Converrà subito attendere alla cronistoria, decidendoci a commentare una recente opera di Strawinsky, la piccola cantata biblica The Flood: per avvertire come ogni sua nuova composizione quasi necessariamente si consegni a perplessità insofferente, a pronta riserva. Ascoltata l'anno scorso la prima esecuzione italiana e non certo disattento all'immediata reazione pubblicistica conseguente (non per deliberata prudenza, quanto per seguire coscientemente la fortuna critica dell'ultimo Strawinsky), mi accorsi che la vicenda polemica ed attiva sopravveniva e si replicava puntualmente: con punte anche vivaci e risentite, come per una nuova minacciata sconsacrazione agiografica conseguita alla delusione, al dubbio. Finiranno dunque di essere solo prove di coraggio, incontri spesso disagevoli c convenzioni culturali molte «prime» musicali, se il giornalista improvvisa, il pubblicista periodico descrive e solo la critica, più tardi, ripropone e vaglia, fuor d'ogni circostanza ed occasione provvisoria? La cronaca è miope, si sa, quanto forse la storia è presbite: comunque, ad aiutar la definizione della nuova opera, occorreva subito dirimere luoghi comuni di estetiche da un lato superate (capaci di occultare ed allontanare la composizione al suo apparire, anziché di avvicinarla) e, dall'altro, concordi più nell'intenzione che nel risultato. In entrambi i casi, ci sembra, giocano un ruolo vario e differenziato anche gli scritti del musicista: come programma o come premessa, come norma o come intenzione, come fallimento (spesso atteso) di personalità straordinaria oppure come superamento deliberato di un soggettivismo predestinato e in fondo ingrato. In ogni caso, anche per chi scambi ancor troppo disinvoltamente polimorfismo con incoerenza c sincretismo con ibridismo, la figura del musicista non presenterà tratti inattesi. Intanto, è il dato emozionale, la aggressività a consentire la condizione inedita di molte sue opere, anche recenti: a ben vedere, infatti, la dissacrazione antipoetica, la disumanizzazione di forme e di generi musicali, quell'itinerario al primitivismo, alla fantasiosità araldica, riesce sempre misura di un istinto, prima ancora che di una estetica di gusto informatasi ad una ricognizione vastissima che tenga conto di quasi tutta la storia musicale. Solo da questa visuale, da questo movente, ci pare, si comprenderà la reversibilità del suo temperamento, l'evoluzione (o meglio lo svolgimento) dei suoi «stili»: dietro una spinta, omogenea seppur polarmente opposta, di impulsi complementari che, ad esempio, nella antiretorica può instaurare una nuova retorica, né gli riesce di rinunciare al temperamento anche nel neoclassicismo, deliberatamente antiromantico e antisentimentale. Ora, il nodo di tutta questa ambiguità eletta e raffinata, sta evidentemente nella proiezione attiva e soggettivamente sollecitata di una dimensione che Strawinsky aveva oggettivato da tempo nell'eidos teatrale: più precisamente fin dalla disponibilità trasvalutante della marionetta Petruska (Tutta un'epifania di soggettivazioni caleidoscopiche, allora, in questo novecentesco «Orfeo in pigiama» come lo definì il Barilli, rilevandone l'inganno risoluto e metodico contro la «noia»). Ove è inutile dire che se la decorazione lirica ed accorata del personaggio quasi lo sentimentalizza, l'eco esterna e l'asprezza espressiva suggeriscono prodigiosa ambiguità alla sua meccanicità lignea. Questo serbarsi, questo apparente sconfessare, che è proprio della finzione teatrica, unito alla problematicità del dire e del confidare (e tutto invece appendere a fila, a moti irrisolti), diviene insomma tipico di una gestualità strawinskiana: nel quale, come scrive il Mila «il limite tra l'umanità e l'artificio è sempre presente, ma accuratamente nascosto» (Breve Storia della Musica, pag. 374). Così, anche estratta dalla prima destinazione (e organizzata cioè in suites orchestrali, ad esempio), la musica di Strawinsky trattiene e custodisce infatti una virtualità mimica insopprimibile. Il gioco, a questo punto, può esser fatto, pronto ad applicarsi a forme e linguaggi differenti e ratificati: proprio nella liberazione progressiva e apparentemente disordinata «da ogni residua necessità significativa, diretta o indiretta che sia» (Vlad), verso un puro «gioco» o divertimento. Liberazione dunque da ogni residuo romantico ed impressionista, da ogni imitazione o descrizione, in nome di un'autonomia di linguaggio che solo trattenesse, nella provocazione gestuale (la potenza dinamica ed il polimorfismo ritmico furono i più leciti attributi alla primaria musa strawinskiana), una disponibilità emozionale. Fu la fase dei «ritorni» (più consapevole e completa delle animose assimilazioni giovanili), incalzante ed ossessivamente mutevole: per un gioco di adesioni e contemperamenti virtuosi che, se parevano folgorare tante manierate esperienze, pazientemente ricuperative, nella luce di un'intuizione estrosa e limpida (e che perciò gli valeva la taccia di cosmopolita), tuttavia gli lasciavano indenne e istinto e personalità. Era, ancora una volta, quell'emozionalismo naturale e primigenio a fargli scegliere una tradizione per subito assoggettarla e dominarla; e adeguarsi ad una espressione per subito licenziarla offesa: quasi per un'ancestrale strategia d'intelligenza o per acuta barbarie ingenerosa, giovane e spietata, nuda, confessa e perciò anche propagandisticamente denunciataria.
