Pierre Boulez (nel 2002) |
Il mio obiettivo è l’analisi di un problema che mi tocca molto da vicino, e che riguarda il fondamento stesso dell'opera, la sua giustificazione in quanto tale. L’opera, cosi come noi la conosciamo, è un tutto unico, o non è piuttosto il frammento limitato nel tempo di un progetto piu vasto, irrealizzato, senza il quale tuttavia questo frammento non avrebbe potuto esistere e dare l’impressione del tutto? C’è la possibilità, ci sono i mezzi, anzi, per parlare del compositore, dell’autore di un’unica opera? Soprattutto nel XIX secolo, non mancano gli esempi di creatori ambiziosi che si sono concentrati su un solo obiettivo, per quanto vasto. Esempi come Balzac, Zola, Proust, dove un atto di volontà più o meno spontaneo, più o meno plasmato ha spinto gli autori a creare delle strutture immense, che appartengono al mondo dei giganti, o piu ristrette e circoscritte a un settore più ridotto. Tuttavia gli elementi costitutivi della struttura possono essere separati gli uni dagli altri e possono essere uniti in sottoinsiemi diversi senza danneggiare la loro coerenza. Allora, tutto unico, o catena di frammenti separabili? E anche un singolo libro, è un libro o un album? Album: raccolta di fogli indipendenti (consideriamo ad esempio il titolo tedesco Albumblätter adoperato da Schumann ma anche da molti altri seguaci meno illustri), riuniti per affinità o in contrasto gli uni con gli altri, ma che non sono legati da alcun vincolo. Il che spinge Mallarmé a ideare un accostamento di Libro e Album: un Libro, con la L maiuscola, dove i fogli dell’album possono mutare di posizione e di significato, pur restando legati da un ordine superiore. L’utopia di Mallarmé non fu mai realizzata, ma ce ne resta il sublime “frammento” del “Coup de dés”, seppure ben lontano dall'obiettivo iniziale.
Nel Campo della musica, un esempio inevitabile - probabilmente l’unico di questa ampiezza - è il Ring di Wagner, progetto perseguito con accanimento per anni, che testimonia una unità di concezione messa in opera con tenacia. La storia della sua genesi mostra d'altronde una specie di percorso al contrario rispetto a quello che ci offre la realizzazione definitiva: la morte di Siegfried ha generato tutto il resto dell'opera, e la musica segue il percorso cronologico, andando quindi contro corrente: sulla trama più “operistica” in senso convenzionale, la musica più elaborata; sulla concezione drammatica più innovativa, una musica che, potremmo dire, si va sperimentando poco a poco. Ma anche in questo caso, e lo dimostra l’esperienza, i vari frammenti sono divisibili dalla struttura d’insieme: Die Walküre viene eseguita ben più spesso delle altre giornate, in maniera totalmente autonoma, nonostante si sappia che c’è un seguito. Tanto bene Wagner lo sapeva che, con un pretesto o con un altro, in ogni giornata riprende la genesi della storia. C'è quindi una certa contraddizione fra queste entità che tendono all’autonomia e la sintesi del tutto. Ed è per questo che perfino in questo caso si può parlare di divergenza fra il tutto e il frammento.
Certo, nel caso del Ring si tratta di opera, di teatro, e non di forme pure; perché questa dialettica del tutto e del frammento si ritrova anche all’interno di opere “a pezzi chiusi”, fatte di una successione di arie, di recitativi e di brani d’insieme: tanto che era possibile - e Mozart non ha rinunciato a questa opportunità - sostituire un’aria con un’altra, secondo i desideri del cantante, senza che la catena dei frammenti subisse un danno irreparabile. Il legame teatrale dovrebbe essere robusto a sufficienza per assicurare la continuità e la coerenza del tutto.
