Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, ottobre 21, 2023

Elias Canetti: Trofei

    Ero già stato qualche volta alla Hohe Warte, ma in forma privata e solo per incontrare Anna, che veniva ad accogliermi di persona da una porta secondaria. Quando finalmente decise di presentarmi a sua madre, la curiosità era reciproca, ma per motivi molto diversi: Alma Mahler non sapeva niente di preciso sul mio conto, si fidava poco della conoscenza che sua figlia aveva degli uomini e voleva sincerarsi che io fossi innocuo; quanto a me, sapevo che tutta Vienna parlava di lei nei termini più pungenti.
    Attraversai un cortile interno - ricoperto di piastrelle tra le quali l'erba aveva il permesso di crescere con calcolata naturalezza - e fui ammesso in una sorta di sancta sanctorum dove mi aspettava “mammina”. Era una donna piuttosto alta, straripante da tutte le parti, fornita di un sorriso dolciastro e di occhi chiari, spalancati, vitrei. Dalle sue prime parole sembrava che mi aspettasse da un pezzo, perché ne sentiva tante sul conto di tutti. «Annerl mi ha raccontato» disse subito, e fin dall'inizio fece apparire piccola piccola sua  figlia. Non voleva che ci fossero dubbi, neanche per un momento: chi contava era lei, in casa e fuori.
    Si sedette, e uno sguardo confidenziale fece intendere che bisognava prendere posto proprio accanto a lei. Obbedii con riluttanza, perché dopo il primo sguardo che le avevo dato, ero inorridito. Dappertutto si parlava della bellezza di Alma Mahler, si raccontava che era stata la più bella ragazza di Vienna e che aveva fatto una tale impressione su Mahler, molto più anziano di lei, da indurlo a chiedere la sua mano e a sposarla. La fama della sua bellezza si tramandava ormai da più di trent'anni, ma adesso Alma Mahler era lì in piedi e si sedette pesantemente: una persona in stato d'ebbrezza, molto più vecchia della sua età, circondata da tutti i trofei che aveva raccolto.
    La stanza in cui riceveva era infatti sistemata in modo che il visitatore avesse a portata di mano i pezzi più importanti di tutta una carriera: non c'era nulla  che potesse sfuggire alla vista, la stessa Alma era il cicerone di quel museo privato. A meno di due metri da lei si trovava la vetrina in cui era esposta la partitura della Decima sinfonia di Mahler, rimasta incompiuta. L'ospite era invitato a osservarla, si alzava, si avvicinava e leggeva le disperate invocazioni del malato - era la sua ultima opera - alla moglie: «Almina, mia amata Almina!» e altre simili. La partitura era aperta su quelle pagine terribilmente intime. Doveva essere un mezzo collaudato per far colpo sui visitatori. Io lessi quelle parole tracciate dalla mano di un moribondo e guardai la donna alla quale erano dirette. Per lei, ventitré anni dopo, era come se fossero state appena scritte. Chi osservava quel cimelio era tenuto a dedicarle uno sguardo di ammirazione, uno sguardo cui lei aveva diritto per l'omaggio che il moribondo le aveva reso nelle ore dell'agonia; e lei era così sicura dell'effetto di quelle parole estreme che il suo sorriso insensato si allargava in un ghigno e con quel ghigno accoglieva l'omaggio. Non avvertì nulla dell'orrore e del disgusto che avevo negli occhi. Io non sorridevo, ma lei interpretò erroneamente la mia espressione seria come un segno della devozione dovuta a un genio morente; e poiché tutto avveniva in quella specie di cappella votiva che Alma aveva eretto alla propria felicità, anche la devozione le apparteneva.
    Ma era venuto il momento del quadro che stava appeso alla parete proprio di fronte a lei, un ritratto di Alma, dipinto pochi anni dopo le ultime parole del compositore. L'avevo notato subito, mi era rimasto negli occhi da quando ero entrato; aveva un che di feroce, di minaccioso, e la partitura aperta mi aveva talmente sbigottito che lo sguardo mi si confuse e il quadro mi apparve come il ritratto dell'assassina del compositore. Non ebbi il tempo di respingere questo pensiero perché Alma Mahler si alzò, fece tre passi verso la parete e, stando davanti a me e indicando il quadro, disse: «E questa sono io, dipinta da Kokoschka come una Lucrezia Borgia». Era un'opera del periodo migliore di Kokoschka. Alma Mahler alzò subito un muro tra sé e il pittore, che era ancora vivo e attivo, aggiungendo compassionevolmente: «Poveretto, non ha fatto molta strada!». Kokoschka aveva ormai abbandonato la Germania, dove era all'indice come «artista degenerato», ed era andato a Praga per fare il ritratto al presidente Masaryk. Ero così stupito per quell'osservazione sprezzante che non potei trattenere una domanda: «In che senso non ha fatto molta strada?». «Ma si, adesso è a Praga, non è che un povero emigrante. Non ha più dipinto niente di buono»; e con uno sguardo alla Lucrezia Borgia aggiunse: «Allora sì che era bravo. Questo quadro fa paura a tutti». Anch'io avevo avuto paura, ma adesso ne avevo ancora di più nell'apprendere che il pittore non aveva fatto molta strada. Il suo apice lo aveva toccato con le varie raffigurazioni della sua Lucrezia Borgia, e adesso, poveretto, era solo un fallito, perché non piaceva ai nuovi padroni della Germania, e il fatto che il presidente Masaryk posasse per lui contava poco o niente.
    Ma la vedova non accordò troppo tempo al secondo trofeo perché pensava già al terzo, che non era presente nel sacrario e che desiderava mostrarmi. Batté le sue mani adipose e gridò: «Ma dove si è nascosta la mia Mutz?».
    Dopo pochi istanti una gazzella entrò in punta di piedi nella stanza, un'esile creatura bruna, travestita da ragazzina, incontaminata dalle meraviglie in mezzo alle quali si trovava, così innocente da apparire più giovane dei sedici anni che poteva avere. Più che bellezza, irradiava intorno a sé timidezza, come una gazzella angelica venuta dal cielo, non dall'arca. Io balzai in piedi per impedirle di entrare in quell'antro dei vizi o almeno per risparmiarle la vista dell'avvelenatrice appesa alla parete, ma costei, che non smentiva mai il suo personaggio, aveva già preso inesorabilmente la parola:
    «Bella, eh? Le presento Manon, figlia mia e di Gropius. Non ce n'è un'altra come lei. Tu, Annerl, non la invidi, vero?... Che male c'è ad avere una bella sorella? Buon sangue non mente. Lei ha mai visto Gropius? Alto, bello. Proprio quello che si dice un vero ariano. L'unico uomo fatto su misura per me dal punto di vista razziale. Tutti gli altri che si sono innamorati di me erano piccoli ebrei, come Mahler. Io vado  bene per gli uni e per gli altri. Adesso puoi andare, Mutz. Ancora un momento. Sali un po' a vedere se c'è Franzl. Se sta scrivendo, non lo disturbare. Ma se non è occupato, digli di scendere».