L'iter procede dunque per annessioni e per esaurimenti: dalla tradizione della sua terra a quella d'Europa; sempre con quel tono disincantato e nativo che ti rinnova l'immagine del mondo molteplice, con una luce secolare e mai mediata: di chi porta riposti e tutelati i propri Lari indigeni, sicuri voti e bagaglio spirituale di religioso e vergine misticismo. La ricreazione avviene allora per sequenza di contaminatio più o meno consapevole: in questo senso la parodia, il travestimento che appropria e serba, diviene come scrive ancora il Mila una «categoria fondamentale» dell'arte di Strawinsky. Di qui l'impensata connessione etnicamente dissimile, conturbante nella staticità consolidata della tradizione, divergente ed individualistica, nell'orgogliosa e confederata regione europea. La forza eversiva della sua conquista si manifestava, con una logica che diremmo autenticamente politica, nella radice autoctona, nell'istituzione basilare della civiltà europea: muovendo insomma, quasi per occultare il peso della sua ingerenza inflazionistica e della sua attualità iconoclasta, a quel ricupero di passati istituti e forme inteso consapevolmente; ossia, anche qui consentendo quell'ambiguità prodigiosa e fertile di linguaggio, quel gioco di dislivello storico tra modello e ricreazione.
Ora, l'atteggiamento antiromantico della rimozione di espressioni contingenti e consentanee, in ragione di un ricupero o quantomeno di una rivalutazione di arcaiche strutture (il che è perfettamente conseguente alla rivoluzione unicamente tecnica ed espressiva, scevra cioè di stimoli spirituali, della sua prima fase pagana e preistorica), vale revisionismo e demistificazione. Infatti, la rimozione di inferti mascheratorii, ossia di una cultura che si era costituita a variazione più o meno accademica, a tutela gelosa e vana di tradizione - e repressiva quindi di voci ed inflessioni non già più reprimibili senza ambage - era esigenza avvertita coralmente. Se la rivalutazione storica che si diceva, avviene su base filosofica presso lo Schoenberg-Kreis (e potrebbe magari rivelarsi demistificazione mistificante), in Strawinsky, altra presenza focale per Adorno, avviene su una direttiva essenzialmente teleologica. Ciò può anche spiegare l'assenza, in lui, di una qualsivoglia coerente e fida ideologia costruttiva (come notava giustamente lo Zaccaro in un acuto intervento su Marcatrè n. 2), in ragione di una disponibilità che ad iniziali adesioni subito giustappone una risultanza di gusto, sempre immediata ma mai immeditata. Insomma l'incontro tra individualità ed oggetto avviene sempre nell'ambito di una fresca libertà emozionale, sempre svincolata e virtuale: e la coerenza consegue quindi alla continua disponibilità.
