Giuseppe Sinopoli (1946-2001) |
Dante si perde in una "selva oscura", e per uscirne deve attraversare i tre regni dell'oltretomba, venire a contatto con il "mal dell'universo", purificarsene, e disporre la mente a incontrare la verità, solo allora tornerà al mondo: ma ormai il suo "disire e il velle", sensi e volontà, anima sensitiva e anima razionale, istinto e ragione, sono governati dalla Conoscenza dell'"Amor che move il sole e l'altre stelle". Parsifal si perde anche lui in una selva, inseguendo un cigno, e anche lui, per uscirne, deve attraversare un labirinto, incontrare il sogno e la morte, conoscere in fine la vera conoscenza: la foresta del Gral, nel primo atto, è solo la foresta di Amfortas, della colpa, dell'orgoglio che inchioda gli uomini alle apparenze, allontanandoli dalla verità. Il secondo atto è la fantasmagoria di tutte le apparenze: più forte di tutte, quella della donna come pura animalità, come puro, inappagabile desiderio, Kundry-Orgheluse. Il ricordo della madre, che precipita Tristano nel regno della Notte, dov'egli invita Isotta, risveglia invece Parsifal sul punto dell'annientamento: staccandosi dal bacio di Kundry salva se stesso, Kundry e l'umanità, ritornando alle origini, alla madre abbandonata. Ma Wagner non è Goethe: le origini wagneriane, protestanti, non hanno nulla a che vedere con le "Madri" pagane del Faust, le matrici originarie, alchemiche, della Natura. E tuttavia, senza che Wagner possa nemmeno sospettarlo, Parsifal è vicinissimo a quelle misteriose terribili origini.
Giuseppe Sinopoli si smarrisce in una selva di pietra, Venezia, labirinto di terre e di acque, costruito magicamente intorno a una spirale ermetica, il Canal Grande, che attraversa a forma di S i sestieri della città. Sinopoli racconta in questo suo bellissimo libro "Parsifal a Venezia" proprio questo smarrirsi nel labirinto di Venezia, simbolo pietrificato del Labirinto della Conoscenza. Come ogni città magica, o, meglio, sacra, anche Venezia è un Centro sospeso tra la Vita e la Morte, tra Oriente e Occidente: tra il mare, oltre le bocche di Malamocco, e l'isola di San Michele, l'isola dei Morti. A nord il Montsalvat è San Marco, a sud il giardino di Klingsor è il Ghetto. Nel percorrere questo cerchio, smarritosi dopo le prove di Parsifal al Teatro La Fenice, Sinopoli percorre una Via iniziatica di Morte e Resurrezione, come l'uccello divino che dà nome al teatro, e come il giovanetto, puro folle, di cui, a teatro, canta il canto. Il libro è il racconto di questa iniziazione.
Dedicato a Luigi Nono, è anche la confessione di un amore: l'amore della madre, Venezia, città dove Sinopoli è nato. I simboli s'infittiscono. Del resto la scrittura è, sempre, una scrittura di simboli. I cinesi credevano che il mondo andasse ogni volta riscritto: l'interrogazione dell'oracolo - I King - è interrogare la scrittura dell'attimo, ciò che nell'attimo il cosmo ci comunica attraverso la scrittura dei segni ottenuta dal lancio degli steli di bambù. Greci e romani, e noi dopo di loro, credevano invece che il mondo fosse stato scritto una volta per sempre dagli dei, e agli uomini toccasse decifrarlo. In fondo la fisica di Galilei nasce dagli stessi presupposti. Ma non quella di oggi, sospesa a una continua riscrittura del calcolo. Sinopoli, in fondo, anche lui si tiene sospeso tra le due scritture: il simbolo non è solo ciò che si crede nascosto nella Natura, ma anche ciò che la stessa Natura riscopre attraverso l'esperienza dell'uomo che la interroga. E ciò che si scopre, la risposta, o, più esattamente, il responso, è a sua volta un simbolo già scritto, ma che solo si conosce riscrivendolo da capo come non ancora mai scritto.
Dino Villatico
("Repubblica", 8 gennaio 1992)
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