Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, gennaio 25, 2025

Salvatore Sciarrino: Genio e Regolatezza

Salvatore Sciarrino (4 aprile 1947)
In una mattina di primavera, mena sua Splendida Casa 
di Città di Castello, piena di luce, Salvatore Sciarrino racconta come, partendo dallo studio del passato, è riuscito a trovare un nuovo linguaggio musicale in stretto rapporto con quello che è stato e con quello che seguirà. 

«Se gli alberi fioriscono è per dissolversi nella primavera»: è una frase che lei ha usato per descrivere la sua musica alla fine di una sua biografia e che sembra un grande atto di altruismo.. .
Un altruismo che dovrebbe esserci abituale, perché e insito nel meccanismo stesso della vita, dell'amore e può divenire simbolo dell'esistenza. E' il rapporto necessario degli esseri viventi con il loro ambiente, con quello che li precede e con quello che seguirà.
Ogni cosa si intreccia con un'altra; fermarsi per fare un monumento al proprio io è un'illusione, una tragica illusione di alcuni artisti.
Creare e dare generosamente sono sinonimi, non bisogna avere paura di essere dispersi nella primavera. Del resto anche per saper nuotare non dobbiamo temere l'acqua.
Per gli artisti non è sempre così...
Ogni artista è fortemente egocentrico, infatti si difende dal mondo e dalla società che egli modifica con la propria arte. Il mondo sopravvaluta gli aspetti che danno maggior sicurezza, ma che in realtà sono effimeri. Non è il passare nella vita che è effimero; il vero effimero - la vanitas seicentesca proclamava proprio questo - sono gli oggetti a cui ci attacchiamo, i segni del potere, del denaro, che ci illudiamo possano fermare il fluire del tempo e che invece denunziano il dramma e la catastrofe della nostra esistenza. Molti artisti si lasciano sedurre dall`effimero.
La vita è invece continuità, lasciarsi andare. Chi si irrigidisce e destinato non solo a perdere e a disilludersi, ma a soffrire e ad annegare.
Ci deve essere continuità tra quello che abbiamo preso dai nostri padri e quello che diamo ai nostri allievi, l`importante è mantenere questa funzione di trasmissione e di trasformazione. Così come io ho imparato leggendo nelle partiture degli altri, forse posso servire ad altri e inserirmi in questo fiume... Non c'è niente di eroico in tutto questo, solo l`accettazione di una realtà; chi non sa rinunziare ad affermare il proprio io nasconde una grande debolezza.
Lei si definisce un autodidatta; cosa significa?
Quando a vent`anni dicevo di essere autodidatta, provavo vergogna; poi ho insegnato nella scuola pubblica e ora lo affermo con orgoglio.
Penso che il difetto della scuola pubblica sia quello di dare delle regole passe par tout, senza preoccuparsi di formare la sensibilità dell'artista, che secondo me è più importante. Bisogna saper accettare se stessi, non soltanto le proprie ambizioni, perché c'è spazio per ogni personalità, per i grandi e per i piccoli artisti: Mozart senza Cazzaniga non avrebbe scritto il Don Giovanni.
Si ritorna al discorso sulla natura...
Certo, nel fluire della vita il filo d'erba non è meno importante dell'albero: sono entrambi esseri viventi, fanno parte di un ambiente in cui tutto si integra. Il nostro è un pianeta organico. Chi studia gli esseri viventi scopre che hanno tutti una personalità - dal piccione più disprezzato all'animale domestico che ci sembra sprizzare intelligenza, emotività, affettività. Se cominciamo a osservarlo, il mondo si rivela straordinario, ricchissimo di possibilità di contatto. E, se comprendiamo la varietà dei linguaggi, saremmo costretti a capovolgere le nostre scale dei valori certi, perfino il concetto di umano e disumano.
Cosa significa questo per un compositore-autodidatta?
Essere autodidatta significa non dover affrontare degli esami e poi diventare compositori; la scuola crea questo equivoco: si superano delle prove e si diventa qualcuno o qualcosa. Questo modo di pensare è il contrario di un artista, ciò vale soprattutto per un compositore; comporre è inquietudine e allo stesso tempo qualcosa di modesto, che va conquistato momento per momento, quando siamo nella nostra stanza, nell'assiduità del nostro lavoro di evoluzione e di scavo.
Essere autodidatta vuol dire studiare bene i classici e respirare a pieni polmoni la libertà: essa è necessaria per riuscire a costruire la propria personalità.