Gusto, gioco: ove non è a dire che Strawinsky realizzi proprio il «massimo disimpegno esistenziale» (Vlad), quando invece questo impegno, come notava giustamente il Pestalozza (Il «puro gioco» strawinskiano, in Il Verri n. 7, 1963), non viene meno ma si occulta, si maschera, secondo un affrancamento continuo da concreti contesti storici. Ovvero, dietro «la sembianza di un disimpegno addirittura circonfuso di efficiente ottimismo», dietro la più perfetta autosufficienza, ci trovi la nervosa, fibrillare ed angosciata esaltazione di «un'umanità senza storia,... della realtà senza ragione». Il ricupero delle forme canoniche, l'uso delle forme storiche era la realtà occultata dei tre grandi viennesi, che Strawinsky era lesto a cogliere e denunziare: «ma l'uso che io ne ho fatto era franco, mentre il loro era abilmente travestito». Proprio di qui i diversi esiti: superamento come impiego irriconoscibile negli uni ed intrinseca aderenza, ricreazione operante nell'altro. Insomma quella franchezza operativa si traduceva nella facoltà, musicalmente legittima, di travestire storia e cultura, di misurarsele proprio addosso, celando ogni artificio ed ogni compromesso: ed anzi, combattendo 1'agnostico soggettivismo, alludere cautamente magari all'apologia artigianale come unica possibilità di riguadagnare il mondo. Solitudine, isolamento e protesta, monologo che sopprime il grido dell'incomunicabilità interiore, sono superati con questo gioco destro, pratico e partecipato di eleggere un mondo risolto e salvato nel passato. Esorcismo, ritualità che affonda le sue radici nell'istinto della religiosità russa, anche mistificazione artistica sono tutte proposte accertate: che comunque non intaccano la legittimità della sua opera (il ricupero di forme e materie sperimentate e canonizzate è pur sempre possibile) e soprattutto 1'intensità del suo intervento. Quanto al linguaggio, poi, l'itinerario a ritroso prima di Bach è noto che portò Strawinsky, con un altro sorprendente colpo di mano, a quel gioco di imitazioni a canone che costituì la «sintassi» del metodo dodecafonico (Mila): seguendo o meno la prassi del patto Gentiloni (cfr. D'Amico, I Casi della Musica: Strawinsky si accontenta) ma saltando comunque la tappa eversiva e sfogata dell'Espressionismo.
Il Vlad aveva impugnato la validità della sempre solida tesi adorniana (per cui Strawinsky esorcizzava il terrore della barbarie proprio con la sua rappresentazione: un sacrificio molteplice consegnato coscientemente all'autoestinzione), constatando i due capisaldi spirituali della sua opera: ritorno ai «valori del mondo ellenico e della civiltà cristiana». A petto del misticismo teosofico di Schoenberg. Strawinsky, insorgendo contro la confusione dell'ordine divino e umano, pareva tendere a quella sacralità nuda e aprogrammatica, come indiscriminata, che precede la presenza condizionante dell'uomo come artista e creatore. Insomma, se le opere «greche» erano magari risultanze di una immedesimazione ideale, quelle religiose riuscivano più affrancate da paradigmi canonizzanti: espressioni di una autentica Erlebniss umana, di un'esperienza esistenziale. E' certo che la religiosità di Strawinsky non rappresenta un momento contingente né il consolidamento di una risoluzione estetica: ove, seppure non ritrovi il clima dogmatico del musicista classico, la simbiosi di un'opera con la società e la cultura si stabilisce proprio nella misura di una sua significanza e necessità. Fuori d'ogni categoria psicologica e da ogni vincolo (la Messa è, delle maggiori opere di Strawinsky, non commissionata), la musica sacra può partecipare di quella «realtà ontologica» perseguita dallo stesso compositore. Consegna pure il programma, allora: libertà dalle «corrispondenze illustrative e letterarie col Grande Ordine» e invece musica come mezzo atto a «promuovere una unione dell'uomo... col suo prossimo (ma anche) con l'Essere»; in tal modo essa risulterà libera da ortodossie estetizzanti, proprio nell'impegno indiscriminato di non aderire a determinati momenti espressivi, ma a quel cattolicesimo archeologico che pareva conciliare universalmente tradizioni d'Oriente e d'Occidente. Pare insomma la sollecitazione eidetica di una indifferenziata pittura primitiva (come già notava il Casella per la Sinfonia dei Salmi), appena avvertita di regionalismi, ad affascinare Strawinsky: più ancora dell'impero europeo del gregoriano.
