Con l'apparizione, nel ventiquattresimo e conclusivo numero dell'Approdo Musicale, di un vastissimo saggio di Sergio Martinotti (un autentico libro che si mimetizza dietro l'apparenza del contributo di rivista, in carattere del resto con la tradizione monografica dei grossi fascicoli della ERI), la Bruckner-Renaissance italiana ha ricevuto un ulteriore attestato, probabilmente decisivo sotto il profilo dell'individuazione critica.
Non è un mistero per nessuno il fatto che nel nostro paese la musica bruckneriana è stata per lungo tempo ignorata o sottovalutata, e comunque è stata assente quasi del tutto dai programmi dei concerti; il compositore austriaco veniva relegato nel sottobosco dei minori, dei musicisti senza personalità, senza adeguata autonomia stilistica. Assai diversa, e da sempre, la situazione nei paesi tedeschi, scandinavi e nordici in genere, dove il musicista è ritenuto addirittura il «quarto B››, dopo Bach, Beethoven, Brahms.
Il punto sulla situazione venne fatto nel 1956, allorché fu fondata a Genova un'Associazione dedicata al compositore austriaco, con lo scopo di propagandare e diffondere con ogni mezzo anche da noi la sua opera e la sua figura. Nel '58 la singolare Associazione diretta da Edward D. R. Neill, che combatteva la sua battaglia con un ardore sorprendente e un tantino fanatico, curò un Anton Bruckner Simposium, cioè una raccolta di articoli e documenti critici intesi, come era scritto nella prefazione, a «saggiare... i nuovi moduli che la critica oggi propone: accertarne le aperture e le nuove vie, e così accogliere l'invito a nuove aperture, a nuovi sviluppi». Per la prima volta si tentava, soprattutto con i saggi di Alberto Basso (Introduzione alle Sinfonie di A.B.) e dell'allora giovanissimo Sergio Martinotti (Aspetti e caratteri del sinfonismo di A. B.), di impostare seriamente il problema critico di un'acquisizione della musica del compositore austriaco al di la delle fitte incrostazioni di luoghi comuni che ne vietavano la comprensione e ne occultavano gli aspetti più singolari.
Le ragioni del rifiuto che in Italia è stato posto per lungo tempo al mondo sonoro bruckneriano, solitamente sono messe sul conto della lunghezza dell'apparato procedurale articolato ad ampissimo raggio, dell'amore teutonico per la costruzione ramificata, dell'esistente sproporzione tra idea tematica e sviluppi, delle frequenti ripetizioni sia pure variate, dell'assenza di ogni «distinzione fra tema e sviluppo, la quale del sinfonismo classico-romantico è la conditio sine qua non›› (D'Amico). Su una linea critica radicalizzata molti studiosi si erano spinti sino a formulare giudizi sommari dettati da luoghi comuni quali la «misura latina›› insofferente di lungaggini, giudizi del tutto incapaci, anche quando non erano avari di osservazioni marginali assai pertinenti, di comprendere le ragioni del parziale divorzio fra forma e contenuto, della sempre più problematica possibilità di raggiungere un'assoluta organicità strutturale, di una mancanza di rispondenza tra le idee tematiche che in Beethoven erano invece luminose e riassuntive, e le travagliate conseguenze discorsive; col risultato di estendere anche a un musicista «attuale» come Gustav Mahler la cortina d'indifferenza e il velo d'incomprensione, e senza accorgersi del fatto che 1'incapacità di «vedere» i limiti del buonsenso formalistico la disperata aspirazione verso un assoluto assunto nelle arbitrarie connotazioni delle più soggettivistiche ricerche introspettive, altro non sono che testimonianze inquietanti dell'uomo immerso nella dimensione storica del suo tempo, paralizzato dall'impotenza (presunta o reale, questo dipende dalla prospettiva ideologica) di ogni affermazione, travagliato da quei problemi e da quelle contraddizioni che porteranno nel giro di pochi anni a terribili conflitti. Se il formalismo critico si mostrava incapace di far presa sull'arte mahleriana, (dove la mancata fusione, l'assenza di classica "misura", la presunta indisponibilità a sceverare ciò che è essenziale da ciò che non lo è, rappresentano in realtà altrettante colonnine di mercurio che registrano la febbre e diagnosticano la "malattia"), nel caso Bruckner s'ha da parlare di motivi meno complessi per quanto concerne l'opposizione alla sua musica. Si sa che l'austriaco era compositore senza problemi, fuori anche dal gran filone della Decadenza, ancorato ad un goticismo strumentale, ad una concezione organistica dei rapporti tra famiglie timbriche, decisamente inattuale e addirittura «a-temporale», legato all'oscura prassi tradizionale della fabbriceria germanica. Senonché questa condizione di scarso legame eteronomico, sfuggente alla presa ghermente e impietosa di una cultura avviata alle più dure consapevolezze, ad una fase di totale autocritica, avrebbe potuto anche rappresentare una condizione di privilegio in pieno clima idealistico italiano, se non fossero intervenuti nel giudizio complessivo motivi più sfuggenti e in certa misura "provinciali", come un nazionalismo nemico non solo dell'avanguardia, ma anche di una tradizione che affondasse le radici sul terreno linguistico del cromatismo, troppo saturo di storicità.