Un po' come a scuola...
Non direi... La scuola indica dei punti obbligati di riferimento; quale allievo-compositore, invece, studia in maniera approfondita Mozart, Schubert, Beethoven? Se gli incontri con questi grandi compositori avvengono, nella carriera di un allievo di conservatorio, sono sempre occasionali e sterili, perché viene data più importanza alla manualistica, alla tecnica, alle regole...
Io penso l'opposto. L'artista non deve applicare le regole, o meglio: deve imparare ad applicarle. Ma a sua volta ha bisogno di crearle o di trasformarle, altrimenti in cosa riluce la sua personalità? Non certo nel ripetere. La nostra scuola ha impoverito l'ambiente culturale perché ha voluto formare degli artigiani. Ma dov'e il coraggio dell'artista? Questo bisogna cercare. Essere autodidatti significa non smettere mai di scoprire e di studiare. Del resto, fuori della scuola non c'è diploma che ti proclami compositore. Ognuno deve approfondire la propria coscienza e allargare i propri orizzonti: verso il fondo di se stessi e verso la realtà. Sono questi due movimenti che la scuola non ci insegna e che invece danno vita alla personalità di un artista.
Quali sono gli autori che ha sentito più vicini?
Certo ognuno di noi ha degli autori intorno a sé, che gli sono cari. Ma a me pare più importante sottolineare l'attitudine mentale, il modo in cui li si studia. È la capacità di entusiasmarsi, che nel metodo scolastico non è contemplata. La scuola preferisce salvare la routine di tutti i giorni; forse sarebbe meglio insegnasse ad affrontare i disastri e le difficoltà della vita quotidiana - come pure del comporre quotidiano - che essere sicuri della nostra facciata e, da vecchi, scoprire di non aver dato il meglio di sé. Per l'artista il problema non è trovare chissà che cosa, ma dare il meglio di sé: quello che puoi dare solo tu non lo può dare nessun altro. Questo è uno il segreto della vita di un artista.
Come si intreccia la cultura con le sue composizioni?
Le due cose si intrecciano in maniera misteriosa, sorprendente, istintiva.
Vi sono progetti che producono risonanze ed echi che rimangono nel tempo.
...come?
Il movimento della cultura oscilla e si contraddice; non è rettilineo né unitario. Alle volte ci sono smarrimenti, contraddizioni, ritorni, smemoramenti di cui si prende coscienza successivamente. Io vedo questo movimento come qualcosa che ha una sua vita biologica.
Come avviene poi il momento della composizione?
Nella mia testa... Elaborazioni mentali o balenii di idee o semplici desideri che precipitano sulla carta e diventano appunti cartacei talvolta succinti, talvolta voluminosi. A me non succede di cominciare dalla prima nota e finire con l`ultima: metto a fuoco prima le parti principali e poi l'inizio; l'ho potuto verificare perché ricordo la nascita di tutte le mie composizioni. Seguo un percorso di prospettiva generale, che non è assolutamente rettilineo. Per questo motivo posso avere in testa il punto di arrivo, la zona centrale o il culmine, e camminare a ritroso. Per Lohengrin, per esempio, ho scritto prima la canzone finale e poi tutto dall'inizio.
E la scelta della forma?
E' determinata dalla fisionomia del materiale, strettamente connessa alle caratteristiche di esso. Per concepire la forma mi creo dei punti di riferimento, che posso modificare lungo il percorso.
È una limatura continua?
Non solo; certe volte è come cambiare le fondamenta dopo aver costruito la casa. Nel caso del Concerto K 491, Mozart cambia l'esposizione della forma-sonata, e trova la giusta soluzione solo dopo aver scritto tutto il primo movimento.
Forse solo quando I'opera è conclusa si ha una visione d'insieme...
Non credo. L'idea generale precede necessariamente i particolari. Quando vengono in mente i primi particolari, essi, per non morire vanno subito allargati o inseriti in un contesto dove prendano senso. Ecco perché inseguo subito la visione d'insieme con i diagrammi di flusso.
Di cosa si tratta?
Di grafici, in matematica si chiamano diagrammi di flusso, che io costruisco per comporre. E' una metodologia che ho messo a punto da oltre quarant'anni, e che ritengo adatta a me e al momento che stiamo vivendo.
È una corrispondenza diretta tra l'idea e la sua realizzazione?
È soprattutto un metodo progettuale fantastico, importantissimo e me ne servo duttilmente.