L'itinerario delle opere sacre di Strawinsky è esile, tracciato sullo «spirito dell'Antico Testamento» (presente nella Sinfonia dei Salmi) fino alla destinazione liturgica bizantina (Tre cori) e cattolica (Messa): secondo dunque un accresciuto disimpegno precettistico ed un'umiltà intesa come rimozione di ambizione individuale e di moventi consuetamente pessimistici che può trovare, come antecedente, la Messa dei Poveri di Satie (esempio recato dal Vlad) ma più ancora, forse, per il dislivello storico, una straordinaria affinità timbrica ed espressiva fin testuale con la Messa n. 2 per coro ed orchestra di fiati di Bruckner. Dopo che il Canticum (basato su testi evangelici) tentava una conciliazione tra la tradizione orientale e lo spirito cristiano occidentale, i Threni (id est Lamentationes Jeremiae Prophetae, scritti nel '58) segnano un preciso ritorno alla tradizione ebraica, ancora più avvertito della Sinfonia dei Salmi. Segno di una nuova stagione di «ricupero», indubbiamente: quasi che il prolungarsi della presenza fisica di Strawinsky gli consentisse un'altra stagione spirituale inattesa, forse imprevista. Il sincretismo stilistico e spirituale (a cui restavano esenti la Sinfonia dei Salmi e la Messa) connaturato a tanta produzione strawinskiana e proprio quella parodia che mai sconfessava una destinazione rappresentativa (eco di quella finzione teatrica che si diceva innanzi), ritorna evidente in questo Flood a cui si riconduce il nostro dire. (Né è da sottacere tuttavia un antecedente magari esterno, quella cantata Babel che è parte di un'opera collettiva articolata, tra l'altro, in un Prologo di Schoenberg, nel Caino ed Abele di Milhaud, nel Diluvio di Castelnuovo-Tedesco, nel Messaggio di Bloch: e mancarono, nella rassegna dei più autorevoli nomi attuali, gli interventi promessi da Bartok, Hindemith e Prokofieff, per la più ambiziosa silloge che la storia musicale ricordi).
I dubbi, le perplessità citate all'inizio riguardavano, come primo punto, la forma di questo The Flood. Si tratta di un «musical play», commedia musicale estranea al teatro: una sorta di sacra rappresentazione moderna, lontana dalle accademiche ricreazioni medioevali frequenti oggi, o meglio fino al ieri più prossimo, frutti di solipsistici aneliti al primitivo, di inutili esilii, di pazienti collages avvizziti. Le nostre riserve di fronte a tali pur espertissimi pastiches, cadono però qui immediatamente, già rilevando il parallelismo della non diciamo mistura ›od elaborazione, ma contaminatio testuale e musicale. Sono versetti biblici tratti dal primo libro della Genesi, con farciture desunte da cicli di drammi liturgici popolari ovvero da sacre rappresentazioni inglesi, diffuse nel secondo Quattrocento nel York e nel Chester. Altra evasione, dunque, in mondi «incontaminati» (Pestalozza), altra provincia del fatale cosmopolitismo di Strawinsky? Ma se la parodia è sempre «categoria del realismo», la stilizzazione metastorica di quest'ultima opera pone il compositore fuori d'ogni intento parodistico, nel suo tentativo magari sgraziato di resurrezione della anima innocente del Medioevo (ne è inerte naufragio di un tema arcaico).
Autore di questo libretto é Robert Craft che, come si sa, è un poco un segretario e «famulus», nonché collaboratore duttile e perciò insostituibile, di quello straordinario personaggio che è Strawinsky, capace di scontare la sua enorme popolarità anche con la più vieta pubblicità americana (e il Musical Quartely, riferendosi soprattutto alla più svilita propaganda concomitante, ha parlato di «shampoo commercial»). Da parte sua, il compositore interviene qui con un bagaglio musicale così dovizioso ed in apparenza eterogeneo, da sembrare composito se non artificioso (qualificazione, questa, che accompagna puntualmente la sua produzione più recente). Ebbene, tutti conoscono le sue molteplici sollecitazioni espressive prima che idiomatiche; tutti gli riconoscono, magari in forza della sua estrazione etnica slava e perciò necessariamente propensa al polimorfismo culturale e spirituale, la facoltà eccezionale di tutto appetire e prontamente assimilare: come già si disse insomma (e questo e ciò che più conta) di servirsi magari iconoclasticamente di forme e modi disparati, ma sempre serbandosi, mai contraffacendosi. In realtà, il risultato più evidente che dunque promana dalla sua natura sempre stupefacente, e che si configura alla attenzione di chi lo segue nelle sue evoluzioni stilistiche e leva un attimo lo sguardo dalla minuziosa e reiterata indagine microscopica delle sconcertanti disparità lessicali e formali, è senza dubbio questo: avventura nel tempo e nella storia musicale - e di qui figurazione molteplice e cangiante di una mimesi interiore che si traduce in un'assiduità mimica. La vicenda stimolante ed ardua sta tutta qui, nella sua cifra di interprete (ed attore e mimo) geniale del nostro.
