Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
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sabato, marzo 22, 2014

Johannes Brahms: Ein Deutsches requiem

Vienna, Zentralfriedhof
Due lettere a Clara Schumann dell'aprile 1865 contengono i primi cenni di Brahms sulla composizione del Requiem tedesco. Dopo una fugace menzione a "una specie di Requiem che sto vagheggiando" nella prima, che segue l’invio di una riduzione pianistica della futura quarta parte, la successiva presenta all'amica sia il coro introduttivo “senza violini ma accompagnato dall'arpa e altre leggiadrie", che il brano seguente “in do minore e in tempo di marcia". La tonalità di questa pagina, il mirabile Den alles Fleisch, es ist wie Gras, muterà nella versione definitiva in un più inconsueto si bemolle minore, ma l'ampia costruzione del Requiem sembra in quel mese già sufficientemente avviata e il disegno complessivo già definito.
Certo, la raccomandazione di non mostrare a Joachim il pezzo inviatole e il timore di non possedere il coraggio e la volontà per portare a termine il lavoro, testimoniano delle incertezze che si accompagnano alla composizione e del senso di responsabilità con cui ne vive le profonde implicazioni spirituali, Se questo atteggiamento di circospezione critica, tutt'altro che insolito in Brahms, contribuirà a protrarre la stesura dell'opera per ancora un paio d’anni, la corrispondenza con Clara mostra tuttavia come sia probabile che il progetto iniziale risalga assai indietro nel tempo e si sia a lungo e in silenzio sedimentato nella sua coscienza a partire forse, com'è stato suggerito, della intensa emozione per la malattia e la tragica morte di Schumann. E in effetti, otto anni dopo, rinunciando per un istante a quel riserbo del propri sentimenti che in lui trascorre direttamente dal carattere alla musica, rivelerà in una lettera a Joachim quanto "nel segreto del suo cuore" il Requiem appartenga intimamente all'amico scomparso.
Ma l'ulteriore e decisivo elemento dl determinazione deve essere state il dolore per la scomparsa delle madre, nel febbraio dl quello stesso 1865, se è vero che nella cerchie degli amici più cari non esistevano dubbi su una segreta dedica del lavoro alla sua memoria, Brahms tenne per sé l'espressione di affetti così privati, con la sola ammissione esplicita per una pagina aggiunta successivamente alla prima esecuzione: il brano poi divenuto la quinte sezione, dove già le parole del profeta lsaia, pronunziate dal coro, appaiono tanto affettuosamente trasparenti: “Ich will euch trösten, wie einen seine Mutter erlröste!" (“Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò"). Di qui il tono di dolce intimità, la delicata tenerezza che rischiara questo episodio, con i legni che fanno da contorno all'esordio della voce, e il trasparente sovrapporsi del coro e del soprano solista su testi differenti, in una confidente fusione fra la promessa del ritorno e la speranza della consolazione. Sono pagine come questa, con la loro fervida e segreta espressione, e dove l'empito costruttivo lascia interamente spazio all'intimismo del Lied, che fanno pensare al Requiem tedesco come a un grande Liederkreis religioso.
La cautela che conduce Brahms a chiedere consiglio agli amici e magari a paventarne il giudizio, non sembra tuttavia aver agito nel confronti del testo poetico, Una composita e magistrale scelta di versetti biblici della versione tedesca - da sola un capolavoro di coerenza espressiva - che si avvale dl una quotidiana dimestichezza con le Sacre Scritture per tracciare un personale itinerario meditativo sul tema della morte, In questo il Requiem non soltanto rende giustizia all'appellativo “tedesco“, ma ci mostra profondamente radicato in un humus luterano. (Nella sostanza, e non alla lettera va interpretata la sua affermazione secondo cui avrebbe volentieri omesso quell'aggettivo per sostituirlo semplicemente con "umano".)
Allo spirito della Riforma, e anzi a uno del capisaldi stessi del luteranesimo si ispira l’atteggiamento che lo guida: il confronto fra l'uomo e Dio, fra l’uomo e la parola di Dio rifiuta qualsiasi mediazione e privilegia l'autonomia di una interpretazione individuale. L’idea di un libero esame delle Scritture è il presupposto della sua accurata ricerca di passi biblici, e in essa la soggettività della scelta e tutt'uno con il carattere oggettivo che l'autorità del testo assicura. Entro questa linea di continuità con la tradizione protestante il Requiem tedesco esprime una spiritualità certamente lontana dagli intenti religiosi della liturgia, ma non esclusivamente circoscrivibile nell'ambito di un umanesimo laico.
Non vi trova posto, tuttavia, il pessimistico sentimento luterano della colpa, me tanto meno la visione cattolica del giudizio, l'immagine del Dies irae. Nella sesta sezione, che contiene gli unici momenti di violenta tensione emotiva, drammatica è assai più la potenza con cui si esprime la certezza della resurrezione che l'angoscia al terrore della morte. Alla domanda incalzante e quasi in tono di sfida del coro "Hölle, wo ist dein Sieg?" ("Dov’è, o inferno, la tua vittoria?"), risponde la fuga più assertiva e trionfante fra le altre che il Requiem annovera, chiudendo in una gloriosa affermazione della potestà divina.