Un diagramma è come una partitura "prosciugata" ma con delle informazioni in più. In poco spazio permette di abbracciare tutta la composizione, dall'inizio alla fine. e di avere il dominio della forma, del tempo e della relazione fra gli eventi.
Il mio è un percorso abbastanza caratterizzato: pur avendo una esperienza enorme sono ancora in divenire e nel pieno dell'energia creativa. Ed è proprio il modo di progettare con i diagrammi che nel tempo si è rivelato determinante; i compositori spesso non hanno una metodologia di progettazione adatta a quello che vogliono fare. Se hai una concezione diversa del tempo e del suono devi trovare una metodologia adatta alla realizzazione. Se giochi con le note. allora bastano i vecchi sistemi.
Ha mai pensato ad una notazione diversa?
Si, però mi impongo quella tradizionale: i grafici vengono tradotti in note e di conseguenza parzialmente modificati.
Quello che conta è che la progettazione sia adatta ai fini che si vogliono raggiungere. Su questo sono categorico anche con gli allievi: se vuoi costruire un grattacielo devi usare il cemento, se vuoi costruire una capanna le palme; non puoi fare una capanna con il cemento o un grattacielo con le palme: sono questi i veri problemi tecnici. La scuola non ci insegna il metodo per progettare quello che vogliamo raggiungere, così si produce una inadeguatezza tra ciò che ci proponiamo e i mezzi che usiamo.
L'arte contemporanea, che viene erroneamente considerata imponderabile, possiede linguaggi e un metodo molto precisi: sono la dimostrazione vivente del pensiero attuale. I grafici, per esempio, a me permettono di dosare qualsiasi elemento (o aspetto) lungo il corso di tutta la composizione; mi permettono anche un`economia di mezzi adeguata a ciò che voglio ottenere.
Lavora su moltissimi parametri...
Certo, su tutti i parametri, anche non convenzionali. Per esempio sulla drammaturgia di una scena d'opera, sulla psicologia del personaggio, sul rivelarsi o il formarsi di alcune situazioni. La percezione non si è fermata ai cinque sensi.
All'interno del suo catalogo spicca uno strumento, il flauto; è il suo preferito?
Ammesso per assurdo che io lo neghi, il catalogo mi smentirebbe: dodici pezzi solistici, più tutto il resto! E' una vera passione nonché il mio più grande rovello, perché è intorno a questo strumento che ho lavorato di più.
Il flauto offre ancora molte possibilità, inoltre il livello medio degli esecutori è più elevato rispetto a quello degli altri strumenti. Evidentemente c'è una simpatia tra il mio mondo sonoro, i miei progetti estetici, la mia poetica, e quello che il flauto può offrire con i mezzi che ho costruito.
Quando ho visto che le composizioni per flauto crescevano, ho cercato di ottenete anche una certa varietà, come se ogni pezzo fosse un mondo diverso e si aprisse ogni volta su un punto diverso del mondo. Ho ancora da scrivere per flauto...
Le sue composizioni sono considerate dei classici dello strumento...
Sono dei pezzi molto caratterizzati, che danno il senso di esistere da sempre. Penso che le opere che non hanno una forte fisionomia non ci siano necessarie. Il fatto che la presenza di questi pezzi sia così viva li rende insostituibili nel paesaggio e, malgrado le imitazioni, inimitabili.
È proprio la caratteristica dei classici...
Sì, senza di loro il mondo sarebbe diverso.
Non c'è risultato estetico che si possa raggiungere risparmiando le forze; bisogna lavorare molto e dare di più nelle cose in cui siamo più portati. Di solito diamo meno nelle cose in cui siamo più portati, è automatico: quello che ci viene facile ci fa risparmiare energia. Invece io faccio il contrario: nelle cose incui sono più portato e riesco meglio, lavoro di più: se ho scritto un pezzo per flauto divento inquieto e ho bisogno di scriverne un altro che sia migliore del primo, e così un altro ancora.
L'arte è fatta di un continuo auto-superarsi, inconscio o voluto; in me è voluto: voglio andare in questa direzione, anche se costa fatica.
Sono sempre in ritardo nel consegnare la musica, e mai soddisfatto fin quando arriva il momento in cui penso: «se cambio una nota non ha più nessuna importanza». Allora capisco che il pezzo è fatto. Questo porta a un logorio dell'esistenza ma anche un fine molto definito e a qualche soddisfazione.
Susanna Persichilli
("Fastaff", numero 3, 2004 - da "I Fiati", luglio-settembre 2003)