La situazione è recentemente mutata, ma è stato osservato, non senza fondamento, che si è venuta determinando, nella più aperta e serena valutazione del post-romanticismo, una sorta di bipolarità fondata sull'opposizione Mahler-Bruckner, come individuazione della tendenza progressiva imperniata sull'evidenziazione delle ombre esistenziali e, all'opposto, di quella conservatrice e riformista. In seguito a questi "distinguo", Mahler gode oggi della simpatia dei musicisti d'avanguardia, per la sensibilità timbrica già incline a soluzioni che saranno proprie dell'espressionismo, mentre Bruckner è preferito dai «moderati» e dai conservatori. Intendiamoci, questa regola, al solito, non esclude le proverbiali eccezioni, e se ne potrebbero citare di illustri: ma è un fatto che, accanto a Gavazzeni, uno dei più assidui, favorevoli e anche efficaci commentatori bruckneriani, è stato il Confalonieri, notoriamente attestato su posizioni di manifesta avversione per le nuove correnti. Segno che la strada del musicista austriaco, percorsa in assoluta indipendenza, offre motivi sufficienti di tranquillità, essendo gli elementi più nuovi del linguaggio ricondotti sempre entro i rassicuranti argini della tonalità e soprattutto collocati, malgrado l'intenso cromatismo in una dimensione lineare. Non a caso, Paul Hindemith è stato un ammiratore sincero di Bruckner, e nell'ultima fase creativa ne ha quasi ricalcato le orme: anch'egli, dopo gli anni giovanili, durante i quali aveva accentuato drammaticamente il segno compositivo nel senso di una inesorabile meccanica motoria, di una durezza fonica in funzione di sarcastica polemica anti-borghese, era approdato, attorno agli anni '35-45, ad una rinnovata serenità interiore. Il Mathis der Maler rende esplicito, anche semplicemente nella scelta del soggetto, il mutato clima spirituale: la storia del pittore Mathias Grünewald, che dalla convinzione dell'inutilità della semplice contemplazione estetica in un momento nel quale gli uomini combattono per la causa popolare (l'opera è ambientata in Germania ai tempi di Lutero e tratta della guerra dei contadini), e dalla partecipazione attiva alla lotta, deluso poi dalle dure leggi della lotta concreta e dagli inevitabili errori che oscurano l'attuazione delle idee allo stato puro, torna utopisticamente alla pittura come al solo mondo in cui sia possibile realizzare una sostanziale e incontaminata moralità, altro non è, in fondo, che la storia di Hindemith stesso: cioè di un musicista che ha incrociato le poetiche dell'avanguardia senza saperle o volerle seguire fino in fondo, senza mettere in discussione la musica nella sua presunta struttura "naturale": tutte le volte che una crisi sociale ha preteso di estendere la sua capacità corrosiva all'arte, il compositore ha reagito difendendo appunto quelli che per lui erano valori eterni.
Bruckner, spirito ligio alle istituzioni e alle tradizioni, in un certo senso haydniano, è dunque il tipico esponente della tradizione artigianale germanica: l'assenza di problemi, l'aderenza tutt'altro che critica al circostante mondo del provincialismo austriaco, non sottintende affatto l'attardamento su posizioni tecniche superate: già nel '47 Gavezzeni lo aveva rilevato, precisando che "il rapporto fra l'intervallo che rientra in 'media consueta (...) e l'intervallo nuovo, uscito di getto da un'esigenza individuale» deve essere oggetto di precisa valutazione, dato che su questo rapporto s'instaura e cresce il melos di Bruckner ". In un certo senso analogo discorso si può fare, pur tenendo conto delle dovute differenze di cultura e anche di personalità, per Hindemith, come già s'è visto: musicista certamente più colto, informato e teoricamente consapevole, anch'egli opera muovendo da un dato immediato e indiscutibile, avvertito addirittura come un'organizzazione dei suoni secondo "natura"; la tonalità più o meno riformata. Ma a partire da essa, e anzi rimanendo all'interno di essa, Hindemith modifica parzialmente il sistema elaborando un gioco di piani armonici e tonali quasi inconfondibile, per un certo periodo addirittura "avanzato".