    Manon, il terzo trofeo, scivolò via dalla stanza, incontaminata com'era venuta, l'incarico affidatole non sembrava esserle di peso. Provai un grande sollievo al pensiero che nulla potesse toccarla, che sarebbe rimasta sempre com'era adesso, che non sarebbe mai diventata come sua madre, come il viso velenoso del quadro o la vecchia donna disfatta sul divano con i suoi occhi vitrei.
    (Non sapevo in che modo orribile avrei avuto ragione. A distanza di un anno l'agile gazzella era una povera paralitica e veniva portata in giro sulla carrozzella, accompagnata dal chiacchierio di sua madre, ancora lo stesso chiacchierio. Dopo un altro anno era morta. Alban Berg dedicò la sua ultima opera « Alla memoria di un angelo »).
    In una delle stanze superiori, sotto il tetto, c'era il leggio al quale Franz Werfel scriveva stando in piedi. Una volta Anna mi aveva mostrato quella stanza durante una delle mie visite. Sua madre non poteva sapere che avevo già conosciuto Werfel a un concerto al quale avevo accompagnato Anna. Quella sera Anna era seduta tra me e lui, e per tutto il tempo mi sentii addosso un grande occhio sporgente. Werfel si era girato tutto verso destra per vedermi meglio, e quasi allo stesso modo il mio occhio sinistro si era girato verso sinistra per osservare meglio l'espressione del suo occhio. Così i due occhi fissi l'uno nell'altro s'incontrarono, batterono dapprima in ritirata sentendosi colti in flagrante, ma alla fine, poiché non era più possibile dissimulare quel vicendevole interesse, ritornarono al loro posto di vedetta.
    Io non so che musica fu eseguita. Se fossi stato Werfel avrei pensato prima di tutto al concerto, ma io non ero un tenore come lui, ero stregato da Anna e nient'altro. Lei non si vergognava di me, sebbene i miei pantaloni sportivi non fossero l'ideale per un concerto, e del resto avevo saputo solo all'ultimo momento che c'era un biglietto libero e che potevo accompagnarla. Anna era seduta alla mia sinistra, e mentre fissavo su di lei uno sguardo che credevo furtivo, mi imbattevo nell'occhio da batrace di Werfel. Mi venne in mente che la sua bocca somigliava a quella di una carpa e che il suo grande occhio sporgente vi si adattava a meraviglia. Ben presto il mio occhio sinistro si comportò esattamente come il suo occhio destro. Era il nostro primo incontro, e fu un duetto con accompagnamento musicale tra due occhi che - separati da Anna - non potevano accorciare la distanza tra loro. Gli occhi di lei, la cosa più bella che avesse, occhi che nessuno poteva dimenticare dopo averli avuti addosso una volta, rimasero esclusi dal gioco; ed era una grottesca deformazione della realtà se si pensa quanto erano insulsi, privi di qualsiasi irradiazione, gli occhi di Werfel e i miei.
    Ma poiché dovevamo seguire il concerto in silenzio, furono escluse dal gioco anche le parole, proprio le parole che Werfel sapeva maneggiare da maestro, con patetica eloquenza. (Pierino Boccadifuoco è il nome che gli ha affibbiato il più grande dei suoi contemporanei, Musil). Di solito avevo anch'io la lingua pronta - almeno con Anna - ma tutt'e due stavamo zitti, ligi alla disciplina del concerto; e già in quel primo incontro era forse deciso il futuro dei nostri rapporti, l'ostilità di Werfel e la mia antipatia, l'inimicizia che doveva indurre Werfel ai più rozzi interventi nella mia vita.
    Adesso però sono ancora seduto vicino ad Alma, in mezzo ai suoi trofei, e lei, ignara di quell'incontro al concerto, ha appena mandato il terzo trofeo a cercare il quarto - il suo nome è Franzl - perché venga giù, se per caso non sta scrivendo. A quanto sembra, stava proprio scrivendo, perché non si fece vedere, e per me fu meglio cosi, perché ero sotto l'impressione sconvolgente della vedova straripante e dei suoi primi trofei. Ero fermo a questa impressione, volevo conservarla integra dentro di me, e c'era il pericolo che i discorsi retorici di Werfel potessero alterarla in qualche modo. Le cose comunque andarono così, e io non saprei dire come me ne venni via, come mi congedai da Alma: nel ricordo io sono ancora seduto accanto all'Immortale e la sento in eterno parlare di «piccoli ebrei come Mahler».
Elias Canetti
(tratto da "Il gioco degli occhi", Adelphi, 1985; Traduzione di Gilberto Forti)

martedì, ottobre 10, 2023

IL DILUVIO (THE FLOOD): Coerenza dell'ultimo Strawinsky

Converrà subito attendere alla cronistoria, 
decidendoci a commentare una recente opera di Strawinsky, la piccola cantata biblica The Flood: per avvertire come ogni sua nuova composizione quasi necessariamente si consegni a perplessità insofferente, a pronta riserva. Ascoltata l'anno scorso la prima esecuzione italiana e non certo disattento all'immediata reazione pubblicistica conseguente (non per deliberata prudenza, quanto per seguire coscientemente la fortuna critica dell'ultimo Strawinsky), mi accorsi che la vicenda polemica ed attiva sopravveniva e si replicava puntualmente: con punte anche vivaci e risentite, come per una nuova minacciata sconsacrazione agiografica conseguita alla delusione, al dubbio. Finiranno dunque di essere solo prove di coraggio, incontri spesso disagevoli c convenzioni culturali molte «prime» musicali, se il giornalista improvvisa, il pubblicista periodico descrive e solo la critica, più tardi, ripropone e vaglia, fuor d'ogni circostanza ed occasione provvisoria? La cronaca è miope, si sa, quanto forse la storia è presbite: comunque, ad aiutar la definizione della nuova opera, occorreva subito dirimere luoghi comuni di estetiche da un lato superate (capaci di occultare ed allontanare la composizione al suo apparire, anziché di avvicinarla) e, dall'altro, concordi più nell'intenzione che nel risultato. In entrambi i casi, ci sembra, giocano un ruolo vario e differenziato anche gli scritti del musicista: come programma o come premessa, come norma o come intenzione, come fallimento (spesso atteso) di personalità straordinaria oppure come superamento deliberato di un soggettivismo predestinato e in fondo ingrato.