lunedì, gennaio 20, 2025

Il segno di Claudio

Claudio Abbado (1933-2014)
Il lascito del patrimonio artistico a Berlino (accessibile in realtà), un libro... Documenti inediti e nuove riflessioni illuminano il mondo di un interprete che continua ad avere molto da dirci.


La carriera musicale di Claudio Abbado è durata quasi sessant'anni, un repertorio vastissimo che si estendeva da Monteverdi a Nono. Oggi non solo è possibile ricostruire il percorso artistico di uno dei più grandi direttori del Novecento, ma la cosa importante è che sarà accessibile a chiunque. Daniele, con sua sorella Alessandra Abbado (due dei quattro figli di Claudio), sono i motori della Fondazione Abbado che il 3 marzo scorso ha siglato un accordo con i Berliner Philharmoniker per custodire il patrimonio artistico del padre. Si tratta di 1.746 partiture, 985 spartiti provenienti dalla famiglia del maestro, oltre a registrazioni video, 1.400 cd, 357 monografie, testi di musicologia, fac-similia (ovvero rare edizioni di case editrici, copie anastatiche delle partiture), materiale iconografico, lettere. La Fondazione, di cui è presidente Paolo Lazzati, esecutore testamentario del direttore d'orchestra e amico di famiglia, è stata istituita nel 2014 proprio per preservare nella sua interezza tale patrimonio. Il problema era di garantirne la conservazione e l'archiviazione secondo standard internazionali, e di renderla disponibile al più vasto pubblico possibile.

La scelta sull'eredità artistica di Claudio Abbado è caduta su Berlino per diversi motivi. Li racconta Daniele Abbado: «Quella dei Berliner è l'Orchestra che ha diretto di più nella sua vita, è il luogo della sua maturità, lì ha realizzato quei progetti trasversali fra teatro, pittura e letteratura, a cui teneva molto, in cui tutte le istituzioni collaboravano e dialogavano. Fu un'esperienza entusiasmante. E poi (Claudio (Daniele, come tutti i suoi figli, lo chiama così, per nome, n.d.r.) è stato un artista europeo, Londra, Vienna, Berlino, Lucerna. Ha fondato orchestre giovanili...››. Lazzati aggiunge: «Non volevamo favorire una nazione, dobbiamo essere fieri che Berlino ospiti con il tappeto rosso un esponente della nostra cultura». È un'operazione complessa, che ha un costo di alcune centinaia di migliaia di euro. Berlino è la città che ha offerto maggiori garanzie, e gli artefici dell'accordo tengono a sottolineare che non è stato raggiunto in funzione anti-Scala o anti-Bologna, la città dove negli ultimi anni andò a vivere Abbado. Dietro le indicazioni e i segni di Abbado, c'è un mondo poetico e di affetti. Uno dei primi problemi è stato quello di trovare uno spazio congruo: alla fine del  2017 tutto il materiale sarà raccolto in una stanza della Biblioteca di Stato berlinese che verrà dedicata a Claudio Abbado.

Nel frattempo il lavoro di scansione, di restauro delle partiture e di catalogazione va avanti, dalla fine di maggio dovrebbe essere possibile accedere alla “collezione” anche dall'Italia, attraverso la Bibliomedioteca dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il cui presidente Michele dall'Ongaro dice:
«Non siamo solo un 'istituzione di concerti ma un ente che ha una struttura, un know how e un archivio che raccoglie la Storia della musica››. C'è una persona che, dietro le quinte, ha un ruolo di primo piano in questo  progetto. Si chiama Alessandra Calabrese, 32 anni, ha un master alla Bocconi in management dello spettacolo, ha lavorato alla Scala, è stata l'archivista personale di Abbado (nonché dell'Orchestra “Mozart” da lui fondata) negli ultimi anni della sua vita. Decifrandone i segni, si può risalire alla genialità di questo gigante della musica. Ma cerchiamo di entrare nell'officina di Claudio Abbado, e di carpirne i “segreti”.

Le partiture sono divise in sottosezioni. Quelle tascabili (461) sono suddivise a loro volta in sette box, che il direttore portava con sé ovunque andasse; sono sistemate in scatolette di legno, con vetro in plexiglass, le due maniglie permettevano il trasporto da una città all'altra. Soprattutto le partiture piccole, la cui provenienza era legata a lasciti familiari, sono preservate in modo “artigianale”, usando lo scotch, oppure il direttore le ricuciva con nuove copertine. Il problema è che lo scotch si deteriora facilmente, e lascia brutti segni, così per esempio le partiture dei Concerti n. 3 e n. 5 di Beethoven si sono logorate. Ci sono 1.049 partiture grandi, Abbado le conservava in un sistema di armadi protetti da cinque vetrine in plexiglass: erano le librerie della sua casa a Bologna. Sono partiture legate soprattutto al  repertorio sinfonico, in ordine alfabetico seguendo il nome del compositore e del genere musicale: Sinfonie, Concerti, Messe, e via dicendo. «È stato mantenuto quell'ordine di catalogazione», spiega Alessandra Calabrese, «ma in tempi recenti sono arrivate acquisizioni da altre orchestre, o sono state trovate altre partiture nella casa di Abbado in Sardegna. In futuro potranno essere disposte in coda, secondo un sistema numerico da archiviazione di biblioteca. Poi 179 opere, di cui 57 fuori misura (per le dimensioni) di musica contemporanea: qui trova posto il Prometeo di Luigi Nono››.
Nelle opere del grande repertorio c'è molto Rossini e Verdi (manca del tutto Puccini, fuorché qualche aria incisa con i cantanti). Per La Cenerentola, la revisione critica di Alberto Zedda doveva ancora andare in stampa e Abbado accolse, nella versione di Ricordi, le correzioni di Zedda sulla  partitura con la penna rossa. Abbado invece i segni li faceva tutti a matita, che nel tempo si cancella:  adesso si tratta di creare un percorso di digitalizzazione della partitura che permetta di tenere il segno in modo perenne. Gli anni della Scala rivivono nella Messa da Requiem di Verdi, nei concerti nelle fabbriche, nelle registrazioni, nei periodi d'oro con Pollini, nella nascita della Filarmonica. «Claudio aveva capito che bisognava investire nel recupero, nella salvaguardia, nella conservazione», dice l'archivista.