E nel campo della musica pura cosa possiamo osservare? Nel periodo classico la dialettica del tutto e del frammento è presente nelle forme impiegate più comunemente (ovvero quasi esclusivamente): sonata, concerto; l’opera è organizzata in frammenti autonomi connessi da una struttura generale, la quale è fondata su contrasti spesso codificati da norme precise. Nel precedente periodo barocco, il legame è forse meno rigido ma serve esattamente allo stesso scopo: dare l'apparenza del “tutto” a un insieme di frammenti, a volte disparati e perfino intercambiabili. Sostituire una giga a un’altra in una suite di Bach avrebbe forse l'effetto di sconvolgere le nostre abitudini d’ascolto, ma se le regole tonali fossero osservate l'operazione non provocherebbe alcuna incoerenza profonda, né stilistica né formale. E del resto è stata proprio questa l'operazione di Mahler quando ha scelto dei brani da due suites di Bach e li ha “riordinati” in una suite realizzata a sua cura, e da lui stesso eseguita - a New York oltre che in altra sede. Per noi, viziati dalla mania storicista della nostra epoca, il procedimento risulterebbe non poco scandaloso; eppure lo stesso Bach non trovava affatto disdicevole inglobare in una nuova composizione brani scritti precedentemente, come testimoniano a più riprese i Concerti Brandeburghesi e le Cantate. E quando esaminiamo con incredulo stupore quei programmi del XIX secolo che prevedono l’esecuzione di un movimento di concerto isolato, o di movimenti di sinfonia intervallati da qualche aria da concerto, possiamo riflettere che questa pratica, che oggi ci appare assurda e menomante, mette in luce i termini reali del problema: la successione propria del tutto può essere interrotta per isolare il frammento in quanto tale, come componente autonoma. Oggi abbiamo un rispetto spesso eccessivo per l’integrità e l'integralità della struttura d’insieme. Siamo convinti di dover inghiottire uno dopo l’altro tutti i pezzi dell’Oratorio di Natale, e respingiamo con orrore l’idea di eseguire solo una parte della Messa in si minore. Potrei citare numerosi altri esempi aneddotici e più futili, come il fatto che applaudire fra i movimenti è considerato una dimostrazione di inciviltà, un delitto di lesa maestà nei confronti dell’opera: ma gli applausi possono davvero distruggere ciò che lega i frammenti/movimenti della sinfonia al tutto? E proibire l’applauso non è invece la più superficiale delle manifestazioni di una presunta comprensione? A parte il caso specifico in cui l’autore ha scritto una transizione o ha specificato che due movimenti devono susseguirsi senza soluzione di continuità, cosa impedisce una pausa - sia pure non silenziosa?
E' impossibile eseguire una fuga separata dal suo preludio? E' indispensabile eseguire sempre l'integrale di una raccolta, ovvero rispettare fino in fondo l’ordine e la totalità della pubblicazione scritta, come si fa quasi sempre ad esempio con gli Intermezzi di Brahms? Indubbiamente, siamo diventati molto rispettosi della lettera; ma lo siamo altrettanto dello spirito?
Tuttavia esiste una differenza marcata e voluta fra i movimenti (Sätze) di una sonata, di una sinfonia o di un concerto, e i “pezzi” (Sätze) di un album, quale che sia il titolo loro dato: Nocturnes, Ballades, Estampes, Miroirs, Images, Pièces de Caractère (Charakterstücke). La sinfonia, il concerto o la sonata implicano un ordine definito, un contrasto preciso, e in certi casi uno schema ritmico, o un metro, e quasi una lunghezza. Minuetto o Scherzo implicano un ritmo ternario, la ripetizione di alcune sezioni e altre norme che limitano d'altronde anche la durata del movimento, proprio perché le norme non possono essere protratte oltre misura. E' vero che queste forme si emancipano più tardi fino ai limiti del possibile, con Mahler per esempio. Tuttavia all’inizio, e sempre nelle forme classiche, si succedono forma-sonata, forma-Lied, forma-minuetto/Scherzo, forma-rondò. Si tratta di una semplificazione, perché soprattutto nelle sonate le forme possono essere molto più libere: dai due
movimenti dell’op. 111 ai sette del Quartetto op. 131 (entrambe composizioni tarde, bisogna rilevare), Beethoven non ha rinunciato a variare i confini codificati. Ma a proposito di quest'ultimo Quartetto in do diesis minore, è ancora possibile parlare di movimenti? Si tratta piuttosto di un contrasto fra frammenti e movimenti veri e propri. Se alcuni di questi movimenti, fra cui la Fuga, il Finale, le Variazioni e lo Scherzo, sono molto sviluppati, un altro (il terzo) può essere considerato solo come una breve transizione; e anche l’Adagio (il sesto) ha un’esposizione ma non un vero sviluppo. Possiamo constatare la determinata intenzione dell’autore di connettere irreversibilmente i vari movimenti e frammenti in un ordine dato, di cui ha cura di indicate gli attacchi. In questo caso non possiamo parlare di frammenti intercambiabili: l’opera non è una successione codificata di movimenti tipizzati, ma un tutto indissolubile dall'inizio alla fine.
