ma "psicoplastica", non scava nell’anima dell’eroe dimostrandoci la progressione psicologica dei suoi accadimenti interiori, ma ci documenta il suo stato
d’animo attraverso il suo stesso sfogo espressivo.
Uno sfogo sentimentale o un atto privo di componenti preparatorie ci privano, sulla scena, di tutti gl’intimi processi dell’anima. Ciò che vediamo è un complesso finito, che si affianca ad altri complessi altrettanto finiti e ridotti all’essenziale. Questo principio, e la sua attitudine a intrecciare complessi dinamici e strutturali quale risultato ultimo di conflitti precedenti, oltre alla semplicità e primitività sorprendenti dello stile, che è in netto contrasto con tante opere moderne e viene ottenuto mediante una straordinaria facoltà disciplinatrice e organizzatrice, vengono erroneamente definiti
mera costruzione o speculazione da coloro che assistono a un dramma in maniera del tutto passiva. Miopia artistica e spirituale, l’abitudine di accettar solo ciò che è terrestremente umano, ciò che si manifesta per l’immediato tramite emotivo impediscono di scorgere, dietro quella monumentale concentrazione di fatti e di parole, non soltanto un sentimento, ma quei molteplici e complessi stati d’animo che finalmente confluiscono in uno per assurgere a una trasfigurazione simbolica di carattere universale.
Una concezione, una sintesi cosiffatta ha un'importanza determinante nella storia della musica: è il rifiuto dell’abbandono lirico, del fugace stato d’animo, del "capriccio estetico" a favore di un compimento, di una perfezione formale realizzata fuori delle vie consuete; è il neoclassicismo, vale a
dire l’inserimento di contenuti romantici e persino mistici nel classicistico realismo formale di un’opera d’arte in sé conchiusa, la cui architettura è tutta uno slancio verso il trascendente.
Sul Dottor Faust aleggia una filosofia dell’arte e della vita, e vi sfolgora la Vittoria su Mefistofele: un mondo che, grazie all’ottimistica vitalità del suo istinto primordiale, non è incasellato nelle ristrette categorie moralistiche di "Dio e diavolo", ma è dominato dalle leggi di una forza unitaria. Questa scoperta dell’unità essenziale Busoni l’aveva fatta nell’ultimo periodo della sua vita. Alla scoperta dell’unità della musica seguì quella dell’unità del romanzo, unità che poi, per coerenza interna, dal campo dell’arte passò alla sua visione generale del mondo, divenendo il fulcro della sua filosofia. Quest'attitudine a ridurre all’unità singole esperienze e conoscenze e interi campi dell’attività umana - un'attitudine che caratterizza lo spirito di Busoni e la sua intera personalità - affonda le sue radici nell’intuizione e nella conoscenza della totalità, intuizione e conoscenza così rare ai nostri giorni, e che in Ferruccio Busoni avevano un carattere ora di saggezza ora di semplicità infantile.
Quest'incrollabile idea etica che rifugge da ogni tendenziosità ed evita le panie del quotidiano e dell’effimero si manifesta, ad esempio, come puro fatto cosmico, anzi "cosmofilosofico", nella concezione faustiana di Busoni. Il Dottor Faust è una tragedia che si chiude con la morte del protagonista. La grande impresa che fa di lui un eroe è la lotta vittoriosa della sua volontà per superare ciò che è terreno e transitorio (Mefistofele), e insieme la sua rinuncia alla divina perfezione che l’uomo non è degno di raggiungere (Elena), per volgersi invece a quanto vi è, nella realtà terrena, di eterno: il suo donarsi alle generazioni future attraverso la rinascita dell’uomo, portatore dell’idea di vita "fino all’estinguersi dell’istinto". Sia che inorridisca di fronte alla bruttezza, sia che arda di passione per la bella tra le belle, in nessuno dei due estremi l’anima di Faust perde la propria umanità. Egli è una creatura umana, non un eroe, non sta né sui trampoli (Wagner) né in ginocchio (Dostojevskij): "un essere debole eppure un forte lottatore", l’incarnazione dell’idealismo realistico di Busoni, che ancor oggi non ha perso di attualità.
