Maurice Ravel (1875-1937) |
Se non fosse stato per Pierre Boulez, che con i suoi saggi illuminanti ha posto in modo polemicamente drastico il problema di una sorta di profetica primogenitura di Claude Debussy nella definizione di alcune caratteristiche della musica del Novecento più autenticamente «moderna», sarebbero ancora molti, fra i musicisti oggi più anziani e fra gli studiosi, quelli che continuerebbero a sentirsi appagati dalla contrapposizione un tempo di moda fra la Scuola di Vienna, con particolare riferimento ad Arnold Schoenberg, e la creatività di Maurice Ravel. Del resto si sa che lo stesso Ravel, che a giudicare dalle testimonianze di chi poté essergli vicino, era tutt`altro che un uomo modesto e remissivo, quando gli era stato chiesto chi fossero a suo avviso i più grandi musicisti del tempo pare che avesse risposto: «Moi et Schoenberg». E di fatto individuava così due poli, diventati in seguito paradigmatici, della civiltà musicale del Novecento, da un lato con le tradizioni mitteleuropee che avevano trovato a Vienna un centro di coagulo sotto l'ala di Schoenberg, ultimo figlio del più disperato individualismo romantico, e dall'altro quello di una Parigi orgogliosamente cosmopolita, dove da tempo giungevano come a una Mecca musicisti di tutto il mondo, che nel Novecento sono il giovane George Gershwin, già celebre negli Stati Uniti, i russi Igor Stravinskij e Sergej Prokofiev e lo spagnolo Manuel de Falla.
Ma il trapianto a Parigi del ragazzo Ravel - la sua famiglia veniva dalla «provincia» di Ciboure, nei Bassi Pirenei, a cavallo con le terre spagnole - era stato meno traumatico di quello che coinvolgerà questi suoi colleghi famosi, perché Maurice, pur conservando sempre qualcosa delle durezze montanare della sua terra d'origine, era di fatto un parigino, perché a Parigi era giunto in fasce, l`anno stesso della sua nascita (7 marzo 1875): al Conservatoire era entrato all'età di nove anni come allievo di pianoforte, poi aveva avuto maestri di armonia, contrappunto e composizione francesissimi come Gédalge e Fauré, per cui avrebbe potuto anche lui ostentare a pieno titolo, non meno di Debussy, l`etichetta di «musicien français» soprattutto per quella «clarté» che sembra essere quasi una mania perfino nelle sue composizioni giovanili. C'è però una sorta di parallelo facilmente verificabile proprio fra gli «opposti» di uno Schoenberg tormentosamente sistematico, quindi incline alla mistica del «numero» e delle sue simbologie profetiche, e la precisione della scrittura di un Ravel, con minuzie da orologiaio e nostalgie di un «ordine» perduto (l'amore per i clavicembalisti francesi del Sei-Settecento, il gusto dei timbri perfettamente differenziati, le idee «chiare e distinte» nella formazione del fraseggio eccetera), pur sentendo il fascino, da pianista, del virtuosismo di Liszt, più ancora che di quello di Chopin, e d'altra parte riconducendolo alle dimensioni di una vera e propria oreficeria sonora, magari anche destinata a cicli di notevoli estensioni e di sublime pazienza decorativa, ma senza farsi prendere dal tumulto enfatico delle passioni.
In fondo, di questo nostro Novecento che a momenti sembra tutto da riscoprire (e da riscrivere, ora più che mai col secolo che tramonta), questi due poli rappresentati da Schoenberg e da Ravel corrispondevano, prima dell'articolo «iconoclasta» di Boulez per la morte del caposcuola viennese, a uno schema critico che ha appagato intere generazioni: quelle, per esempio, che avvertivano in Debussy e nel suo «impressionismo», specialmente partendo dalle atmosfere di Pelléas et Mélisande, ancora una sorta di trasposizione del misticismo sonoro dell'ultimo Wagner, quindi il lascito estremo e la coda di un tramontante romanticismo (senza più eroi ma anche senza alcuna carica eversiva e di «avanguardia»), piuttosto che lo scopritore rivoluzionario di una musica davvero «nuova» e inaudita, non più considerabile come un «discorso» legato al tempo e alla memoria, ma arditamente proiettata fuori della propria natura storica e addirittura collocabile nello spazio. Né è certo casuale, per esempio, che un musicista come Luigi Dallapiccola, a Schoenberg legato da una profonda devozione morale, e non soltanto per la suggestione che il caposcuola viennese aveva suscitato in lui con le sue opere e i suoi scritti (che andavano incontro a quelle esigenze di rigore etico dalle quali traeva nuovi impulsi, fin dagli esordi, la creatività del maestro istriano), rispecchi profondamente nel suo «modus componendi», e ovviamente soprattutto nelle opere più esplicitamente destinate alla poesia degli strumenti, la lezione di Ravel, che più del linguaggio debussiano gli dava la possibilità di riplasmare in una personale rielaborazione i suggerimenti linguistici e la nuova disciplina di Schoenberg.