    In ogni caso, anche per chi scambi ancor troppo disinvoltamente polimorfismo con incoerenza c sincretismo con ibridismo, la figura del musicista non presenterà tratti inattesi. Intanto, è il dato emozionale, la aggressività a consentire la condizione inedita di molte sue opere, anche recenti: a ben vedere, infatti, la dissacrazione antipoetica, la disumanizzazione di forme e di generi musicali, quell'itinerario al primitivismo, alla fantasiosità araldica, riesce sempre misura di un istinto, prima ancora che di una estetica di gusto informatasi ad una ricognizione vastissima che tenga conto di quasi tutta la storia musicale. Solo da questa visuale, da questo movente, ci pare, si comprenderà la reversibilità del suo temperamento, l'evoluzione (o meglio lo svolgimento) dei suoi «stili»: dietro una spinta, omogenea seppur polarmente opposta, di impulsi complementari che, ad esempio, nella antiretorica può instaurare una nuova retorica, né gli riesce di rinunciare al temperamento anche nel neoclassicismo, deliberatamente antiromantico e antisentimentale. Ora, il nodo di tutta questa ambiguità eletta e raffinata, sta evidentemente nella proiezione attiva e soggettivamente sollecitata di una dimensione che Strawinsky aveva oggettivato da tempo nell'eidos teatrale: più precisamente fin dalla disponibilità trasvalutante della marionetta Petruska (Tutta un'epifania di soggettivazioni caleidoscopiche, allora, in questo novecentesco «Orfeo in pigiama» come lo definì il Barilli, rilevandone l'inganno risoluto e metodico contro la «noia»). Ove è inutile dire che se la decorazione lirica ed accorata del personaggio quasi lo sentimentalizza, l'eco esterna e l'asprezza espressiva suggeriscono prodigiosa ambiguità alla sua meccanicità lignea. Questo serbarsi, questo apparente sconfessare, che è proprio della finzione teatrica, unito alla problematicità del dire e del confidare (e tutto invece appendere a fila, a moti irrisolti), diviene insomma tipico di una gestualità strawinskiana: nel quale, come scrive il Mila «il limite tra l'umanità e l'artificio è sempre presente, ma accuratamente nascosto» (Breve Storia della Musica, pag. 374). Così, anche estratta dalla prima destinazione (e organizzata cioè in suites orchestrali, ad esempio), la musica di Strawinsky trattiene e custodisce infatti una virtualità mimica insopprimibile. Il gioco, a questo punto, può esser fatto, pronto ad applicarsi a forme e linguaggi differenti e ratificati: proprio nella liberazione progressiva e apparentemente disordinata «da ogni residua necessità significativa, diretta o indiretta che sia» (Vlad), verso un puro «gioco» o divertimento. Liberazione dunque da ogni residuo romantico ed impressionista, da ogni imitazione o descrizione, in nome di un'autonomia di linguaggio che solo trattenesse, nella provocazione gestuale (la potenza dinamica ed il polimorfismo ritmico furono i più leciti attributi alla primaria musa strawinskiana), una disponibilità emozionale. Fu la fase dei «ritorni» (più consapevole e completa delle animose assimilazioni giovanili), incalzante ed ossessivamente mutevole: per un gioco di adesioni e contemperamenti virtuosi che, se parevano folgorare tante manierate esperienze, pazientemente ricuperative, nella luce di un'intuizione estrosa e limpida (e che perciò gli valeva la taccia di cosmopolita), tuttavia gli lasciavano indenne e istinto e personalità. Era, ancora una volta, quell'emozionalismo naturale e primigenio a fargli scegliere una tradizione per subito assoggettarla e dominarla; e adeguarsi ad una espressione per subito licenziarla offesa: quasi per un'ancestrale strategia d'intelligenza o per acuta barbarie ingenerosa, giovane e spietata, nuda, confessa e perciò anche propagandisticamente denunciataria.
    L'iter procede dunque per annessioni e per esaurimenti: dalla tradizione della sua terra a quella d'Europa; sempre con quel tono disincantato e nativo che ti rinnova l'immagine del mondo molteplice, con una luce secolare e mai mediata: di chi porta riposti e tutelati i propri Lari indigeni, sicuri voti e bagaglio spirituale di religioso e vergine misticismo. La ricreazione avviene allora per sequenza di contaminatio più o meno consapevole: in questo senso la parodia, il travestimento che appropria e serba, diviene come scrive ancora il Mila una «categoria fondamentale» dell'arte di Strawinsky. Di qui l'impensata connessione etnicamente dissimile, conturbante nella staticità consolidata della tradizione, divergente ed individualistica, nell'orgogliosa e confederata regione europea. La forza eversiva della sua conquista si manifestava, con una logica che diremmo autenticamente politica, nella radice autoctona, nell'istituzione basilare della civiltà europea: muovendo insomma, quasi per occultare il peso della sua ingerenza inflazionistica e della sua attualità iconoclasta, a quel ricupero di passati istituti e forme inteso consapevolmente; ossia, anche qui consentendo quell'ambiguità prodigiosa e fertile di linguaggio, quel gioco di dislivello storico tra modello e ricreazione.
    Ora, l'atteggiamento antiromantico della rimozione di espressioni contingenti e consentanee, in ragione di un ricupero o quantomeno di una rivalutazione di arcaiche strutture (il che è perfettamente conseguente alla rivoluzione unicamente tecnica ed espressiva, scevra cioè di stimoli spirituali, della sua prima fase pagana e preistorica), vale revisionismo e demistificazione. Infatti, la rimozione di inferti mascheratorii, ossia di una cultura che si era costituita a variazione più o meno accademica, a tutela gelosa e vana di tradizione - e repressiva quindi di voci ed inflessioni non già più reprimibili senza ambage - era esigenza avvertita coralmente. Se la rivalutazione storica che si diceva, avviene su base filosofica presso lo Schoenberg-Kreis (e potrebbe magari rivelarsi demistificazione mistificante), in Strawinsky, altra presenza focale per Adorno, avviene su una direttiva essenzialmente teleologica. Ciò può anche spiegare l'assenza, in lui, di una qualsivoglia coerente e fida ideologia costruttiva (come notava giustamente lo Zaccaro in un acuto intervento su Marcatrè n. 2), in ragione di una disponibilità che ad iniziali adesioni subito giustappone una risultanza di gusto, sempre immediata ma mai immeditata. Insomma l'incontro tra individualità ed oggetto avviene sempre nell'ambito di una fresca libertà emozionale, sempre svincolata e virtuale: e la coerenza consegue quindi alla continua disponibilità.