Ancora una volta, quindi, la contraffazione linguistica che avviene nell'opera in forza dell'impiego indifferenziato e anzi della complicità di materiali, tecniche e forme, confida alla musica, alla forza del suo segno, archetipi di una religiosità sentita e conservata, astratta ma non mistificata. A questo si collega la concezione del suo linguaggio, che anche qui denuncia l'approdo weberniano; ma che, come nel Settimino e nel balletto Agon, rimane inconfondibile. Il linguaggio - altro punto. Elementi arcaici ed emblematica moderna imprigionerebbero Strawinsky nei logogrifi di una doppia accademia, compromettendone ogni geniale libertà. Intanto converrà dir subito che il musicista, nell'ambiguità o meglio nell'ubiquità (alla Sant'Antonio, direbbe D'Amico) della sua sintassi sonora (ossia dalle disparate e concomitanti espressioni), suggerisce forse un antidoto valido al rigorismo di tanta presenza musicale d'oggi: che cioè la serialità è né più né meno che una «eventualità»: movente ma non motore della più giovane musica. Parallelamente, poi, la sua tendenza alla trasvalutazione artistica (musica come danza, come mimo, come rappresentazione ritmica insomma) priverebbe di unitarietà l'opera, oltre che pregiudicarne, essendo religiosa, ogni funzione parenetica. Ma proprio qui sta la forza e la validità della sua innegabile contaminatio. Ritornando all'officiatura della Sagra della Primavera e privandola d'ogni attributo paganamente tellurico ed esorcistico perché descrittivo, in ragione invece di una simbolistica od allegorica rappresentazione (elementi, questi, propri d'una tradizionale sacralità cristiana), Strawinsky giunge necessariamente alla tappa attuale, e coerentemente, dal momento che non rinuncia a sé. Inoltre, il rigore della disciplina dodecafonica risulterà accentuato proprio come compensazione alla forza tellurica della Sagra e dell'Espressionismo. Ciò che conta, avvertiva già Paci (nell'articolo: Per una fenomenologia della musica contemporanea, apparso su Il Verri, 1959 n. 1), è la tendenza alla sintesi nella dialettica interna della dodecafonia: sintesi mediatrice di innovazione e tradizione che può dimostrare (come ha fatto il Vlad) che su questo piano Schoenberg e Strawinskv non sono affatto in opposizione. La vita dell'originario, la Lebenswelt di Husserl consegue e non precede la visione eidetica, l'intenzione teleologica. Contro la Weltvernichtung, la negazione del mondo, di un certo mondo storico con ogni sua implicanza linguistica e percettiva, contro la angoscia conseguente all'epoche, contro la irreversibilità che esclude la possibilità di ogni effettivo ritorno, l'unica soluzione è quella di un rinnovamento, di un libero recupero che non blocchi le nuove intuizioni artistiche in una statica, irrigidita eternità metafisica. La disponibilità diverrà allora un nuovo valore, capace di rinnovare «dies nostros sicut a principio» (parole, queste, che concludono non senza un programma umano i Threni).