In questa possibilità di accostamento di Ravel al caposcuola viennese c'è quanto basta, insomma, per capire come fosse possibile l'idea che il maestro francese fosse in sostanza più «moderno» di Debussy, che era nato tredici anni prima di lui ed era morto nel 1918, senza fare in tempo a portare un contributo determinante (pur anticipandone il clima nei suoi ultimi capolavori di musica da camera) alla stagione del neoclassicismo fra le due guerre, dove invece Ravel sembra muoversi con assoluta sicurezza e con l'originalità di un grande e indiscusso protagonista, distinguendosi ormai nettamente dagli influssi dell`impressionismo di Debussy. E tutto questo accadeva nel momento in cui erano ancora in molti, nel mondo della musica (e non soltanto fra i dichiarati «conservatori», ma anche fra musicisti non sospetti come lo stesso Stravinskij, e come Bartók e Hindemith), ad avvertire proprio nelle opere dello Schoenberg della maturità il peso e il pericolo di un'intenzionalità teoretica nella quale sembrava talvolta emergere il contrasto fra la sua poetica e i concreti risultati artistici di essa, non di rado faticosi e oscuri.
Al contrario, quel che colpiva in Ravel (anche negli ambienti culturali che non si mostravano inclini a far della Scuola di Vienna l'unico crocevia della musica del Novecento) era la sua infallibilità di prodigioso artigiano dei suoni, che sembrava avergli assegnato un destino quanto mai singolare, anche a paragone dei grandi nomi della storia della musica, nelle cui opere è pur sempre possibile distinguere i capolavori indiscussi dalla produzione «minore».
Perché con Ravel, quale che sia il giudizio che si voglia oggi dare sulla sua incidenza storica nella musica del XX secolo, sembra pressoché impossibile catalogare qualcuna delle sue composizioni fra le «opere minori», ognuna di esse presentandosi in una perfezione formale che non tradisce mai alcuna incertezza, né palese divario fra le intenzioni di una lucida intelligenza e i risultati musicali di una fantasia sempre sottilmente vibrante e inquieta, anche quando i modelli di partenza possono essere di volta in volta chiaramente individuati: nelle memorie di un passato «classico», nelle suggestioni armoniche di Debussy, nel chiarore del virtuosismo di origine lisztiana e nelle suggestioni di un esotismo (quello del jazz, per esempio) che quasi non fa in tempo a proporsi, subito riplasmato com'è dall`orgogliosa consapevolezza di poter tutto tradurre nella luce di una «clarté» tipicamente francese. (Basti pensare al Blues della Sonata per violino e pianoforte del 1927).
Ogni opera di Ravel, dunque, anche quelle che sembrano orientate verso una sorta di castità espressiva, del tutto lontana da possibili filiazioni di tipo romantico, appare sempre nel segno della «bravura»: il che rende senz'altro sorprendente e curiosa la circostanza che proprio questa caratteristica costante della sua musica, già ravvisabile nelle sue opere giovanili, sia sfuggita alle giurie del «Prix de Rome» che lo respinsero per ben cinque volte. E sono gli anni in cui nascono la prima versione per pianoforte della Pavane pour une infante défunte, i cinque pezzi di Miroirs e il Quartetto in fa maggiore, cioè alcuni dei suoi primi capolavori, oggi entrati a far parte del repertorio corrente, ma al loro apparire accolti invece da diffidenze e resistenze clamorose, tanto da far nascere un «affaire Ravel» che vide in prima linea, fra i difensori del giovane maestro, Romain Rolland.
Si trattava senza dubbio di opere in cui è ravvisabile l'influsso di Debussy, evidente soprattutto nel Quartetto del 1904, che potrebbe essere quasi considerato una sorta di intenzionale ricalco (per la distribuzione dei tempi, per le scelte della timbrica strumentale e per la qualità delle armonie) del grande modello debussyano. Ma già in questo riferimento così esplicito alla musica di «altri» si avvertono i germi di un'attitudine tipica della fantasia e del virtuosismo compositivo di Ravel: cioè del Ravel «trascrittore» delle proprie opere e tessitore instancabile di trasformazioni di «oggetti sonori» altrui. Perchè la sua diversità e il suo progressivo differenziarsi da Debussy stanno proprio in un atteggiamento che lo porta a una sorta di lucidissimo distacco espressivo: non ci sono abbandoni visionari in lui, non inclinazione alla poesia di immagini indistinte e di sogno, non effusioni sentimentali esplicite, ma piuttosto una sorta di scommessa per render di volta in volta più «perfette» - senza lasciarsi fuorviare da particolari compiacimenti di tipo melodico, e ogni volta puntando piuttosto a portare ogni modulo alle sue estreme conseguenze di metamorfosi - le opere musicali a cui si applica, sue e di altri.