    Gusto, gioco: ove non è a dire che Strawinsky realizzi proprio il «massimo disimpegno esistenziale» (Vlad), quando invece questo impegno, come notava giustamente il Pestalozza (Il «puro gioco» strawinskiano, in Il Verri n. 7, 1963), non viene meno ma si occulta, si maschera, secondo un affrancamento continuo da concreti contesti storici. Ovvero, dietro «la sembianza di un disimpegno addirittura circonfuso di efficiente ottimismo», dietro la più perfetta autosufficienza, ci trovi la nervosa, fibrillare ed angosciata esaltazione di «un'umanità senza storia,... della realtà senza ragione». Il ricupero delle forme canoniche, l'uso delle forme storiche era la realtà occultata dei tre grandi viennesi, che Strawinsky era lesto a cogliere e denunziare: «ma l'uso che io ne ho fatto era franco, mentre il loro era abilmente travestito». Proprio di qui i diversi esiti: superamento come impiego irriconoscibile negli uni ed intrinseca aderenza, ricreazione operante nell'altro. Insomma quella franchezza operativa si traduceva nella facoltà, musicalmente legittima, di travestire storia e cultura, di misurarsele proprio addosso, celando ogni artificio ed ogni compromesso: ed anzi, combattendo 1'agnostico soggettivismo, alludere cautamente magari all'apologia artigianale come unica possibilità di riguadagnare il mondo. Solitudine, isolamento e protesta, monologo che sopprime il grido dell'incomunicabilità interiore, sono superati con questo gioco destro, pratico e partecipato di eleggere un mondo risolto e salvato nel passato. Esorcismo, ritualità che affonda le sue radici nell'istinto della religiosità russa, anche mistificazione artistica sono tutte proposte accertate: che comunque non intaccano la legittimità della sua opera (il ricupero di forme e materie sperimentate e canonizzate è pur sempre possibile) e soprattutto 1'intensità del suo intervento. Quanto al linguaggio, poi, l'itinerario a ritroso prima di Bach è noto che portò Strawinsky, con un altro sorprendente colpo di mano, a quel gioco di imitazioni a canone che costituì la «sintassi» del metodo dodecafonico (Mila): seguendo o meno la prassi del patto Gentiloni (cfr. D'Amico, I Casi della Musica: Strawinsky si accontenta) ma saltando comunque la tappa eversiva e sfogata dell'Espressionismo.
    Il Vlad aveva impugnato la validità della sempre solida tesi adorniana (per cui Strawinsky esorcizzava il terrore della barbarie proprio con la sua rappresentazione: un sacrificio molteplice consegnato coscientemente all'autoestinzione), constatando i due capisaldi spirituali della sua opera: ritorno ai «valori del mondo ellenico e della civiltà cristiana». A petto del misticismo teosofico di Schoenberg. Strawinsky, insorgendo contro la confusione dell'ordine divino e umano, pareva tendere a quella sacralità nuda e aprogrammatica, come indiscriminata, che precede la presenza condizionante dell'uomo come artista e creatore. Insomma, se le opere «greche» erano magari risultanze di una immedesimazione ideale, quelle religiose riuscivano più affrancate da paradigmi canonizzanti: espressioni di una autentica Erlebniss umana, di un'esperienza esistenziale. E' certo che la religiosità di Strawinsky non rappresenta un momento contingente né il consolidamento di una risoluzione estetica: ove, seppure non ritrovi il clima dogmatico del musicista classico, la simbiosi di un'opera con la società e la cultura si stabilisce proprio nella misura di una sua significanza e necessità. Fuori d'ogni categoria psicologica e da ogni vincolo (la Messa è, delle maggiori opere di Strawinsky, non commissionata), la musica sacra può partecipare di quella «realtà ontologica» perseguita dallo stesso compositore. Consegna pure il programma, allora: libertà dalle «corrispondenze illustrative e letterarie col Grande Ordine» e invece musica come mezzo atto a «promuovere una unione dell'uomo... col suo prossimo (ma anche) con l'Essere»; in tal modo essa risulterà libera da ortodossie estetizzanti, proprio nell'impegno indiscriminato di non aderire a determinati momenti espressivi, ma a quel cattolicesimo archeologico che pareva conciliare universalmente tradizioni d'Oriente e d'Occidente. Pare insomma la sollecitazione eidetica di una indifferenziata pittura primitiva (come già notava il Casella per la Sinfonia dei Salmi), appena avvertita di regionalismi, ad affascinare Strawinsky: più ancora dell'impero europeo del gregoriano.
    L'itinerario delle opere sacre di Strawinsky è esile, tracciato sullo «spirito dell'Antico Testamento» (presente nella Sinfonia dei Salmi) fino alla destinazione liturgica bizantina (Tre cori) e cattolica (Messa): secondo dunque un accresciuto disimpegno precettistico ed un'umiltà intesa come rimozione di ambizione individuale e di moventi consuetamente pessimistici che può trovare, come antecedente, la Messa dei Poveri di Satie (esempio recato dal Vlad) ma più ancora, forse, per il dislivello storico, una straordinaria affinità timbrica ed espressiva fin testuale con la Messa n. 2 per coro ed orchestra di fiati di Bruckner. Dopo che il Canticum (basato su testi evangelici) tentava una conciliazione tra la tradizione orientale e lo spirito cristiano occidentale, i Threni (id est Lamentationes Jeremiae Prophetae, scritti nel '58) segnano un preciso ritorno alla tradizione ebraica, ancora più avvertito della Sinfonia dei Salmi. Segno di una nuova stagione di «ricupero», indubbiamente: quasi che il prolungarsi della presenza fisica di Strawinsky gli consentisse un'altra stagione spirituale inattesa, forse imprevista. Il sincretismo stilistico e spirituale (a cui restavano esenti la Sinfonia dei Salmi e la Messa) connaturato a tanta produzione strawinskiana e proprio quella parodia che mai sconfessava una destinazione rappresentativa (eco di quella finzione teatrica che si diceva innanzi), ritorna evidente in questo Flood a cui si riconduce il nostro dire. (Né è da sottacere tuttavia un antecedente magari esterno, quella cantata Babel che è parte di un'opera collettiva articolata, tra l'altro, in un Prologo di Schoenberg, nel Caino ed Abele di Milhaud, nel Diluvio di Castelnuovo-Tedesco, nel Messaggio di Bloch: e mancarono, nella rassegna dei più autorevoli nomi attuali, gli interventi promessi da Bartok, Hindemith e Prokofieff, per la più ambiziosa silloge che la storia musicale ricordi).
    I dubbi, le perplessità citate all'inizio riguardavano, come primo punto, la forma di questo The Flood. Si tratta di un «musical play», commedia musicale estranea al teatro: una sorta di sacra rappresentazione moderna, lontana dalle accademiche ricreazioni medioevali frequenti oggi, o meglio fino al ieri più prossimo, frutti di solipsistici aneliti al primitivo, di inutili esilii, di pazienti collages avvizziti. Le nostre riserve di fronte a tali pur espertissimi pastiches, cadono però qui immediatamente, già rilevando il parallelismo della non diciamo mistura ›od elaborazione, ma contaminatio testuale e musicale. Sono versetti biblici tratti dal primo libro della Genesi, con farciture desunte da cicli di drammi liturgici popolari ovvero da sacre rappresentazioni inglesi, diffuse nel secondo Quattrocento nel York e nel Chester. Altra evasione, dunque, in mondi «incontaminati» (Pestalozza), altra provincia del fatale cosmopolitismo di Strawinsky? Ma se la parodia è sempre «categoria del realismo», la stilizzazione metastorica di quest'ultima opera pone il compositore fuori d'ogni intento parodistico, nel suo tentativo magari sgraziato di resurrezione della anima innocente del Medioevo (ne è inerte naufragio di un tema arcaico).