E' curioso che la fusione realizzata da Beethoven, una fusione che rifiuta ogni convenzione d’ordine, ogni incastro di pezzi staccati, troverà la sua reale applicazione solo per un cammino laterale, in un’applicazione teatrale di Wagner. Perché il romanticismo, in reazione al classicismo, privilegia l’album, ovvero la raccolta di pezzi staccati che non hanno più nulla a che vedere con un codice di successione predefinito. Oppure, se applicano questo codice, i romantici lo fanno o come un’eredità sacra e inviolabile, o in maniera un po' goffa e pesante. Questo non vuol dire che le idee musicali non siano belle, spesso molto belle, ma a volte non si trovano a loro agio in una forma che non e veramente adatta a loro. Si parla spesso degli himmlische Lüge di Schubert, degli sviluppi maldestri e ridondanti di Schumann, e la sola eccezione che abbia una tendenza al “tutto” è la Sonata di Liszt, che inventa una forma in un solo movimento continuo, totalmente liberato dagli schemi classici, anche se a volte ne adotta certi tratti. Ciò che caratterizza il romanticismo non è affatto aver inventato il frammento, ma avergli dato tutta la sua ragion d’essere. E' l’epoca delle raccolte, degli album, dei pezzi isolati che mettono in risalto l’istante, il momento: si vedano i Momenti musicali di Schubert. La forma spesso è semplice, simmetrica. Si tratta di un frammento chiuso in se stesso, certo, ma aperto assieme al tutto e al nulla; non chiede di essere preceduto o seguito da altro, esiste da solo, non ha bisogno di corrispondenze formali per assumere tutta la sua rilevanza. Esiste come un aforisma più o meno lungo, indipendente, che tuttavia è possibile connettere, eventualmente, ad altri aforismi della stessa natura. Questi pezzi isolati saranno sempre più coltivati dai compositori successivi, quali che siano le loro caratteristiche stilistiche. Tutti rendono loro omaggio, soprattutto nelle composizioni per pianoforte - strumento per eccellenza della rêverie per il viandante solitario - ma anche per gli insiemi di musica da camera, compreso il quartetto d’archi, quasi santificato dalla tradizione. Perché se abbandoniamo l’epoca romantica, anche le sonate si fanno più rare, a tal punto che in Debussy e Ravel le ritroviamo solo nella maturità, e sono invece assenti dalle opere giovanili. Dove invece troviamo degli album: Images, Estampes per il primo, Miroirs, Gaspard de la nuit per il secondo; oppure delle suites: Suite bergamasque, Tombeau de Couperin.
Ci siamo considerevolmente allontanati dall’illusione stessa del “Tutto”. Abbiamo a che fare con raccolte di frammenti concepiti in quanto tali e perfettamente isolati. E anche in questo caso, il rispetto del testo scritto ci porta a eseguire sempre Estampes, Images o Miroirs nell’ordine di stampa; ma nulla vieterebbe un ordine diverso purché si mantenesse un certo contrasto di carattere fra i pezzi.
Alle soglie del nostro secolo, si arriva all’estremo di questa frammentazione, e le piéces divengono quasi delle annotazioni fuggitive ritrovate in un diario. Che si tratti di Stravinsky o di Webern, il pezzo breve si riduce all’annotazione di un istante, in totale opposizione al concerto stesso di sviluppo. L’idea è espressa per intero nella sua totale concentrazione; in questo senso si tratta di un frammento temporale brevissimo e interamente ripiegato su se stesso. Nella produzione di Webern ciò è particolarmente evidente; si può obiettare che tutte le composizioni sono brevi, ma che possiedono per lo più la nozione di sviluppo, per quanto condensato. Invece le composizioni di cui voglio parlare, in particolare i pezzi per violoncello e pianoforte, i Cinque Pezzi op. 10 per complesso
da camera, le Sei Bagatelle per quartetto d’archi, rifiutano totalmente questa nozione di sviluppo. L’idea è esposta, il frammento è rischiarato da un’unica luce, il momento dell’ascolto è concluso. Questa ossessione della non-ripetizione, del frammento assolutamente unico e unico nell’assoluto, lo stesso Webern la descrive come l’estrema condensazione di un pensiero di cui si sentiva prigioniero, e da cui gli era indispensabile uscire se voleva continuare a comporre.
