Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, maggio 19, 2018

Il modernismo di oggi

Jean Jacques Nattiez, nel suo Il discorso musicale. Per una semiologia della musica, esaminando le potenzialità future della rnusica, pensa di poter rispondere positivamente a tale domanda. Ci tiene comunque a chiarire che non bisogna confondere questa classicità con nessuna delle tendenze oggi più in voga, giacché - sostiene il musicologo canadese - "per ragioni differenti in ciascun caso, i principi sui quali sono fondati il teatro musicale, la musica ripetitiva, il neoromanticisrno e la prospettiva acusmatica, sono tali da non poter fornire ai rispettivi movimenti alcuna potenzialità di sviluppo". Si può pervenire - egli pensa - a una nuova classicità solo ripensando criticamente a ciò che è stata l'esperienza tonale, che ha dimostrato la possibilità di fondare le micro e le macrostrutture su un medesimo principio. Cosa questa che Schoenberg e Webern avevano ben cornpreso. Oggi, dopo l'ubriacatura strutturalistica, ci sono le condizioni per la creazione di "opere fondate su un’unica matrice generatrice nel dettaglio e nell’architettura generale, senza perciò estraniarsi dal pubblico". A titolo di esernpio, Nattiez cita Répons di Boulez che è senz'altro un’opera classica perché in essa i vari parametri (melodia, timbro, armonia...) sono fra loro in perfetto equilibrio: "sul piano della scrittura Répons riesce a generare con lo stesso respiro micro e macrostruttura: riscoperta della totalità".
Per capire perfettamente il senso di quest’affermazione bisogna chiarire che Nattiez muove dal modello semiologico disegnato da Jean Molino. Secondo tale teoria, nell°opera musicale è possibile distinguere tre momenti: quello 'poietico', attinente cioè al fare, in altre parole al complesso di strategie messe in atto da un autore al fine di creare un 'oggetto materiale' (la traccia sulla carta), che viene fruito (processo 'estetico') da un ascoltatore che può (o più spesso no) ritrovare le strategie poietiche messe in atto dal cornpositore.
L'analisi può porsi dall'ottica del compositore, da quella dell’ascoltatore ovvero riguardare neutramente l'opera. Analisi poietica, analisi estesica, analisi del livello neutro costituiscono una sorta di tripartizione semiologica, che cerca di dar conto della musica nella sua complessità di oggetto cornunicativo.
Giustamente Nattiez sottolinea che un tal modo di pensare l’analisi introduce nella dimensione estesica un processo attivo di costruzione, generalmente misconosciuto nell'ambito delle teorie classiche della cornunicazione, le quali sostengono che la comunicazione é un processo reso possibile dall'esistenza d’un codice comune ad emittente e destinatario. Per Molino, "gli interpretanti attribuiti dall'emittente all'opera che egli produce non sono necessariarnente gli stessi che il destinatario proietta sull’opera". Egli suppone la "discrepanza fra poietica ed estesica una delle situazioni normali dei processi semiologici".
Il suggerimento metodologico di Molino sembra molto stimolante sotto numerosi rispetti. Per chi scrive rimanda alla situazione attuale della composizione, che ha superato certe astrattezze e certo gratuito intellettualismo, proprio sulla base della considerazione che non tutte le strategie poietiche messe in atto dal compositore sono poi coglibili a livello di percezione, sicché si rende necessario integrare, come Xenakis e Ligeti fra i primi hanno dimostrato, l'analisi estesica nell'ambito del momento poietico, per ridurre l’alienazione insinuatasi nel processo creativo.