Uno dei capitoli più affascinanti riguarda i foglietti che raccolgono l'organizzazione delle parti orchestrali. Sono schemi della partitura e riprendono un metodo che Claudio aveva acquisito a Vienna ai tempi degli insegnamenti avuti da Swarowsky. Questi foglietti sono delle prove di memoria, come dei quadri all'interno dei quali si trova, in una sorta di Bignamino, tutta la partitura: i tempi, gli ingressi degli strumenti... «Era molto geloso di questi foglietti che teneva riservati», dice  Alessandra Calabrese. Per ogni partitura si seguono standard legati a data e luogo di esecuzione, e periodo di studio. Nel frontespizio a destra si trovano città e data, a sinistra l'elenco dei concerti. Se sono avvenute più esecuzioni nella stessa città, Abbado aggiungeva una X laterale; nel caso di registrazioni audio-video inseriva la sigla della casa discografica, le aggiunte a volte si riferivano a cambi dei solisti per malattie. La pianista argentina Martha Argerich la  chiamava Martita, con un diminutivo affettuoso, mentre per un altro storico collaboratore e amico come Maurizio Pollini usava nome e cognome.
Sulle partiture si ritrovano le didascalie le correzioni, le indicazioni dinamiche che aiutano a ricostruire i suoi studi, diventano luoghi dell'anima. La varietà dei segni musicali è massima, la loro stratificazione è percepibile all'interno della partitura. Lo studio era costante e ogni volta ricominciava da capo. Anche qui, metteva la X per il primo tipo di correzione, una X col cerchio per la seconda correzione. I segni dipendono dall'orchestra con cui eseguiva il pezzo, e dalla sala in cui teneva i concerti. Sull'orchestrazione era fedele ai compositori. Ma a volte si trovano dei raddoppi e, per fare un esempio, dagli archi le parti durante la prova potevano essere date allo strumento di un'altra famiglia, un modo per far meglio comprendere il tipo di dinamica che si voleva ottenere (spesso per la linea di un pianissimo). Abbado non parlava di correzioni ma di miglioramenti. Questo tipo di indicazioni, o soluzioni, avvenivano dunque durante le prove, ma poteva capitare che in concerto egli facesse dei raddoppi affidando le parti a due strumenti. Le sostituzioni dinamiche venivano sintetizzate con due sigle: EV (sta per eventualmente) e DIV (divisi). Quanto alle indicazioni di tempo, di rado venivano cambiate. La Nona sinfonia di Mahler è una storia a sé. Sulla partitura troviamo riferimenti ritmici e armonici; c'è il lavoro sul silenzio del finale di questo capolavoro, le note che si spengono e sembrano evaporare, quelle note che Abbado voleva in accordo col buio della sala, secondo una esatta percentuale di oscurità, tracciando così il lento diradarsi della luce. E c'è l'idea della morte ripresa dalla partitura di Mengelberg. Il dubbio su cosa ci sia dopo la morte è un tema di cui parlava spesso.
Valerio Cappelli
("Amadeus", Anno XXVIII, Numero 5 (318), Maggio 2016)

mercoledì, gennaio 01, 2025

Ravel: il sublime orologiaio

Maurice Ravel (1875-1937)
Tutte le opere del compositore si presentano in una perfezione formale che non tradisce mai alcuna incertezza, né palese divario tra le intenzioni di una lucida intelligenza e le invenzioni di una fantasia sempre vibrante e inquieta. La scrittura musicale precisa, con minuzie da orologiaio e nostalgie di «ordine» perduto, una «clarté» francese.