Anche in Stravinsky e Berg si trova questa cultura del frammento, se cosi posso definirla, ma come un modello ridotto di una proiezione ampliata in altre composizioni. Tutte le miniature russe degli anni 1914-17, che siano Pribaoutki, La berceuse du Chat, La Souscoupes, sono minuscoli satelliti dell’opera in formato maggiore che sarà Les noces. E per contrasto rispetto a questa catena discontinua di frammenti così composta, Les noces sarà tesa verso la sintesi continua dei frammenti, strettamente connessi fra loro dalla nozione di un tempo-fulcro, assolutamente invariato attraverso le varie velocità che assume. Ci sono tuttavia in Stravinsky dei frammenti che restano tali, Senza connessione a nessun tipo di ordine; intendo parlare della Lyrique japonaise del Roi des Etoiles, due frammenti molto brevi, il secondo particolarmente enigmatico nella produzione dell’autore. Non si tratta di satelliti, bensì piuttosto di oggetti smarriti in un universo che li dimenticherà completamente. Per quanto riguarda Berg, a parte i Lieder, possiamo considerare le composizioni per clarinetto e pianoforte come degli abbozzi per l’impresa teatrale del Wozzeck, che ben presto assorbirà l’intera attenzione dell’autore. Vi possiamo vedere, d’altronde, un’antinomia fra la forma ristretta e il gesto teatrale assai più ampio; potremmo quasi dire che si tratta di frammenti di composizioni che per il resto sono andate smarrite, o sono state cancellate dall’autore. La dialettica fra tutto e frammento d’altronde si manifesterà pienamente nella creazione del Wozzeck, concatenazione di forme chiuse, legate le une alle altre da una rete estremamente complessa di motivi e segni.
E che dire allora di Schönberg? Lui che aveva iniziato con forme sviluppate continue, nella tradizione di un certo romanticismo tardivo, soprattutto in Verklärte Nacht, in Pelleas und Melisande, ben presto lo troviamo a comporre l’opera che agli occhi del pubblico sarà la più espressiva della sua personalità, e quest’opera sarà una successione di 21 pezzi molto brevi, ventuno frammenti per così dire, connessi, certo, in tre gruppi di sette, ma pur sempre frammenti del tutto indipendenti gli uni dagli altri, nell’organico come nel tematismo. Del testo in larga parte fu proprio la brevità di questi frammenti successivi a provocare le resistenze del pubblico; le recensioni dell’epoca mettono l’accento sul rinnovamento costante dei vari momenti, che impedisce la continuità dell’ascolto, impedisce dunque di assorbire l’opera come un tutto coerente. E tuttavia le composizioni vocali, frammentate e perfino composte di frammenti brevi, non sono rare prima del Pierrot lunaire. Penso in particolare ai cicli - intenzionalmente tali o meno - di Lieder composti o raccolti da Schubert, Schumann e Brahms in particolare. Dichterliebe e Frauenliebe und-Lebe sono veri e propri cicli di brani a volte molto brevi. Sono pero cicli “narrativi”, definizione che non si può veramente applicare alla Winterreise o a Die schöne Müllerin; quest’ultimo ciclo può essere considerato “narrazione” in quanto raduna i frammenti in un tutto ordinato che segue una precisa progressione agogica. Nel Pierrot lunaire non v'è nulla di tutto questo; non c'è alcuna narrazione; ogni frammento gode di un’innegabile autonomia poetica, anche se ogni poesia è collegata allo stesso personaggio, alla stessa atmosfera. E' vero che i piccoli cicli in cui le liriche sono raggruppate hanno ciascuno una tendenza più poetica, più tragica o più nostalgica: ma non vi è alcuna chiave di continuità. Possiamo connettere questi frammenti gli uni agli altri grazie, in parte, all’autore; il quale con minuziosa cura ci indica “come” concatenarli: se c'è una transizione diretta; se bisogna osservare un intervallo più o meno lungo fra i brani. Una cesura più ampia si impone per separare un ciclo dall’altro, in modo da poterli riconoscere come tali. Così per mezzo di una precisa concatenazione i molteplici frammenti si organizzano in un tutto coerente, ma in assenza totale di un codice predeterminato. L’opera possiede il suo proprio codice d’integrazione, e bisogna viverlo per apprenderlo, e viverlo diverse volte per conoscerlo bene e non essere più disorientati.
Il Pierrot lunaire consiste in una serie di pezzi brevi, a volte brevissimi; il mio Marteau sans maitre riprende con piena intenzione questo principio, anche se i brani sono relativamente più lunghi; mai tre cicli che essi formano non sono più separati, anzi si sovrappongono l’uno all’altro proprio per evitare una separazione, per evitare il raggruppamento dei frammenti assimilabili. Tanto che all’ascolto, con l’aiuto della memoria, si possono ricostruire i cicli basati sugli stessi principi a partire dallo stesso testo poetico che li ha generati. Si giunge alla successione reale di cicli virtuali poiché spezzati nella loro continuità, e di conseguenza si giunge a una diversa dialettica del tutto in rapporto al frammento. (Traduzione di Alessandra Quattrocchi)
a cura di Arrigo Quattrocchi (EDT, 1996)
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