Come si sa, Iannis Xenakis, sin dagli anni '60, quando gli altri sbertucciavano simmetrie a Darmstadt, ha lavorato alla elaborazione di una poetica, che, riferendosi ai principi della stocastica, fosse in grado di sanare la grandissima contraddizione dei musicisti seriali, che, estendendo la tecnica appresa dall'avanguardia storica Viennese, secondo le indicazioni del Messiaen di Mode de valeurs et d'intensités (1950), avevano ridotto la musica ad automatismo, svilendo completamente il fatto uditivo. La "serialita integrale" coincide con una sorta di "progetto-equazione" all’interno del quale viene esclusa ogni scelta e la comunicazione si riduce a quella del "progetto-equazione". La necessità
di preservare sufficienti "gradi di libertà" alla scrittura porta Xenakis a considerare la dinamica di complessi fenomeni fisici, in cui si stabilisce un singolare rapporto tra una pluralità enorme di micro-eventi ed effetto globale a cui essi danno luogo. Per fare un esempio: i colpi della pioggia contro una superficie dura costituiscono migliaia di suoni isolati, ognuno differente dagli altri. Questa moltitudine di suoni, però, nel suo complesso, dà luogo a un effetto sonoro globale, avente determinate caratteristiche "qualitative" e destinato ad evolversi nel tempo secondo un modello plastico, che segue delle leggi aleatorie, stocastiche.
Ligeti, come ha ben chiarito Armando Gentilucci, già negli anni '60, pur orbitando dentro l'orizzonte della Nuova Musica, rifuggiva da alcuni suoi presupposti, quali ad esempio "la frammentazione puntillistica, a brevi ondate discontinue in miriadi di punti-suono, il materismo che accatastava i suoni organizzati con preminente interesse al'a-simmetrico negli svariati aspetti o (come si disse) parametri; la tendenziale vocazione centrifuga del cromatismo radicale; la volontaria perdita di ‘profondità’ acustica conseguente alla sottovalutazione (meglio, estraneità) della dimensione armonico-verticale; l’ostentata assenza di relazioni formali (non semplicemente 'schemi') con i prodotti della tradizione tonale e post-tonale; l'anestetizzazione del divenire ancorché non dialettico; l'abbandono al materiale, come era moda dire negli anni di fuoco, talora per giustificare il caotico, l'informe, il non finito; il casualismo aleatorio, l'indeterminazione linguistica e/o formale".
Oggi, poi, Ligeti, qualificando il modernismo e l'avanguardia sperimentale degli anni Cinquanta e Sessanta, come delle esperienze appartenenti "al passato, alla storia, all'accademia", si dice interessato a modalità di far musica che, rifiutate le procedure della vecchia avanguardia e senza tuttavia abbracciare il rétro dei numerosi movimenti ‘postmoderni’, sappiano riattualizzare l’idea di modernismo. Si dichiara, pertanto, favorevole ad "una polifonia fatta di una rete di voci ritmicamente e metricamente complesse e al tempo stesso di un'armonia trasparente e consonante che non intende tuttavia ristabilire la vecchia tonalità". Stimolato, poi, dalla cultura del computer e delle modalità di pensiero ad essa connesse, e affascinato da "un tipo di pensiero nel quale alcuni principi di base funzionano come i codici genetici producendo forme musicali 'vegetali'".
Con ciò Ligeti si pone in una prospettiva molto interessante perché è indubbio che, nel clima di generale riflusso a cui attualmente si assiste, egli è in grado di indicate una strada che, senza liquidare frettolosamente la musica sperimentale degli anni Cinquanta e Sessanta, sa ripensarne il senso e riscattarla dall’astratto negativismo a cui si era condannata. Messa in discussione l'idea di musica sperimentale nel senso di un comporre essenzialmente indeterminato, e rimosso il radicalismo della Nuova Musica, che si era assegnato il compito di ratificare l'impossibilità di qualsiasi linguaggio, oggi è necessario ripensare numerosi concetti e rifondare la prassi compositiva. Oggi abbiamo bisogno - e in ciò Ligeti ha pienamente ragione - di un nuovo modernismo.