Se non fosse stato per Pierre Boulez, che con i suoi saggi illuminanti ha posto in modo polemicamente drastico il problema di una sorta di profetica primogenitura di Claude Debussy nella definizione di alcune caratteristiche della musica del Novecento più autenticamente «moderna», sarebbero ancora molti, fra i musicisti oggi più anziani e fra gli studiosi, quelli che continuerebbero a sentirsi appagati dalla contrapposizione un tempo di moda fra la Scuola di Vienna, con particolare riferimento ad Arnold Schoenberg, e la creatività di Maurice Ravel. Del resto si sa che lo stesso Ravel, che a giudicare dalle testimonianze di chi poté essergli vicino, era tutt`altro che un uomo modesto e remissivo, quando gli era stato chiesto chi fossero a suo avviso i più grandi musicisti del tempo pare che avesse risposto: «Moi et Schoenberg». E di fatto individuava così due poli, diventati in seguito paradigmatici, della civiltà musicale del Novecento, da un lato con le tradizioni mitteleuropee che avevano trovato a Vienna un centro di coagulo sotto l'ala di Schoenberg, ultimo figlio del più disperato individualismo romantico, e dall'altro quello di una Parigi orgogliosamente cosmopolita, dove da tempo giungevano come a una Mecca musicisti di tutto il mondo, che nel Novecento sono il giovane George Gershwin, già celebre negli Stati Uniti, i russi Igor Stravinskij e Sergej Prokofiev e lo spagnolo Manuel de Falla.
Ma il trapianto a Parigi del ragazzo Ravel - la sua famiglia veniva dalla «provincia» di Ciboure, nei Bassi Pirenei, a cavallo con le terre spagnole - era stato meno traumatico di quello che coinvolgerà questi suoi colleghi famosi, perché Maurice, pur conservando sempre qualcosa delle durezze montanare della sua terra d'origine, era di fatto un parigino, perché a Parigi era giunto in fasce, l`anno stesso della sua nascita (7 marzo 1875): al Conservatoire era entrato all'età di nove anni come allievo di pianoforte, poi aveva avuto maestri di armonia, contrappunto e composizione francesissimi come Gédalge e Fauré, per cui avrebbe potuto anche lui ostentare a pieno titolo, non meno di Debussy, l`etichetta di «musicien français» soprattutto per quella «clarté» che sembra essere quasi una mania perfino nelle sue composizioni giovanili. C'è però una sorta di parallelo facilmente verificabile proprio fra gli «opposti» di uno Schoenberg tormentosamente sistematico, quindi incline alla mistica del «numero» e delle sue simbologie profetiche, e la precisione della scrittura di un Ravel, con minuzie da orologiaio e nostalgie di un «ordine» perduto (l'amore per i clavicembalisti francesi del Sei-Settecento, il gusto dei timbri perfettamente differenziati, le idee «chiare e distinte» nella formazione del fraseggio eccetera), pur sentendo il fascino, da pianista, del virtuosismo di Liszt, più ancora che di quello di Chopin, e d'altra parte riconducendolo alle dimensioni di una vera e propria oreficeria sonora, magari anche destinata a cicli di notevoli estensioni e di sublime pazienza decorativa, ma senza farsi prendere dal tumulto enfatico delle passioni.
In fondo, di questo nostro Novecento che a momenti sembra tutto da riscoprire (e da riscrivere, ora più che mai  col secolo che tramonta), questi due poli rappresentati da Schoenberg e da Ravel corrispondevano, prima dell'articolo «iconoclasta» di Boulez per la morte del caposcuola viennese, a uno schema critico che ha appagato intere generazioni: quelle, per esempio, che avvertivano in Debussy e nel suo «impressionismo», specialmente partendo dalle atmosfere di Pelléas et Mélisande, ancora una sorta di trasposizione del misticismo sonoro dell'ultimo Wagner, quindi il lascito estremo e la coda di un tramontante romanticismo (senza più eroi ma anche senza alcuna carica eversiva e di «avanguardia»), piuttosto che lo scopritore rivoluzionario di una musica davvero «nuova» e inaudita, non più considerabile come un «discorso» legato al tempo e alla memoria, ma arditamente proiettata fuori della propria natura storica e addirittura collocabile nello spazio. Né è certo casuale, per esempio, che un musicista come Luigi Dallapiccola, a Schoenberg legato da una profonda devozione morale, e non soltanto per la suggestione che il caposcuola viennese aveva suscitato in lui con le sue opere e i suoi scritti (che andavano incontro a quelle esigenze di rigore etico dalle quali traeva nuovi impulsi, fin dagli esordi, la creatività del maestro istriano), rispecchi profondamente nel suo «modus componendi», e ovviamente soprattutto nelle opere più esplicitamente destinate alla poesia degli strumenti, la lezione di Ravel, che più del linguaggio debussiano gli dava la possibilità di riplasmare in una personale rielaborazione i suggerimenti linguistici e la nuova disciplina di Schoenberg.