Ogni riferimento alla figura del Cristo è intenzionalmente omesso. A Karl Reinthaler, teologo e maestro di cappella del duomo di Brema, che esprimeva le proprie obiezioni sull'assenza di ogni elemento religioso confessionale, replicava di aver rinunciato di proposito a un passe come quello del Vangelo di Giovanni: "Infatti Dio ha tanto amato il mondo, da dare il Suo Figlio Unigenito, affinché ognuno crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna". Non è infatti la speranza nell'ultraterreno il senso dominante del Requiem, ma la rassegnazione al cospetto della morte, l'accettazione serena e malinconica del destino degli uomini.
Fu il ricordalo Reinthaler a preparare con cura amorevole la prima esecuzione, poi diretta dallo stesso Brahms, con enorme successo, il 10 aprile 1868 (ma senza l'attuale quinta sezione, composta in seguito, come s’è detto). L'accoglienza trionfale, preceduta da un'attesa degna di un grande evento, segnò il definitivo ingresso dell'autore nel novero dei maggiori compositori europei dell'epoca. Ma un'esecuzione parziale, a Vienna, dei primi tre movimenti, nel dicembre dell'anno precedente, aveva suscitato non pochi dubbi e riserve. Pare si dovessero imputare alla foga eccessiva con cui il timpanista eseguì, coprendo le voci e l'orchestra, l'interminabile pedale di re che sostiene la monumentale fuga conclusiva del terzo brano, Un passo su cui lo stesso Hanslick non nascondeva le proprie perplessità.
Anche in questa terza sezione, la maestosa costruzione contrappuntistica finale interviene come ferma replica agli accenti di più accorata implorazione con cui il solista si interroga "Nun, Herr, wes soll ich mich trösten?" (“Ora, che attendo, Signore?"), al termine della sua preghiera responsoriale con il coro sul tema della nullità umana di fronte a Dio.
Appare in evidenza in questi grandi finali fugati un’attrazione per il “grande stile" che non deriva in linea diretta da Beethoven, come vorrebbe, non senza una punta malevola, Nietzsche, ma trae la sua origine, sfiorando soltanto l'esempio della Missa solemnis, in Bach e soprattutto Händel. Ma se il grande stile severo e affermativo di questi squarci apre con i suoi magistrali valori costruttivi al versante teologico, alla celebrazione della gloria divina, la natura più affascinante e personale del Requiem è tuttavia nella penetrante dolcezza autunnale delle sue pagine più raccolte. La sua essenza più autentica si svela nella sonorità morbida e dimessa consegnata dalle viole e dai violoncelli alla  rima sezione, some sfondo alle sue celestiali polifonie corali; nel beatifico rischiararsi della luce e nel timbro crepuscolare di un clarinetto della quarta, nel reclinante arco melodico che avvolge l'ultima, trascorrendo attraverso gli strumenti dell'orchestra, in un clima di estatica serenità.
Protagonista genuino della mesta poesia di questa musica, del suo raccoglimento meditativo, è il coro, la voce collettiva di un'afflizione e di un lutto che trova espressione di conforto, prima ancora che nella fede, nell'identificazione di un destino che tutti accomuna. Nella scrittura corale del Requiem, nelle sue distese polifonie, nella spaziosa trasparenza degli intrecci contrappuntistici così aderente all'espressione emotiva del testo e attenta a conservarne una piena comprensibilità, Brahms fa tesoro di un'esperienza maturata come direttore di cori già a Detmold e ad Amburgo, poi alla Viennese Singakademie In essa il suo attaccamento alla tradizione degli antichi maestri si spinge oltre Bach, e risale fino a Schütz, a Orlando di Lasso e Palestrina, Così il Requiem tedesco realizza per la prima volta e in quella che resterà la sua opera più monumentale, una fusione fra pensiero vocale e pensiero strumentale.
Il momento più intenso di questa compenetrazione fra il coro e l'orchestra si compie nel secondo episodio, da annoverare fra gli esiti più alti della sua creatività. La severità si spoglia di un canto all'unisono e il tono elegiaco che si sprigiona da una figura melodica di stupefacente bellezza, si uniscono in un procedere prima solenne poi carezzevole sopra un inesorabile andamento di marcia funebre. Nella successiva ripetizione strofica, un impressionante crescendo orchestrale si anima di uno straordinario empito rappresentativo, ai limiti di una figuratività visionaria. Lo scenario del Requiem appare qui progressivamente investito da un oscuro e imponente corteggio di anime, mentre più oltre, nell'esultanza della strofa finale, aperta dalla profetica promessa di un ritorno degli “Erlöseten der Herrn" (“i riscattati dal Signore"), un'altra marcia corale echeggia medievalismi da Maestri Cantori.
Ma la fragilità dell'esistere, l'inaridirsi di ogni splendore della vita e ancora al cuore di questa pagina eccezionale. Se in essa, come in tutto il Requiem, non si distillano le essenze più amare della rinuncia, quali i testi dell’Ecclesiaste ispireranno agli estremi Vier ernste Gesänge, è perché la morte non ü ancora vissuta come personale nemica. Nel tono elegiaco che si distende sul grande lavoro Brahms non ignora il rimpianto, ma padroneggia il sentimento della morte con la stessa critica saggezza con cui interpreta la vita.
 
Ernesto Napolitano (1989)

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