Il tutto, però, senza mai contraddire i motivi di fondo della civiltà francese, nella quale la sensibilità visiva e quella letteraria hanno da sempre (anche nelle opere musicali più «pure» della tradizione clavicembalistica) un peso determinante in una sorta di inseminazione delle opere musicali, che derivano dalle immagini pittoriche e dai suggerimenti della letteratura quasi come ultimo approdo di un processo di «trascrizione», quindi di «perfezionamento» sensibile. Per questo c'è un intreccio continuo fra i capolavori della suprema maestria «sinfonica» di Ravel e le loro radici letterarie e visive, da Ma mère l'oye, il balletto che nasce dalla versione orchestrale dell`omonima suite pianistica (con l`aggiunta del Preludio, della Danze du rouet e di quattro interludi) alla «symphonie choréografique» di Daphnis et Chloé, che fiorisce in teatro ma si trasforma in due suites per orchestra (1909-1912) di fascino irresistibile, dalla Pavane pour une infante défunte, che dal pianoforte si impreziosisce nel suono dell'orchestra ricreando suggestioni visive, ad Alborada del gracioso, che è la trascrizione del quarto dei Miroirs per pianoforte. E lo stesso accade per le Valses nobles et sentimentales pianistiche del 1911, rese ancor più «perfette» nel suono dell'orchestra, e per Le tombeau de Couperin, un ciclo nato sulla tastiera del pianoforte fra il 1914 e il 1917, e poco dopo trasformato, con quattro dei suoi pezzi, in una suite orchestrale. Senza contare le varie versioni sonore che Ravel cura di altri due lavori come il secondo «poème choréografique» La Valse e Boléro; del primo nascono contemporaneamente, una versione per pianoforte solo e una per due pianoforti, e del secondo una trascrizione per pianoforte a quattro mani e per due pianoforti a quattro mani, quasi che Ravel si applicasse a un lavoro maniacale di pulimentazione dei suoi stessi «oggetti sonori». E ci sono poi i grandi capitoli costituiti dalle composizioni per voce e pianoforte (non poche delle quali trascritte anch'esse per voce e orchestra o piccolo complesso da camera, come le stupende Chansons madécasses) e quelle per strumento solista e orchestra, dove il pianoforte è protagonista indiscusso, e capace di un'originalita di linguaggio che certo non ha l'eguale nella Tzigane (anche questa frutto di una trascrizione dal pezzo omonimo per violino e pianoforte), pur tanto piacevole nella perfetta definizione della «natura» del linguaggio violinistico e nella favolosa raffinatezza della partitura. Perché se il grande artigianato di Ravel fa sì che non ci sia un «passo» sbagliato nella musica di un qualsiasi strumento da lui usato (per quel che riguarda il violino gli furono utilissimi i suggerimenti dell'amica Jelly d`Aranyi, dedicataria di Tzigane), certo è che il pianoforte resta sempre il primo arnese di cui si serve per applicarsi al proprio lavoro di sublime orologiaio dei suoni, come dimostrano due capolavori come il Concerto in re per la mano sinistra, che gareggia in arditezze armoniche e timbriche con la Scuola di Vienna (come del resto la sua audace ed enigmatica Sonata per violino e violoncello del 1922), e il Concerto in sol, dove la voce dello strumento solista è incastonata in una trama più che mai preziosa, e così raffinata da «trascrivere» (ancora una volta) in un purissimo eloquio francese anche le sollecitazioni lontane del jazz americano.
Non è un caso, comunque, che nell'intrecciarsi di «trascrizioni» che caratterizzano l`operosità di Ravel ci sia un documento supremo, che è quasi il suo monumento, quindici anni prima della sua morte (1937): sono quei Tableaux d'une exposition, nati anch'essi da un pianoforte (dal pianoforte «barbaro», da pulimentare, di Musorgskij), che diventano così un autentico autoritratto: dove tutto sembra ricomporsi, passato e presente, Oriente e Occidente, ma nella certezza incontaminata di una bravura sentita ormai come un`ultima salvezza.
Leonardo Pinzauti
("Amadeus", Anno VI, Numero 2 (51), Febbraio 1994)
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