Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
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domenica, agosto 31, 2014

Peter Gabriel: tra fiabe e Reald World

Peter Brian Gabriel (13/02/1950)
Se da leader dei Genesis aveva saputo creare una peculiare forma di art-rock progressivo dalle forti tinte teatrali, da solista Peter Gabriel non è stato da meno, sviluppando un'ambiziosa ricerca sull'integrazione tra elettronica e world music che lo ha portato a realizzare dischi innovativi e sperimentali, destinati a influenzare due decenni di musica. Artista impegnato in ambito sociale e politico oltre che musicale, Gabriel ha inoltre contribuito attraverso la sua etichetta Real World, a far conoscere al pubblico le opere di musicisti "etnici" provenienti da ogni angolo del pianeta con una particolare attenzione al Terzo Mondo.
Abbandonati i Genesis a un destino gramo in cui le canzonette di Phil Collins prenderanno il sopravvento sulle ingegnose suite degli anni Settanta, Peter Gabriel intraprende la sua avventura solista a partire dall'omonimo album del 1977, forte della ballata folk di "Solsbury Hill" e della lugubre profezia di "Here Comes The Flood" impreziosita dalla chitarra di Robert Fripp. E il leader dei King Crimson è anche l'ispiratore del secondo disco Gabriel 2, un lavoro più sperimentale che si concede perfino divagazioni hard-core come "DYL" e tenta nuove contaminazioni elettroniche, grazie anche all'uso del Fairlight, il synth-computer che domina gran parte degli arrangiamenti.
Più maturo Gabriel 3 annovera una manciata di ballate elettroniche pervase da una concezione tetra e pessimista sul futuro dell'umanità. La più suggestiva è "Games Without Frontiers", filastrocca sinistra che evoca presagi di guerra. Ma il disco sfoggia anche altri gioielli, come la serrata, angosciante "I Don't Remember" e la struggente ode a "Biko" martire della lotta contro l'apartheid in Sudafrica, arricchita da una strumentazione etnica quantomai variegata (tamburi marziali, coro africano, cornamuse scozzesi etc.).
Il quarto album, passato alla storia anche come Security, accentua la componente folk e le sonorità da "musique concrete" ma si avvale anche di un uso straniante del sintetizzatore e di ritmi sempre più incalzanti. Ne è un saggio il funky elettronico di "Shock The Monkey" (uno dei suoi massimi hit) e l'incedere meccanizzato di "I Have The Touch".
Tra i brani più ambiziosi, "San Jacinto" che sfrutta un uso ossessivo e straniante delle percussioni, e l'inno finale di "Wallflower", che svela la filosofia politica dell'intero lavoro.
E' in questo periodo che Gabriel inizia anche a comporre colonne sonore per il cinema. Una delle più ambiziose è quella incisa per Birdy di Alan Parker (1985), insieme a Jon Hassell (uno dei padri della world-music), Larry Fast, David Rhodes e Tony Levin.
Il grande successo internazionale arriva nel 1986 con So, un lavoro che mescola gli esperimenti dei dischi precedenti con sonorità più funk e commerciali, come negli hit "Sledgehammer" e "Big Time". Ma le vere gemme del disco sono la cupa profezia di "Red Rain", la tenera elegia di "In Your Eyes" e lo struggente duetto con Kate Bush in "Don't Give Up", che riescono abilmente a tenere insieme tecnologia elettronica, melodie pop e sapori etnici.
Il vero capolavoro della carriera solista di Peter Gabriel è però un'altra colonna sonora, Passion, realizzata per il film di Martin Scorsese "L'Ultima Tentazione di Cristo". Un'opera sincretica, in cui Gabriel veste i panni di un Brian Eno della world music, attingendo a un'infinità di suoni folk, originari soprattutto dell'Asia e dell'Africa, e rielaborandoli in studio. Collaborano alla realizzazione del disco musicisti provenienti da paesi lontani quali Pakistan, Turchia, India, Costa d'Avorio, Egitto, Bahrain, Nuova Guinea, Marocco, Senegal e Ghana. Spiccano, in particolare, il violino di Shankar, i vocalizzi di Yossou N'Dour, il flauto egiziano di Kudsi Erguner, le tabla di Hossam Ramzy, le percussioni di Fatala. "Per quasi tutti lavorare su quel materiale era una novità assoluta, eppure ne rimasero entusiasti - racconta Gabriel -. La colonna sonora è permeata dallo spirito delle loro performance". Il disco è costruito in crescendo, in un'ascensione ideale dal tribalismo pagano più sfrenato fino al misticismo arabo e orientale, per approdare alla solennità della passione cristiana. "Scorsese voleva mostrare la lotta tra il lato umano e divino in Cristo in modo forte e originale - spiega Gabriel - mi impressionò il suo coinvolgimento nel contenuto spirituale del progetto. Lavorare con lui è stata un'esperienza fantastica". Le tracce di Passion raccontano questo conflitto attraverso meditazioni mistiche ("Gethsemane", "Lazarus", "In Doubt", "Before Night Falls") e sinfonie marziali alla Wagner ("It Is Accomplished"), tribalismi raga ("Feeling Begins") e trascinanti canti della giungla ("A Different Drum"), spettrali litanie arabe ("Of These Hope") e digressioni minimaliste ("Zaar"), inni mantra ("Open") e melodie struggenti alla Morricone ("With This Love"). L'apice mistico del disco è la title track, in cui il canto da muezzin di Gabriel si unisce al soprano solenne di Nusrat Fateh e ai vocalizzi inconfondibili del senegalese Youssou N'Dour. La tromba minacciosa di Hassell, la cadenza serrata delle percussioni e l'intreccio cupo delle tastiere contribuiscono ad acuire il clima solenne, da liturgia universale. Passion, debutto di Gabriel con la sua Real World, vince un Grammy come "miglior disco new age" dell'anno, riuscendo anche a entrare nelle classifiche di Usa e Gran Bretagna.