    Autore di questo libretto é Robert Craft che, come si sa, è un poco un segretario e «famulus», nonché collaboratore duttile e perciò insostituibile, di quello straordinario personaggio che è Strawinsky, capace di scontare la sua enorme popolarità anche con la più vieta pubblicità americana (e il Musical Quartely, riferendosi soprattutto alla più svilita propaganda concomitante, ha parlato di «shampoo commercial»). Da parte sua, il compositore interviene qui con un bagaglio musicale così dovizioso ed in apparenza eterogeneo, da sembrare composito se non artificioso (qualificazione, questa, che accompagna puntualmente la sua produzione più recente). Ebbene, tutti conoscono le sue molteplici sollecitazioni espressive prima che idiomatiche; tutti gli riconoscono, magari in forza della sua estrazione etnica slava e perciò necessariamente propensa al polimorfismo culturale e spirituale, la facoltà eccezionale di tutto appetire e prontamente assimilare: come già si disse insomma (e questo e ciò che più conta) di servirsi magari iconoclasticamente di forme e modi disparati, ma sempre serbandosi, mai contraffacendosi. In realtà, il risultato più evidente che dunque promana dalla sua natura sempre stupefacente, e che si configura alla attenzione di chi lo segue nelle sue evoluzioni stilistiche e leva un attimo lo sguardo dalla minuziosa e reiterata indagine microscopica delle sconcertanti disparità lessicali e formali, è senza dubbio questo: avventura nel tempo e nella storia musicale - e di qui figurazione molteplice e cangiante di una mimesi interiore che si traduce in un'assiduità mimica. La vicenda stimolante ed ardua sta tutta qui, nella sua cifra di interprete (ed attore e mimo) geniale del nostro.
    Ancora una volta, quindi, la contraffazione linguistica che avviene nell'opera in forza dell'impiego indifferenziato e anzi della complicità di materiali, tecniche e forme, confida alla musica, alla forza del suo segno, archetipi di una religiosità sentita e conservata, astratta ma non mistificata. A questo si collega la concezione del suo linguaggio, che anche qui denuncia l'approdo weberniano; ma che, come nel Settimino e nel balletto Agon, rimane inconfondibile. Il linguaggio - altro punto. Elementi arcaici ed emblematica moderna imprigionerebbero Strawinsky nei logogrifi di una doppia accademia, compromettendone ogni geniale libertà. Intanto converrà dir subito che il musicista, nell'ambiguità o meglio nell'ubiquità (alla Sant'Antonio, direbbe D'Amico) della sua sintassi sonora (ossia dalle disparate e concomitanti espressioni), suggerisce forse un antidoto valido al rigorismo di tanta presenza musicale d'oggi: che cioè la serialità è né più né meno che una «eventualità»: movente ma non motore della più giovane musica. Parallelamente, poi, la sua tendenza alla trasvalutazione artistica (musica come danza, come mimo, come rappresentazione ritmica insomma) priverebbe di unitarietà l'opera, oltre che pregiudicarne, essendo religiosa, ogni funzione parenetica. Ma proprio qui sta la forza e la validità della sua innegabile contaminatio. Ritornando all'officiatura della Sagra della Primavera e privandola d'ogni attributo paganamente tellurico ed esorcistico perché descrittivo, in ragione invece di una simbolistica od allegorica rappresentazione (elementi, questi, propri d'una tradizionale sacralità cristiana), Strawinsky giunge necessariamente alla tappa attuale, e coerentemente, dal momento che non rinuncia a sé. Inoltre, il rigore della disciplina dodecafonica risulterà accentuato proprio come compensazione alla forza tellurica della Sagra e dell'Espressionismo. Ciò che conta, avvertiva già Paci (nell'articolo: Per una fenomenologia della musica contemporanea, apparso su Il Verri, 1959 n. 1), è la tendenza alla sintesi nella dialettica interna della dodecafonia: sintesi mediatrice di innovazione e tradizione che può dimostrare (come ha fatto il Vlad) che su questo piano Schoenberg e Strawinskv non sono affatto in opposizione. La vita dell'originario, la Lebenswelt di Husserl consegue e non precede la visione eidetica, l'intenzione teleologica. Contro la Weltvernichtung, la negazione del mondo, di un certo mondo storico con ogni sua implicanza linguistica e percettiva, contro la angoscia conseguente all'epoche, contro la irreversibilità che esclude la possibilità di ogni effettivo ritorno, l'unica soluzione è quella di un rinnovamento, di un libero recupero che non blocchi le nuove intuizioni artistiche in una statica, irrigidita eternità metafisica. La disponibilità diverrà allora un nuovo valore, capace di rinnovare «dies nostros sicut a principio» (parole, queste, che concludono non senza un programma umano i Threni).
    Ora, se l'Oedipus Rex è la chiave del neoclassicismo strawinskiano, questo Diluvio (insieme ai pezzi preparatori, Canticum, Threni, cori sacri) ritorna alla coralità religiosa che precede la ritualità del tragos (religiosa anch'essa). Diventa perciò addirittura programmatica la mediazione condotta, esemplata sui testi medievali. E come là ti ritrovava la statuarietà classica (i personaggi di tragedia mimano, in fondo, la ideale e platonica statua greca), qui ti propone la simultaneità teatrale, giacché la Bibbia è racconto corale e il Narratore espone la virtualità drammatica di cose e persone descritte, menzionate. Per questo il confronto stabilito con l'Oedipus superava nel concerto l'esigenza di spettacolo e la casualità, a nostro avviso. Il Vlad, nel suo sempre lucidissimo saggio, notava che la musica di Strawinsky è melodicamente ed armonicamente statica: il dinamismo solo è ritmico e perciò tanto eversivo a contatto della fissità del testo. Ora, come tale staticità trovava la sua proiezione simbolica più esplicita nei personaggi dell'Edipo, vere statue viventi, così ora si esprime nell'emblema delle maschere, protagoniste del Diluvio. E va sottolineata, a questo proposito, la «completa funzionalità rappresentativa» (Mila) attuata pur dal saltuario intervento della musica. Va bene che qui il musicista alterna all'icona bizantino-ortodossa l'impenetrabilità di certa musa romanica, miniata o scolpita; ma la musica custodisce quella risorsa esplicativa e narrativa che fu propria dell'artigianato medioevale: una risorsa che accompagna la storia parlata del Narratore, mutuata dalla Genesi (1, 9, 20, 26). La parola di Dio, preceduta da colpi di grancassa, è espressa con un discanto di bassi, secondo un carattere e non tanto una caratteristica medioevale, come preciso il Mila (L'Espresso, 7 luglio 1963): presente invece nelle opere omonime di un Milhaud o di un Britten. Gli è che Strawinsky, anche qui, fa impiego di tecniche e forme determinate storicamente: si diceva della serialità usata sistematicamente come semplice eventualità, cui occorrerà almeno aggiungere questa adesione alla primitiva polifonia vocale, com'è il discanto che reca la voce divina. Certo che movenze popolari, echi di antiche litanie, riverberi di precedenti opere corali, cantillazione e sillabazione arcaica, sono un mazzo di tentazioni archeologiche, anche una nostalgia di barbarie: ma quello che più importa è la ricreazione di un piccolo mondo universale nel racconto magari pietrificato ed emblematico, ma palpitante anzi fremente di vita fisica quasi indifferenziata. Nel Narratore prende quindi voce Lucifero, ad introdurre il quadro del serpente, lasciato anch'esso alla rappresentazione strumentale di una linea musicale per semitoni cupi. Poi, il «melodramma» con il comando di Dio di costruire l'arca; e qui la sezione strumentale ha una destinazione coreografica: lucidissima mimica di balletto che raffigura la gestualità rigida e meccanica del lavoro di cantiere. Identica destinazione ha il repertorio degli animali menzionati dal Narratore. Poi un ameno e grezzo dialogo tra Noè e la moglie, ardita e manesca, indica la «commedia» rudimentale: a cui segue la concitata e cupa scena del diluvio ancora strumentale, ove le fasce seriali conferiscono al tema acquale una forza icastica intensa. E l'arcobaleno successivo compone il suo arco nel finale Sanctus.
