Venezia, "Lou Salomé" di Giuseppe Sinopoli |
Giuseppe
Sinopoli si è dedicato alla composizione soltanto per una dozzina di
anni, tra il 1968 e il 1981. Si possono, grosso modo, distinguere tre
maniere nel suo viatico compositivo. Dopo un paio d’anni di
apprendistato, tra modalità arcaicizzanti, prossime alla Generazione
dell’Ottanta, ed elementari articolazioni dodecafoniche, con la
partecipazione ai corsi di Darmstadt si avvicinò alla neo
avanguardia, e a Stockhausen in particolare. Successivamente fu
decisivo l’incontro con Franco Donatoni, il suo maestro per un
triennio, tra il 1970 e il 1973, il periodo in cui il nostro
musicista scrisse le prime opere del suo catalogo ufficiale. In
queste pagine Sinopoli assimila i meccanismi automatici di Donatoni,
il quale teorizzava «la perdita della volontà e della capacità di
distinguersi dalla materia». Ma se
su piano compositivo Sinopoli ubbidiva ai principi sintattici di
Donatoni, nelle sue glosse a commento delle opere andava talora
riscoprendo la voce di irrazionali irrequietezze.
Di
qui l’abbandono di Donatoni e la conquista di uno stile personale,
in cui l’ardita ricerca contrappuntistica e un linguaggio molto
complesso si apriva al fuoco della soggettiva: mi riferisco
soprattutto a tre opere fondamentali, Souvenirs
à la memoire,
Tombeau
d’Armor e
Requiem
Hashshirim del
1976 per quattro gruppi corali a parti reali, che conclude il
rapporto con l’avanguardia e che Sinopoli riprenderà nel finale di
Lou
Salomé,
la sua unica opera teatrale andata in scena alla Staatsoper di
Berlino nel 1981 e ora coraggiosamente ripresa,
dopo un trentennio, dalla Fenice, nonostante l’enorme impegno
produttivo (due orchestre con centotrenta elementi, una decina di
cantanti, un grande coro).
Qui
e nel precedente Tombeau
d’Armor Terzo,
per violoncello e orchestra, che rende omaggio alla tradizione
romantica del concerto solistico, si apre la terza maniera del
compositore: drastico il rifiuto della nuova musica, e sempre più
evidente il rapporto con la storia e con il fine secolo.
Lou
Salomé è
il culmine delle speculazioni teologiche e filosofiche dell’autore.
È,
in certo senso, il suo autoritratto etico e culturale. I personaggi
sono costruiti con citazioni di poeti, filosofi e letterati che fanno
parte del cosmo spirituale del musicista. L’abile librettista Karl
Dietrich Gräwe ne rispetta fedelmente le idee. La protagonista è
Lou Andreas Salomé, la scrittrice psicanalista, allieva di Freud,
messa in relazione con le figure che l’hanno frequentata e amata. È
una drammaturgia simbolica e antinaturalistica, fortemente
speculativa, che sarebbe errato non rispettare sul piano
rappresentativo.
Agiscono
figure allegoriche, espressione di una idea poetica che si muove tra
Jugendstil e espressionismo, le capitali di un mondo onirico che
interessano anche il direttore d’orchestra. Non c’è una
narrazione lineare, né uno sviluppo drammatico: è un teatro a
pannelli, deliberatamente statico, che procede per illuminazioni. Si
succedono singole stazioni teatrali, che evocano momenti della vita
di Lou Salomé, dalla nascita alla morte, senza alcuna pretesa di
esattezza biografica, ove il vero si intreccia con l’inconscio. Nel
destino di Lou si rispecchia la storia culturale tedesca.
La
ricerca di Dio coesiste con una tensione erotica continuamente
contraddetta e elusa.
Gli
incontri documentati con Nietzsche, con Rilke, con l’orientalista
Andreas e con Paul Ree, amico di Nietzsche, sono liberamente
espressi, senza realismo e con lirica intensità.
Di
conseguenza l’apparente mancanza di drammaturgia è in realtà il
segno della modernità dell’opera, nonostante il suo carattere
retrospettivo. Sinopoli rivive i miti del mondo mitteleuropeo tra
Otto e Novecento con totale immedesimazione.
Affiorano
il liederismo mahleriano, i temi notturni del Tristano,
la vocalità tentacolare e l’orchestrazione sontuosa e cameristica
della Lulu
di
Berg. Continuamente ritornante l’appello liederistico, in cui
riemerge la poetica luttuosa del Viandante romantico (si pensi alla
canzone del Servo, come ratifica della disfatta, drammaticamente
affine al lamento dell’Innocente nel Boris).
Né mancano allusioni rapsodiche, barcarola o valzer, prossime al
Wozzeck,
con uno sguardo al Kitsch. L’opera fa un largo ricorso alla forma
del duetto, quale intensificazione sentimentale: lo splendido doppio
duetto del finale primo (Lou – Andreas; Lou – Ree) evoca l’elegia
notturna del Tristano.
Singolari i quadri corali. L’inizio è un inno alla libertà in
Russia nel 1861, l’anno in cui venne abolita la servitù della
gleba, che coincide con l’anno di nascita di Lou, una libertà percorsa
però da ansie e da inquietudini. Le luci si sprigionano dalle
tenebre. L’opera si conclude con un affresco che riprende il
Requiem
scritto
cinque anni prima, uno dei capolavori polifonici del secondo
dopoguerra, percorso da ombre schönberghiane. Questo coro, ora
sostenuto dall’orchestra, è la punta dello sperimentalismo
dell’autore, stilisticamente dissonante con le nostalgie
decadentistiche di Lou
Salomé.
Comunque
una pagina vigorosa, arricchita da un epilogo, in cui la protagonista
rilkianamente aspira al divino e
insieme alla morte. Il secondo atto è meno coerente del primo. Ci
sono aspetti che paiono ancora incompiuti. Soprattutto un lunghissimo
parlato di oltre venti minuti è problematico da realizzare in Italia
(il testo è in tedesco). Ciò però non compromette l’impressione
complessiva. Credo che all’ascolto Lou
Salomé apparirà
come un momento significativo del teatro italiano postpucciniano.
Rimane
aperto un quesito. Come mai Sinopoli ha smesso di scrivere dopo
quest’opera? Certo era molto impegnato come direttore d’orchestra,
ma probabilmente aveva una sfiducia nel comporre, sia per gli
orientamenti della «nuova musica » (espressione che non accettava
più), sia per le tendenze neoromantiche allora diffuse in Germania e
alle quali veniva superficialmente associato. Sinopoli è uno degli
ultimi melodisti, interessato a un’orchestrazione vistosa, ma anche
trasparente, con una conoscenza di tutti i sortilegi del liberty
internazionale e dei deliri espressionisti, tra Schrecker e Berg:
lucentezze nel dramma.
Mario
Messinis (“Venezia, musica e dintorni”, Anno IX, n.44, febbraio
2012)
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