Studiare il terreno culturale sul quale Bruckner crebbe e pianto le radici è il primo passo che deve compiere chiunque voglia stabilire la prospettiva critica della sua opera, come s'è visto legata alla cultura germanica ma anche a quella editio minor che è la provincia austriaca. Come annotava giustamente Mila recensendo lo studio del Martinotti sull'Espresso, "se può sembrare relativamente facile stabilire radici e contatti nel campo del sinfonismo, mostrando i rapporti di Bruckner con la tradizione viennese da Haydn a Schubert, sia con le sirene romantiche della «giovane scuola tedesca» e del descrittivismo poematico di Berlioz, per contro la ricognizione del terreno su cui la musica sacra di Bruckner nasce, obbliga il nostro studioso ad una difficile perlustrazione di quel settore ingrato e arido che è il conservatorismo della provincia musicale austriaca, afflitto dalla paralizzante influenza dei luoghi comuni connessi con le convenzioni della musica sacra".
I tempi erano abbastanza maturi perché un'investigazione completa venisse condotta finalmente da un musicologo non solo preparatissimo, ma anche giovane come Martinotti (da tempo riconosciuto «vicario›› bruckneriano in Italia), libero dall'impaccio di pregiudizi fossilizzati e soprattutto non sospettabile di apologetica post-romantica in funzione di ideale baluardo contro le presunte «aberrazioni» delle esperienze contemporanee. Lo studio apparso sull'Approdo è di gran lunga il più esteso e valido pubblicato in Italia sull'argomento. Alla vastissima documentazione storica, che si pone come dato oggettivo, si deve aggiungere lo stile dello scrittore, ramificato e sensibile, saturo di passione letteraria ma sempre applicato in maniera pertinente all'oggetto critico, di apparenza quasi torrentizia, mirante alla conquista complessiva della sigla terminale bruckneriana non attraverso la ferrea deduzione logica del pensiero, bensì mediante il ricorso a piani discorsivi multipli, mediante la somma delle immagini evocative. Per questo la prosa di Martinotti, così aderente all'assunto, lascia ancora aperta la discussione sul rapporto autentico, dialettico, tra la musica di Bruckner e la problematica dei compositori d'oggi, tra due mondi così lontani da apparire irrelati. La linea tenuta dal critico piemontese è quella intesa a recuperare la realtà studiata nella sua zona specifica e quasi "neutra" rispetto all'inevitabile dislivello storico. Appunto per questo la parte più viva è quella di ricostruzione d'ambiente oppure quella che mette in luce le sottili relazioni tra suggestioni native e autonomi fermenti. Si legga l'esemplare confutazione della dimensione unicamente religiosa della musica di Bruckner.
«Ora quella sua apparente inconsapevolezza storica, quella fede più o meno cosciente di accogliere e di tradurre una vocazione estetica magari anacronistica (o atemporale) ci avvia a comprendere il suo anelito, non tanto verso la trascendenza quanto verso l'Assoluto romanticamente inteso. Così il Dio bruckneriano, da privato e particolare, cresce ad orientamento finalistico, dietro ad un impulso, etico prima che mistico, di trascendere la condizione umana verso un esito metafisico. Il giudizio critico più trito ed immediato sembrerà così arrestarsi alla constatazione solo di particolari momenti, alla presenza umana ed artisticamente rapsodica di Bruckner, al rilievo quasi diaristico di una disposizione articolata (drammatica o giubilante), ma sempre religiosa. La religiosità di Bruckner, invece, più che riassunto totale dell'esistenza, pare un momento, accanto ad altri virtualmente possibili››. E ancora l'efficacissima messa a punto del significato dell'arcaismo, immesso nel contesto della timbrica «spazialistica» e del linguaggio cromatico: «Tutti echi di un mondo remoto e decaduto, dunque: e già accennammo come Bruckner, nel suo acquisto paziente (che gli veniva dal ritmo stesso della sua lenta e lunga formazione), nel suo riscatto così minuzioso, esprimeva l'insicurezza della società circostante, l'evasione verso un mondo feudale, verso quella Età dell'Oro che non casualmente dava il titolo ad un quadro di Hans von Marées dipinto mentre Bruckner scriveva la sua Settima Sinfonia››. Francamente un po' forzata e probabilmente dovuta alla preoccupazione polemica di «recuperare» fino in fondo il compositore dilatando alcuni aspetti «moderni» della sua scrittura musicale per farne vettori proiettati verso il futuro, è invece la sottolineatura del «presentimento di una condizione espressionista››: laddove la prosa del Martinotti, dotata della rara capacità di evocare certe immagini, sembra però respingere costituzionalmente un rigoroso inquadramento che stabilisca una prospettiva ideologica in base alla quale sia possibile dare senso più ampio agli eventuali turbamenti esistenziali del candido Bruckner.
Armando Gentilucci
("Rassegna Musicale Curci", anno XX n. 4 dicembre 1967)
1 commento:
interessantissimo, grazie molto
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