    Insomma la musica anche qui custodisce una sia pur allusa e stenografica funzionalità rappresentativa. La prospettiva immensa del Diluvio, qui «telescopizzata in una fulrninea miniatura» (Mila) di un soggetto elementare custodito come in una memoria intatta d'infanzia, fuori d'ogni suggerimento posteriore (sempre insufficiente), sollecita dunque un ritorno vertiginoso all'ingenuo emblema, per maggiore - unica - adesione. E per ulteriore innocenza, varranno le mediazioni dell'arte incolta e popolare. E' dunque storia medioevale, come nelle lunette, nei capitelli dell'Europa proto-gotica: momenti narrativi fermati plasticamente, che possono riuscire al nostro addensato spirito moderno mutili ed incomunicabili, che possono legarsi ad una prassi oscura più che ad una cultura ricuperabile. Ma era pur miracolosa disposizione medioevale quella di rappresentare con delle «cose» una realtà viva; come «cose», pezzi di musaico interiore sono qui le voci, oltre i suoni: mentre il Medioevo è tutto ritrovato nelle sequenze delle Mansiones o Stationes che articolano The Flood.
    Così, nella sua virtualità reversibile, la musica apre uno spazio pluridimensionale: se inoltre, per un'adesione teologica vicina a tanta filosofia medioevale, il Tempo e la azione si riconducono a Dio (e si notino i confini liturgici del Diluvio, dall'inno all'officiatura: Tc Deum e Sanctus). Tutto un quadro che verrà a giustificare lo straordinario sincretismo formale ed espressivo dell'opera, a chiarirne la validità ma anche a suggerirne la condizione «ontologica».
Sergio Martinotti
("Rassegna Musicale Curci", anno XVIII n. 4 dicembre 1964)

domenica, ottobre 01, 2023

Il violino a corde umane...

Correva l'anni 1831.
Paganini, il diabolico Paganini, si era prodotto al teatro dell' Opera in sei concerti, suscitando entusiasmi anche maggiori di quelli che lo avevano accompagnato nelle sue trionfali escursioni in Italia e in Germania. - In presenza dell'artista fenomenale, alcuni professori d'orchestra del grande teatro aveano spezzato i loro strumenti.
Alla medesima epoca, era in Parigi un altro violinista, dotato di una abilità straordinaria, ma tuttora ignorato nel gran mondo dell'arte. Si chiamava Franz Sthoeny; - era nato a Stoccarda, e in quella città avea trascorso la gioventù nella pace della famiglia, alternando alle severe meditazioni della filosofia, gli esercizi dell'istrumento a quattro corde.
All'età di trentacinque anni, Franz era rimasto orfano e solo. Al morire della madre che lo avea adorato, che aveva esaurito per l'unico figlio tutte le economie di un patrimonio assai tenue, Franz si era accorto di esser povero.
La prospettiva dell'avvenire gli si era affacciata alla mente coi più lugubri colori. Che fare? - Il suo vecchio maestro di musica Samuele Klauss si era incaricato di rispondere alla terribile domanda. E la risposta, muta di parole, era stata eloquente.
Klauss avea preso per mano il suo allievo diletto, e, condottolo nella piccola sala dove tante volte avevano diviso insieme i fantastici diletti della musica, gli aveva additato la piccola cassetta dove il violino stava rinchiuso come un essere vivente in una tomba obbliata.
Quel cenno apriva a Franz Sthoeny una nuova carriera. Vendute le mobilie e le suppellettili della casa, l'artista era partito per Parigi in compagnia del suo maestro ed amico.
Prima che Paganini avesse dato al teatro dell'Opera i suoi meravigliosi concerti, Franz si era fatta, per una serie di esperienze e di raffronti, una convinzione superba ed un proposito irremovibile. - La convinzione era questa: di ritenersi superiore a tutti i più rinomati violinisti ch'egli aveva uditi nella capitale della Francia - il proposito era di spezzare il proprio istrumento, e con esso la sua esistenza, qualora non fosse riuscito a tenere il primo posto fra i suonatori dell'epoca. Il vecchio Klauss si compiaceva di quel nobile orgoglio, e credeva, lusingandolo, di compiere in buona fede una sant'opera.
Ma prima di prodursi al cospetto del pubblico, Franz aveva aspettato con trepida impazienza che il tanto decantato italiano facesse le sue prove a Parigi. Il nome di Paganini era stato, per alcuni mesi, una spina rovente al cuore di Franz - un incubo, un fantasma minaccioso allo spirito del vecchio Samuele.
Si l'uno che l'altro aveano più volte tremato per quel nome di artista - si l'uno che l'altro avevano presagito sinistramente della sua venuta a Parigi.
Chi può descrivere le ansie, gli spasimi, gli atroci entusiasmi di quella nefasta serata? - Franz e Samuele, alle prime arcate di Paganini, avevano rabbrividito. Il maestro e l'allievo, compresi da un entusiasmo che era per entrambi angoscia tremenda, non osarono guardarsi in faccia, non che ricambiarsi un accento.
A mezzanotte, dopo il concerto, rientrarono muti e lugubri nel loro appartamento.
«Samuele›› disse Franz gettandosi sovra una seggiola con portamento disperato «va'!... noi altri non siamo buoni a nulla - hai capito? - a nulla!... proprio a nulla!...»
Le rughe del vecchio maestro divennero livide. - Dopo breve silenzio, Samuele riprese con voce cupa:
«Eppure tu hai torto, Franz - io ti ho insegnato quanto si può insegnare da un maestro, e tu hai tutto imparato ciò che l'uomo può imparare dall'uomo. Qual colpa ci ho io, se questi dannati italiani, per primeggiare nel regno dell'arte, hanno ricorso alle ispirazioni del diavolo ed agli obbrobri della magia?»
Franz fissò gli occhi nel vecchio maestro con espressione sinistra: - quello sguardo parea dire: "ebbene! a che mai tanti scrupoli?... pur di elevarmi a tanta potenza nell'arte, ed io pure mi darei al diavolo, anima e corpo!".