La nascita della world music targata Peter Gabriel si accompagna negli anni alla produzione di una moltitudine di dischi per musicisti del Terzo Mondo e a una serie di progetti internazionali come il Womad (World Of Music, Arts And Dance), creato per dare visibilità in Occidente alle tradizioni dei luoghi meno conosciuti del mondo e trasformato in appuntamento annuale itinerante.
Il successivo Us è un album più intimista e personale, frutto amaro del fallimento del matrimonio di Gabriel (la cui nuova partner è l'attrice Rosanna Arquette). Il suono mescola il pop-funk tecnologico di So e il sincretismo etnico di Passion, grazie anche all'opera dei fidati Levin (basso) e Rhodes (chitarre) e di una schiera di musicisti folk. Nascono così la cupa desolazione di "Digging In The Dirt", ma anche l'appassionata invocazione di "Come Talk To Me" e la delicata elegia di "Blood of Eden" (entrambe interpretate da Sinéad O'Connor), o ancora la struggente ballata di "Love To Be Loved" (con Brian Eno) e la sonata per piano di "Washing Of The Water".
Negli anni successivi Gabriel si concentrata soprattutto sullo sviluppo del progetto Real World, fino al 2000 quando esce Ovo, pomposa opera rock con una variegata gamma di stili e di strumenti: dalle percussioni ai sintetizzatori, dai violini indiani ai ritmi techno, dalle melodie celtiche a sprazzi di musica industriale. E' una favola futuribile, dove i protagonisti rispecchiano l'ambizione dell'essere umano di governare la natura a costo di distruggerla. Tre generazioni di una famiglia si muovono attraverso un tempo indeterminato, raffigurato attraverso tre stadi: preistorico, industriale e tecnologico. "Ovo" sarà l'ultimo rappresentante della famiglia, colui al quale verrà affidato il compito di raggiungere l'equilibrio tra il sapere tecnologico e quello morale. Una favola con intenti ambientalisti di facile presa, dove è la musica a dare profondità e prospettiva alla storia. Accanto a Gabriel, voci e musicisti di valore come Richie Havens, indimenticabile performer di Woodstock, Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins, Neneh Cherry e Paul Buchanan cantante dei Blue Nile, ma anche Jocelyn Pook autrice di alcune delle musiche della colonna sonora di "Eyes Wide Shut" di Stanley Kubrick e il maestro del flauto di Ney, l'egiziano Kudsi Erguner.
L'attesissimo Up (2002) delude in buona parte le aspettative di pubblico e critica. Il singolo "The Barry Williams Show" è un motivetto banale, quasi una copia sbiadita della gloriosa "Shock The Monkey". Ma anche le sperimentazioni sparse qua e la all'interno del disco non colgono nel segno. "Sky Blue", ad esempio, è tanto accattivante quanto scontata; "My Head Sound Like That" e "More Than This", pur curatissime nell'arrangiamento, non riescono ad emozionare. Fanno meglio, semmai, l'iniziale "Darkness" che parte con una marcia alla King Crimson per poi lasciare spazio a una bella melodia per piano e voce, "Growing up", in cui il mellotron introduce una progressione ritmica contagiosa, le due ballate "No Way Out" e "I Grieve", intense e malinconiche nella miglior tradizione di Gabriel, e infine "Signal To Noise", apice "etnico" del disco, capace di sposare gli orientalismi di Passion (affascinante il cantato di Nusrat Fateh Ali Khan) con il sinfonismo più epico e teatrale. Ma resta l'impressione che Gabriel abbia tentato di sopperire con la cura certosina degli arrangiamenti una carenza compositiva già emersa con il precedente Ovo.