Il genio universale, al contrario di chi ha solo del talento, può giungere a realizzazioni altissime in diversi campi, e tanto più un genio moderno, Vissuto nell’éra in cui si è scoperta la divina sorgente unitaria di tutte le arti. Così Busoni sapeva derivare la poesia dalle stesse radici creative della musica. Il suo testo poetico, restituendo il linguaggio a una sua monumentalità originaria e grazie alla lucidità dialettica che lo distingue, è di una pregnanza proverbiale e risulta accessibile quasi a chiunque.
L’azione si riduce ai fatti principali, rinunciando alla "logica naturalistica della progressione"; non è analitica ma sintetica, non psicanalitica ma "psicoplastica", non scava nell’anima dell’eroe dimostrandoci la progressione psicologica dei suoi accadimenti interiori, ma ci documenta il suo stato
d’animo attraverso il suo stesso sfogo espressivo.
Uno sfogo sentimentale o un atto privo di componenti preparatorie ci privano, sulla scena, di tutti gl’intimi processi dell’anima. Ciò che vediamo è un complesso finito, che si affianca ad altri complessi altrettanto finiti e ridotti all’essenziale. Questo principio, e la sua attitudine a intrecciare complessi dinamici e strutturali quale risultato ultimo di conflitti precedenti, oltre alla semplicità e primitività sorprendenti dello stile, che è in netto contrasto con tante opere moderne e viene ottenuto mediante una straordinaria facoltà disciplinatrice e organizzatrice, vengono erroneamente definiti
mera costruzione o speculazione da coloro che assistono a un dramma in maniera del tutto passiva. Miopia artistica e spirituale, l’abitudine di accettar solo ciò che è terrestremente umano, ciò che si manifesta per l’immediato tramite emotivo impediscono di scorgere, dietro quella monumentale concentrazione di fatti e di parole, non soltanto un sentimento, ma quei molteplici e complessi stati d’animo che finalmente confluiscono in uno per assurgere a una trasfigurazione simbolica di carattere universale.
Una concezione, una sintesi cosiffatta ha un'importanza determinante nella storia della musica: è il rifiuto dell’abbandono lirico, del fugace stato d’animo, del "capriccio estetico" a favore di un compimento, di una perfezione formale realizzata fuori delle vie consuete; è il neoclassicismo, vale a
dire l’inserimento di contenuti romantici e persino mistici nel classicistico realismo formale di un’opera d’arte in sé conchiusa, la cui architettura è tutta uno slancio verso il trascendente.
Sul Dottor Faust aleggia una filosofia dell’arte e della vita, e vi sfolgora la Vittoria su Mefistofele: un mondo che, grazie all’ottimistica vitalità del suo istinto primordiale, non è incasellato nelle ristrette categorie moralistiche di "Dio e diavolo", ma è dominato dalle leggi di una forza unitaria. Questa scoperta dell’unità essenziale Busoni l’aveva fatta nell’ultimo periodo della sua vita. Alla scoperta dell’unità della musica seguì quella dell’unità del romanzo, unità che poi, per coerenza interna, dal campo dell’arte passò alla sua visione generale del mondo, divenendo il fulcro della sua filosofia. Quest'attitudine a ridurre all’unità singole esperienze e conoscenze e interi campi dell’attività umana - un'attitudine che caratterizza lo spirito di Busoni e la sua intera personalità - affonda le sue radici nell’intuizione e nella conoscenza della totalità, intuizione e conoscenza così rare ai nostri giorni, e che in Ferruccio Busoni avevano un carattere ora di saggezza ora di semplicità infantile.
Wladimir Vogel (Traduzione: I. A. Chiusano)- "L'Approdo Musicale", n.22, 1966, ERI
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