Samuele indovinò quell'atroce pensiero, e riprese la parola con calma simulata:
«Tu conosci la storia miseranda del celebre Tartini. Egli morì in una notte di sabbato, strangolato dal suo demonio famigliare, che gli aveva insegnato la maniera di dare anima al violino, incorporando in esso lo spirito di una vergine. Paganini ha fatto di più. Paganini, per comunicare al proprio istromento i gemiti, i gridi desolati, le note più strazianti della voce umana, si è fatto assassino dell'uomo che più gli era affezionato sulla terra, e coi visceri della sua vittima ha composto le quattro corde del suo violino fatato. Eccoti il segreto di quel fascino, di quella potenza irresistibile di suoni, che tu, mio povero Franz, non potresti mai uguagliare, se prima...»
E il vecchio tronco a mezzo la frase.
La sua voce era paralizzata da uno sgomento misterioso.
Franz, abbassando gli occhi, uscì dopo alcuni minuti in questa domanda:
«E tu credi, Samuele, che arriverei anch'io ad ottenere gli effetti inauditi, a suscitare gli entusiasmi di Paganini, qualora le corde del mio istromento fossero composte di fibra umana?»
«Pur troppo!» esclamò il maestro con singolare espressione «ma per ottenere l'intento, non basta che le corde siano composte di fibra umana; è necessario che questa fibra abbia fatto parte di un corpo simpatico. Tartini comunico la vita al proprio violino, introducendo in esso l'anima di una vergine - ma quella vergine era morta di amore per lui; e il satanico artista, assistendola nelle ultime agonie, a mezzo di una cannuccia, avea fatto passare nello istromento lo spirito della moribonda. Quanto a Paganini, l'ho già detto che egli assassino il migliore dei suoi amici, la persona che più gli era legata di benevolenza - e la assassinò per strappargli le viscere e per convertirle in altrettante corde da suono»
«Oh! la voce umana! - il miracolo della voce umana» proseguì Samuele dopo breve silenzio. «Credi tu dunque, mio povero Franz, che io non ti avrei insegnato a produrla, se questa si potesse ottenere coi mezzi dell'arte, di quell'arte nobile e santa che vuol vivere di sé stessa, che vuol risplendere della sua propria luce, che disdegna le bassezze e le ciurmerie, che ha in orrore i delitti?»
Franz non ebbe forza di proferire un accento. Si levò in piedi con una pacatezza sinistra che rivelava la più profonda agitazione - prese in mano il violino - fissò nelle corde un'occhiata sprezzante e minacciosa - e poi, afferratele con impeto convulso, le strappò dallo istromento.
Il vecchio Samuele mandò un grido. Le corde ridotte a gomitolo erano state lanciate nelle brage del caminetto, e quivi si contorcevano stridendo, come al contatto del fuoco un gruppo di serpenti assiderato.
Samuele tolse dalla tavola un candeliere, e si avviò alla sua camera da letto senza salutare l'allievo.
Passarono settimane - passarono mesi. Una cupa malinconia si era impossessata di Franz. Il violino, vedovo delle corde, pendeva dalla parete, polveroso e negletto. Samuele e Franz pranzavano insieme ogni giorno e ogni sera stavano assisi l'uno di fronte all'altro, nel medesimo salottino - ma l'uno non osava rivolgere all'altro la parola - si guardavano in silenzio come due muti. - Dal momento che il violino non ebbe più corde, anche quei due esseri animati parvero smarrire l'uso della favella.
«E' tempo che ciò finisca!» esclamò finalmente il vecchio Samuele. E quella sera, prima di ritirarsi nella camera da letto, si accostò all'amico per imprimergli un bacio sulla fronte. Franz si riscosse dal suo triste letargo, e ripeté meccanicamente le parole del maestro: «E' tempo che ciò finisca"».
Si separarono - e ciascuno andò a coricarsi.
All'indomani, quando Franz aperse gli occhi alla luce del giorno, si meravigliò di non trovare vicino al suo letto il vecchio maestro che era solito levarsi prima di lui.
«Samuele! mio buono... mio ottimo Samuele!» gridò Franz balzando dalle coltri per slanciarsi nella camera del maestro.
Franz fu atterrito dalla propria voce, ma più ancora dal silenzio lugubre che a quella rispose.
Vi sono dei silenzi profondi che annunziano la morte.
Presso al letto dei cadaveri e nel vano delle tombe, il silenzio acquista una intensità misteriosa che colpisce l'anima di terrore.
La severa testa di Samuele giaceva irrigidita sul capezzale - i contorni salienti di quella testa erano una fronte calva sfolgorante di luce e una barba grigia acuminata che pareva erigersi al cielo.
Alla vista di quel cadavere Franz provò una scossa terribile - ma la natura dell'uomo e la natura dell'artista si risentirono in lui ad un medesimo tempo, e in quella lotta di sentimenti il dolore rimase ben tosto paralizzato. Le passioni dell'artista prevalsero sui più teneri istinti dell'uomo, e li soffocarono.
Una lettera all'indirizzo di Franz giaceva sulla tavola da notte. - Il violinista l'aperse tremando:

"Mio caro Franz,
"Al momento in cui leggerai questo scritto, avrò compiuto il più grande e l' ultimo sacrifizio che io, tuo maestro e tuo unico amico, poteva fare per la tua gloria. La persona che al mondo ti amava sopra ogni altro, non è più che un corpo insensibile: del tuo vecchio maestro non rimane oggimai a te dinanzi che la materia organica impassibile. Io non ti suggerirò ciò che ti resta da fare.
"Non lasciarti atterrire da scrupoli vani o da stolte superstizioni. - Io ti immolo il mio cadavere perché tu abbia ad usarne per la tua gloria - ti macchieresti della più nera ingratitudine rendendo vano il mio sacrificio. - Quando tu avrai ridonate le corde al tuo violino - quando queste corde si comporranno della mia fibra e avranno la voce, il gemito, il pianto del mio fervido amore - allora, o Franz, non temere di nessuno, - allora prendi il tuo strumento, mettiti sulle orme dell'uomo che ci ha fatto tanto male - presentati nel campo dov'egli superbamente ha potuto imperare fino a questo giorno - gettagli in volto il tuo guanto di sfida! Oh! sentirai come la nota di amore uscirà potente dal tuo violino, quando tu, accarezzando le corde, ti sovverrai che desse furono parte del tuo vecchio maestro, che ora ti bacia per l'ultima volta e ti benedice.
Samuele”

Due lacrime sgorgarono dagli occhi di Franz, ma tosto parvero essiccarsi per effetto di una vampa latente. Le pupille del fantastico suonatore, fisse nel morto, lampeggiavano come quelle della strige.
La nostra penna rifugge dal descrivere ciò che accadde in quella stanza di morte, dacché i medici ebbero praticata l'autopsia del cadavere. A noi basti accennare che le ultime volontà dell'eroico Samuele vennero compiute, che Franz non esitò punto a procacciarsi le corde fatali onde egli sperava dar anima al suo violino.
Quelle corde, di là a quindici giorni, erano distese sullo strumento. Franz non osava guardarle. Una sera volle provarsi a suonare, ma l'arco gli tremava nella mano come lama di stocco nel pugno di un assassino esordiente.