Ora, se l'Oedipus Rex è la chiave del neoclassicismo strawinskiano, questo Diluvio (insieme ai pezzi preparatori, Canticum, Threni, cori sacri) ritorna alla coralità religiosa che precede la ritualità del tragos (religiosa anch'essa). Diventa perciò addirittura programmatica la mediazione condotta, esemplata sui testi medievali. E come là ti ritrovava la statuarietà classica (i personaggi di tragedia mimano, in fondo, la ideale e platonica statua greca), qui ti propone la simultaneità teatrale, giacché la Bibbia è racconto corale e il Narratore espone la virtualità drammatica di cose e persone descritte, menzionate. Per questo il confronto stabilito con l'Oedipus superava nel concerto l'esigenza di spettacolo e la casualità, a nostro avviso. Il Vlad, nel suo sempre lucidissimo saggio, notava che la musica di Strawinsky è melodicamente ed armonicamente statica: il dinamismo solo è ritmico e perciò tanto eversivo a contatto della fissità del testo. Ora, come tale staticità trovava la sua proiezione simbolica più esplicita nei personaggi dell'Edipo, vere statue viventi, così ora si esprime nell'emblema delle maschere, protagoniste del Diluvio. E va sottolineata, a questo proposito, la «completa funzionalità rappresentativa» (Mila) attuata pur dal saltuario intervento della musica. Va bene che qui il musicista alterna all'icona bizantino-ortodossa l'impenetrabilità di certa musa romanica, miniata o scolpita; ma la musica custodisce quella risorsa esplicativa e narrativa che fu propria dell'artigianato medioevale: una risorsa che accompagna la storia parlata del Narratore, mutuata dalla Genesi (1, 9, 20, 26). La parola di Dio, preceduta da colpi di grancassa, è espressa con un discanto di bassi, secondo un carattere e non tanto una caratteristica medioevale, come preciso il Mila (L'Espresso, 7 luglio 1963): presente invece nelle opere omonime di un Milhaud o di un Britten. Gli è che Strawinsky, anche qui, fa impiego di tecniche e forme determinate storicamente: si diceva della serialità usata sistematicamente come semplice eventualità, cui occorrerà almeno aggiungere questa adesione alla primitiva polifonia vocale, com'è il discanto che reca la voce divina. Certo che movenze popolari, echi di antiche litanie, riverberi di precedenti opere corali, cantillazione e sillabazione arcaica, sono un mazzo di tentazioni archeologiche, anche una nostalgia di barbarie: ma quello che più importa è la ricreazione di un piccolo mondo universale nel racconto magari pietrificato ed emblematico, ma palpitante anzi fremente di vita fisica quasi indifferenziata. Nel Narratore prende quindi voce Lucifero, ad introdurre il quadro del serpente, lasciato anch'esso alla rappresentazione strumentale di una linea musicale per semitoni cupi. Poi, il «melodramma» con il comando di Dio di costruire l'arca; e qui la sezione strumentale ha una destinazione coreografica: lucidissima mimica di balletto che raffigura la gestualità rigida e meccanica del lavoro di cantiere. Identica destinazione ha il repertorio degli animali menzionati dal Narratore. Poi un ameno e grezzo dialogo tra Noè e la moglie, ardita e manesca, indica la «commedia» rudimentale: a cui segue la concitata e cupa scena del diluvio ancora strumentale, ove le fasce seriali conferiscono al tema acquale una forza icastica intensa. E l'arcobaleno successivo compone il suo arco nel finale Sanctus.
Insomma la musica anche qui custodisce una sia pur allusa e stenografica funzionalità rappresentativa. La prospettiva immensa del Diluvio, qui «telescopizzata in una fulrninea miniatura» (Mila) di un soggetto elementare custodito come in una memoria intatta d'infanzia, fuori d'ogni suggerimento posteriore (sempre insufficiente), sollecita dunque un ritorno vertiginoso all'ingenuo emblema, per maggiore - unica - adesione. E per ulteriore innocenza, varranno le mediazioni dell'arte incolta e popolare. E' dunque storia medioevale, come nelle lunette, nei capitelli dell'Europa proto-gotica: momenti narrativi fermati plasticamente, che possono riuscire al nostro addensato spirito moderno mutili ed incomunicabili, che possono legarsi ad una prassi oscura più che ad una cultura ricuperabile. Ma era pur miracolosa disposizione medioevale quella di rappresentare con delle «cose» una realtà viva; come «cose», pezzi di musaico interiore sono qui le voci, oltre i suoni: mentre il Medioevo è tutto ritrovato nelle sequenze delle Mansiones o Stationes che articolano The Flood.
Così, nella sua virtualità reversibile, la musica apre uno spazio pluridimensionale: se inoltre, per un'adesione teologica vicina a tanta filosofia medioevale, il Tempo e la azione si riconducono a Dio (e si notino i confini liturgici del Diluvio, dall'inno all'officiatura: Tc Deum e Sanctus). Tutto un quadro che verrà a giustificare lo straordinario sincretismo formale ed espressivo dell'opera, a chiarirne la validità ma anche a suggerirne la condizione «ontologica».
Sergio Martinotti
("Rassegna Musicale Curci", anno XVIII n. 4 dicembre 1964)