In questa possibilità di accostamento di Ravel al caposcuola viennese c'è quanto basta, insomma, per capire come fosse possibile l'idea che il maestro francese fosse in sostanza più «moderno» di Debussy, che era nato tredici anni prima di lui ed era morto nel 1918, senza fare in tempo a portare un contributo determinante (pur anticipandone il clima nei suoi ultimi capolavori di musica da camera) alla stagione del neoclassicismo fra le due guerre, dove invece Ravel sembra muoversi con assoluta sicurezza e con l'originalità di un grande e indiscusso protagonista, distinguendosi ormai nettamente dagli influssi dell`impressionismo di Debussy. E tutto questo accadeva nel momento in cui erano ancora in molti, nel mondo della musica (e non soltanto fra i dichiarati «conservatori», ma anche fra musicisti  non sospetti come lo stesso Stravinskij, e come Bartók e Hindemith), ad avvertire proprio nelle opere dello Schoenberg della maturità il peso e il pericolo di un'intenzionalità teoretica nella quale sembrava talvolta emergere il contrasto fra la sua poetica e i concreti risultati artistici di essa, non di rado faticosi e oscuri.
Al contrario, quel che colpiva in Ravel (anche negli ambienti culturali che non si mostravano inclini a far della Scuola di Vienna l'unico crocevia della musica del Novecento) era la sua infallibilità di prodigioso artigiano dei suoni, che sembrava avergli assegnato un destino quanto mai singolare, anche a paragone dei grandi nomi della storia della musica, nelle cui opere è pur sempre possibile distinguere i capolavori indiscussi dalla produzione «minore».
Perché con Ravel, quale che sia il giudizio che si voglia oggi dare sulla sua incidenza storica nella musica del XX secolo, sembra pressoché impossibile catalogare qualcuna delle sue composizioni fra le «opere minori», ognuna di esse presentandosi in una perfezione formale che non tradisce mai alcuna incertezza, né palese divario fra le intenzioni di una lucida intelligenza e i risultati musicali di una fantasia sempre sottilmente vibrante e inquieta, anche quando i modelli di partenza possono essere di volta in volta chiaramente individuati: nelle memorie di un passato «classico», nelle suggestioni armoniche di Debussy, nel chiarore del virtuosismo di origine lisztiana e nelle suggestioni di un esotismo (quello del jazz, per esempio) che quasi non fa in tempo a proporsi, subito riplasmato com'è dall`orgogliosa consapevolezza di poter tutto tradurre nella luce di una «clarté» tipicamente francese. (Basti pensare al Blues della Sonata per violino e pianoforte del 1927).
Ogni opera di Ravel, dunque, anche quelle che sembrano orientate verso una sorta di castità espressiva, del tutto lontana da possibili filiazioni di tipo romantico, appare sempre nel segno della «bravura»: il che rende senz'altro sorprendente e  curiosa la circostanza che proprio questa caratteristica costante della sua musica, già ravvisabile nelle sue opere giovanili, sia sfuggita alle giurie del «Prix de Rome» che lo respinsero per ben cinque volte. E sono gli anni in cui nascono la prima versione per pianoforte della Pavane pour une infante défunte, i cinque pezzi di Miroirs e il Quartetto in fa maggiore, cioè alcuni dei suoi primi capolavori, oggi entrati a far parte del repertorio corrente, ma al loro apparire accolti invece da diffidenze e resistenze clamorose, tanto da far nascere un «affaire Ravel» che vide in prima linea, fra i difensori del giovane maestro, Romain Rolland.
Si trattava senza dubbio di opere in cui è ravvisabile l'influsso di Debussy, evidente soprattutto nel Quartetto del 1904, che potrebbe essere quasi considerato una sorta  di intenzionale ricalco (per la distribuzione dei tempi, per le scelte della timbrica strumentale e per la qualità delle armonie) del grande modello debussyano. Ma già in questo riferimento così esplicito alla musica di «altri» si avvertono i germi di un'attitudine tipica della fantasia e del virtuosismo compositivo di Ravel: cioè del Ravel «trascrittore» delle proprie opere e tessitore instancabile di trasformazioni di «oggetti sonori» altrui. Perchè la sua diversità e il suo progressivo differenziarsi da Debussy stanno proprio in un atteggiamento che lo porta a una sorta di lucidissimo distacco espressivo: non ci sono abbandoni visionari in lui, non inclinazione alla poesia di immagini indistinte e di sogno, non effusioni sentimentali esplicite, ma piuttosto una sorta di scommessa per render di volta in volta più «perfette» - senza lasciarsi fuorviare da particolari compiacimenti di tipo melodico, e ogni volta puntando piuttosto a portare ogni modulo alle sue estreme conseguenze di metamorfosi - le opere musicali a cui si applica, sue e di altri.