Nel 2008 esce a nome Peter Gabriel Big Blue Ball è il frutto di tre anni di jam, session e incontri avvenuti a inizio Nineties sotto la supervisione del compositore inglese. A passare per gli studi Real World, un campionario degli artisti accasati presso l'etichetta di Gabriel e un discreto numero di nomi di spicco in ambito world music e dintorni.
L'album era rimasto nel cassetto per il lungo lavoro di riordino e produzione. Il risultato di quindici anni di rimaneggiamenti è un disco artificioso quando non direttamente kitsch, che segue Ovo e "The Imagined Village" nell'elenco delle delusioni all-stars licenziate recentemente da casa Real World.
Molti pezzi scommettono tutto sul suono, trascurando l'aspetto compositivo. Tra i restanti, qualcosa si salva. Ecco allora "Habibe" (Natacha Atlas, Hossam Ramzy, Neil Sparke), arabesco suadente di fumi minori armonici, archi e pulsazioni chill-out. "Exit Through You" (Joseph Arthur, Peter Gabriel, Karl Wallinger), piacevole filastrocca funky più consueto stacco atmosferico/enfatico. Poi Sinéad O'Connor che canta "Everything Comes From You", una conta che evolve in morboso rimuginamento amoroso e si spegne su un gioco ossessionante di botta-e-risposta vocali. Poco possono, invece, Billy Cobham, Jah Wobble, Vernon Reid per risollevare i brani che li vedono coinvolti.
In attesa del nuovo album di inediti, a inizio 2010 arriva Scratch My Back. È un album di cover: dodici brani per altrettanti artisti che si impegneranno, a loro volta, a realizzare una versione di un pezzo di Gabriel. Alcune scelte non stupiscono: Paul Simon, David Bowie, Talking Heads, Elbow. Altre sono meno facili da indovinare, e denotano una certa attenzione di Gabriel verso il panorama attuale: Arcade Fire, Bon Iver, Radiohead, Regina Spektor.
Il disco è interamente orchestrale e dominato da un'atmosfera scura, perfino post-apocalittica. Le emozioni appaiono lontane, slavate; la rassegnazione pervade voce e note in un connubio impossibile di intensità e atarassia.
Come nella desolazione degli ultimi Talk Talk, anche qui filtra di tanto in tanto un po' di luce. Guizzi di calore, mulinelli che nascono come per incanto e in un attimo si dissolvono, lasciando nell'aria un vago sentore di magia.
Su New Blood (2011) Gabriel rielabora 14 opere autografe con l'ausilio di un'intera orchestra, badando bene a sottrarre dal gioco sia chitarre che batterie. Non c'è più rock, non c'è più sangue, o meglio, è un nuovo sangue quello che sgorga da queste tracce mistificate ad uso e consumo di quel settore d'attenzione degli esperti di marketing che rientra sotto l'antipatico nome di "adult contemporary". Non è musica per giovani, sono daddy's songs, canzoni per agiati e imborghesiti padri di famiglia (vedi "Wallflower").
Riascoltare le arrampicate vocali di "The Rhythm Of The Heat" è emozionante sempre come la prima volta, ma qui è un ritornare su campi noti, che nulla aggiungono alla grandezza dell'artista di Bath. E sorbirsi un disco intero di saliscendi di archi e fiati non è così gradevole per chi puntò tutto sugli schiaffoni di "The Knife", sull'infinita "Supper's Ready" o sull'imprescindibile ending di "The Musical Box": ah, benedetta gioventù!
In alcuni casi ci troviamo di fronte a partiture impegnative che vanno a costituire situazioni in grado di discostarsi notevolmente dagli originali, con in più il pathos di un'intera orchestra a disposizione. Ma "Intruder", privata del ritmicismo iniziale, perde tutta la sua straordinaria forza d'impatto, "In Your Eyes" resa in quel modo diventa una canzone terribilmente normale, "Mercy Street" fatichiamo a evitare di skipparla, durante l'ascolto di "Red Rain" e "Don't Give Up" ci vien quasi voglia di interrompere l'agonia, per non parlare dell'accoppiata "The Nest That Sailed The Sky"/"A Quiet Moment", che arriva a totalizzare circa nove minuti di quasi assoluta inutilità.
Magari viste dal vivo, nel tour di qualche mese fa, queste versioni sarebbero state anche vagamente coinvolgenti, ma sul disco non riescono a lasciare il segno. Uno degli ultimi colpi di coda di un artista che, ahimè, pare davvero non avere più nulla (di nuovo) da dire.
 
Claudio Fabretti (www.ondarock.it)

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