Anche chi si era rivolto al serialismo illudendosi di poter trovare per questa via "il sistema coerente dal quale potrebbe nascere un nuovo universo musicale, globale e unificato" oggi comincia a ricredersi, perché, infatti, ha dovuto constatare che "ciò che la serie generalizzata guadagnava dalla radicale cancellazione delle ultime tracce di arcaismo, lo perdeva a livello di organizzazione globale".
Oggi si è meno disposti di ieri a compiere una operazione di "drammatizzazione radicale del brutto", ossia di rappresentazione del negativo, del caotico, dell’informe, evitando di pensare il disordine come "squilibrio regolato", "elemento di turbativa funzionale alla creazione di ordini più complessi", perché si è optato di rimanere "aderenti alla negatività pura quasi sino all’inesprimibilità, ai margini dell’urlo e del silenzio". Così pure oggi si è meno disposti di ieri a pensare che la sperimentazione in arte del livello di massima entropia possa essere un modo per "dar voce a ciò che è stato costretto a tacere e che viene spacciato come ‘brutto'", ovvero, come diceva Adorno, per mettere in crisi le ideologie dominanti che preferiscono un'arte pacificata che dà l’illusione che questo sia il migliore dei mondi possibili, sicché "il brutto, e non il bello, racchiude, di conseguenza, in sé il germe della conciliazione futura".
Di fatto oggi si assiste, anche se di ciò non è possibile capire perfettamente il senso per mancanza di un minimo di distanziamento prospettico, a una rinascita di interesse per tutte quelle esperienze che tendono a fondare qualche "nuovo asse di creazione musicale sulla priorità dell'estesica", che non vuol dire comunque svalutazione del momento poietico. Uno stile musicale "ha qualche possibilità di sviluppo in mancanza di solidi fondamenti poietici"?
Oggi, pur rifuggendo - mi pare - da un'arte che sia puro addomesticamento e ammansimento della negatività, si tende a ricercare delle nuove, elastiche forme di controllo del disordine. Si tratta certo di forme di controllo a maglie piuttosto larghe che cercano (utopisticamente?) di lasciare intatta la virulenza, posta sotto controllo, dell'informe e del negativo. Vi è una disponibilità a vivere, nell'arte, il "paradosso del sublime, che consiste nel fatto che si può essere esteticamente coinvolti in una situazione standone fuori, esposti alla minaccia, ma lontani dal pericolo".
Se nel passato l’arte espungeva da sé il brutto, l'informe, il disordine, deprivandolo di ogni dignità e sottraendogli ogni diritto di cittadinanza estetica, oggi le istanze alternative del1’indeterminato non possono, dopo le esperienze degli anni Cinquanta e Sessanta, non essere avvertite. Certo non si può attingere direttamente all'entropia se non interiorizzando l'entropia, alla negatività se non accettando la negazione del proprio essere, al silenzio se non tacendo. Ma per chi accetta la sfida ed avverte la (infondata) necessità di parlare; per chi si sente attratto dallo stato selvaggio dell'informe, ma non ha la “grazia” di poter rinunciare a un qualche ordine, non esiste la possibilità di sottrarsi a parlare, anche se bisogna studiarsi di rifiutare di fondare sull’assoluto di una ragione, di un logos, di un valore, di un ordine pre-saputo, il proprio dire, fare, agire. In questo senso, a parere di chi scrive, va riletto, rimeditato e ripensato a fondo l’ormai classico testo Storia della follia di Foucault, in cui, come ha dimostrato Deridda, è in atto il progetto di superare la 'decisione' di costituire la ragione a partire dalla definizione/negazione della follia, confinata in spazi extra-razionali, attraverso la 'decisione' paradossale (folle?) di scrivere una archeologia della follia dal punto di vista della follia (ma chiaramente al di fuori del silenzio della follia).
 
Salvatore Colazzo (tratto da "Il modernismo oggi", Nuova Rivista Musicale Italiana, 3, Luglio/settembre 1987)

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