Il tutto, però, senza mai contraddire i motivi di fondo della civiltà francese, nella quale la sensibilità visiva e quella letteraria hanno da sempre (anche nelle opere musicali più «pure» della tradizione clavicembalistica) un peso determinante in una sorta di inseminazione delle opere musicali, che derivano dalle immagini pittoriche e dai suggerimenti della letteratura quasi come ultimo approdo di un processo di «trascrizione», quindi di «perfezionamento» sensibile. Per questo c'è un intreccio continuo fra i capolavori della suprema maestria «sinfonica» di Ravel e le loro radici letterarie e visive, da Ma mère l'oye, il balletto che nasce dalla versione orchestrale dell`omonima suite pianistica (con l`aggiunta del Preludio, della Danze du rouet e di quattro interludi) alla «symphonie choréografique» di Daphnis et Chloé, che fiorisce in teatro ma si trasforma in due suites per orchestra (1909-1912) di fascino irresistibile, dalla Pavane pour une infante défunte, che dal pianoforte si impreziosisce nel suono dell'orchestra ricreando suggestioni visive, ad Alborada del gracioso, che è la trascrizione del quarto dei Miroirs per pianoforte. E lo stesso accade per le Valses nobles et sentimentales pianistiche del 1911, rese ancor più «perfette» nel suono dell'orchestra, e per Le tombeau de Couperin, un ciclo nato sulla tastiera del pianoforte fra il 1914 e il 1917, e poco dopo trasformato, con quattro dei suoi pezzi, in una suite orchestrale. Senza contare le varie versioni sonore che Ravel cura di altri due lavori come il secondo «poème choréografique» La Valse e Boléro; del primo nascono contemporaneamente, una versione per pianoforte solo e una per due pianoforti, e del secondo una trascrizione per pianoforte a quattro mani e per due pianoforti a quattro mani, quasi che Ravel si applicasse a un lavoro maniacale di pulimentazione dei suoi stessi «oggetti sonori». E ci sono poi i grandi capitoli costituiti dalle composizioni per voce e pianoforte (non poche delle quali trascritte anch'esse per voce e orchestra o piccolo complesso da camera, come le stupende Chansons madécasses) e quelle per strumento solista e orchestra, dove il pianoforte è protagonista indiscusso, e capace di un'originalita di linguaggio che certo non ha l'eguale nella Tzigane (anche questa frutto di una trascrizione dal pezzo omonimo per violino e pianoforte), pur tanto piacevole nella perfetta definizione della «natura» del linguaggio violinistico e nella favolosa raffinatezza della partitura. Perché se il grande artigianato di Ravel fa sì che non ci sia un «passo» sbagliato nella musica di un qualsiasi strumento da lui usato (per quel che riguarda il violino gli furono utilissimi i suggerimenti dell'amica Jelly d`Aranyi, dedicataria di Tzigane), certo è che il pianoforte resta sempre il primo arnese di cui si serve per applicarsi al proprio lavoro di sublime orologiaio dei suoni, come dimostrano due capolavori come il Concerto in re per la mano sinistra, che gareggia in arditezze armoniche e timbriche con la Scuola di Vienna (come del resto la sua audace ed enigmatica Sonata per violino e violoncello del 1922), e il Concerto in soldove la voce dello strumento solista è incastonata in una trama più che mai preziosa, e così raffinata da «trascrivere» (ancora una volta) in un purissimo eloquio francese anche le sollecitazioni lontane del jazz americano.
Non è un caso, comunque, che nell'intrecciarsi di «trascrizioni» che caratterizzano l`operosità di Ravel ci sia un documento supremo, che è quasi il suo monumento, quindici anni prima della sua morte (1937): sono quei Tableaux d'une exposition, nati anch'essi da un pianoforte (dal pianoforte «barbaro», da pulimentare, di Musorgskij), che diventano così un autentico autoritratto: dove tutto sembra ricomporsi, passato e presente, Oriente e Occidente, ma nella certezza incontaminata di una bravura sentita ormai come un`ultima salvezza.
Leonardo Pinzauti
("Amadeus", Anno VI, Numero 2 (51), Febbraio 1994)