«Non importa!»› esclamò Franz, rinserrando il violino nella cassetta «questi sciocchi terrori spariranno quando io mi troverò in presenza del mio potente rivale. La volontà del mio povero Samuele vuol essere compita... sarà un grande trionfo per me e per lui... se riuscirò ad uguagliare... a superare Paganini!»
Ma il celebre violinista non era più a Parigi. A quell'epoca Paganini dava al teatro di Gand una serie di concerti.
Una sera, mentre il diabolico artista sedeva a mensa circondato da una eletta compagnia di musicisti, Franz entrò nella sala dell'albergo, e muovendo all'indirizzo di Paganini, senza dir motto, gli consegnò un biglietto da visita.
Paganini lesse - lanciò sullo sconosciuto una di quelle occhiate fulminee cui l'occhio più temerario non può sostenere - ma vedendo che l'altro teneva fermo e pareva a sua volta sfidarlo colla impassibilità dello sguardo: «Signore» gli disse con voce secca «i vostri desiderii saranno esauditi!». E Franz, salutando cortesemente i convitati, uscì dalla sala.
Due giorni dopo, nella città di Gand era esposto un avviso che annunziava l'ultimo concerto di Paganini. Nelle ultime linee del programma, stampato a lettere cubitali, spiccava una nota singolare che eccitava in sommo grado la pubblica curiosità, ed era oggetto di mille commenti!
"In detta sera” diceva la nota "si produrrà per la prima volta l'egregio violinista alemanno signor Franz Sthoeny, il quale si è recato espressamente a Gand per gettare il guanto di sfida all'illustre Paganini, dichiarandosi pronto a competere con lui nella esecuzione dei pezzi più difficili. Avendo l'illustri Paganini accettata la sfida, il signor Franz Sthoeny dovrà eseguire, in confronto dell'insuperato violinista, la famosa 'Fantasia-Capriccio' che si intitola Le streghe".
L'effetto di quell'annuncio fu magnetico. Paganini, che in mezzo alle agitazioni ed ai trionfi, non perdeva mai d'occhio il punto luminoso della speculazione, credette bene, per quella occasione, di rincarare del doppio il prezzo dei biglietti. - E' inutile dire ch'egli aveva calcolato perfettamente. Tutta la città di Gand, quella sera, parve riversarsi in teatro.
All'ora terribile del cimento, Franz si recò nella sala del ridotto, dove Paganini lo aveva preceduto.
«Bravo figliuolo! avete fatto bene ad anticipare la vostra venuta» disse Paganini «sarà bene che noi invertiamo l'ordine del programma. Mi preme di sbrigare questa faccenda, per non essere disturbato nella esecuzione degli altri miei pezzi. - Siete voi pronto?»
«Io sono ai vostri ordini» rispose Franz pacatamente.
Paganini fece alzare il sipario, e tosto si presentò al proscenio fra un uragano di applausi e di grida frenetiche.
Non mai l'artista italiano, nell'eseguire quella diabolica composizione che si intitola le Streghe, aveva rivelato una potenza cosi diabolica. Le corde del violino, sotto la pressione delle falangi scarnate, si contorcevano come viscere palpitanti - l'occhio satanico del violinista evocava l'inferno dalle cavità misteriose del suo istromento. - I suoni prendevano forma, e, intorno a quel mago dell'arte, parevano danzare oscenamente delle figure fantastiche. Nel vuoto del palco scenico una inesplicabile fantasmagoria formata dalle vibrazioni sonore rappresentava le orgie invereconde e gli osceni connubi del Sabba.
Quando Paganini poté finalmente ritirarsi dalla scena, ove ad ogni tratto lo richiamavano le strepitose acclamazioni del pubblico, nella sala del ridotto incontrò Franz che aveva finito di accordare il violino, e già muoveva per slanciarsi nell'arringo.
Paganini rimase stupito nel mirare l'impassibilità del suo competitore, e l'aria di sicurezza che gli brillava nel volto.
Franz si avanzò verso il proscenio, accolto da un silenzio glaciale. Soggiogati dal fascino di Paganini, gli spettatori guardavano il nuovo arrivato come si guarda un povero ebete, che affronta un assurdo cimento.
Nellameno, alle prime arcate di Franz, l'attenzione degli spettatori si fece vivissima.
Franz era un esecutore abilissimo, uno di quegli esecutori pei quali la difficoltà non esiste. Il vecchio Samuele non aveva mentito il giorno in cui gli aveva detto: io ti ho insegnato tutto ciò che si può insegnare e tu hai imparato tutto quello che si può apprendere.
Ma ciò che Franz aveva sognato di ottenere per effetto delle corde simpatiche; il gemito della passione, il grido straziante dell'agonia, il ruggito della foresta e l'ululo dei dannati - ciò che il vecchio Samuele immolandogli sé stesso e dotando di corde umane lo strumento di lui - tutto questo edifizio di illusioni, di speranze, che nell'anima dell'artista alemanno si erano tramutare in fede sicura - tutto svanì in un istante...
Sotto il colpo di un terribile disinganno, Franz smarri il coraggio e le forze... Invocò sommessamente il nome del defunto maestro - lo pregò... lo maledi nel segreto dell'anima sua - lo gridò traditore, scellerato. Poi, stanco della prova, disperato dell'esito, strappò dal violino le corde fatali, le gettò al suolo, e si fece a calpestarle con rabbia feroce.
«E' pazzo! è pazzo! - fermatelo... soccorretelo!» gridarono cento voci dalla platea.
Franz si allontanò dal proscenio, ed entrato precipitosamente nelle quinte, andò a prostrarsi ai piedi di Paganini.
«Perdono! mille volte perdono!» gridò Franz con accento disperato «io aveva creduto... io aveva sperato...»
Paganini stese le braccia a quel povero sconfitto; lo sollevò da terra, e, abbracciandolo come un fratello, gli disse: «Tu hai suonato divinamente... tu sei un grande artista.. ciò che ti manca...»
«Oh/ so ben ciò che mi manca» esclamò Franz singhiozzando «ma il vecchio Samuele mi ha tradito!..»
E Franz narrò a Paganini l'istoria delle corde umane, esponendogli ingenuamente le illusioni a cui si era affdato.
«Povero Franz!» esclamò il violinista italiano con sarcastica pietà «tu hai dimenticato una circostanza per la quale le corde del tuo violino non potevano competere colle mie nella vivacità, nel calore, nell'impeto della passione... Non hai tu detto che il tuo vecchio maestro era tedesco!»
«Senza dubbio - egli era tedesco come io lo sono...»
«Ebbene; ecco appunto la circostanza sfavorevole» proseguì Paganini battendo sulla spalla del povero Franz. «Un'altra volta, quando vorrai comunicare al tuo violino l'anima, il fuoco, la passione, la vivacità che io possiedo, fa' che le tue corde siano composte di fibra italiana»
E aggiunse sottovoce: «E fa' anche di procacciarti, se lo puoi, un'anima da italiano».
Antonio Ghislanzoni
(da Racconti e novelle, Milano, Sonzogno 1884)