Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, dicembre 20, 2014

Abbado interprete mahleriano

Claudio Abbado (1933-2014)
Nel repertorio di Claudio Abbado Mahler è una presenza costante ad altissimi livelli, almeno dal 1965: credo che di una specifica congenialità del direttore milanese per la musica di Mahler si possa parlare fin dall’epoca dei suoi primi successi internazionali. L’origine della sua confidenza con Mahler (e, vorrei aggiungere, con Berg, Schönberg, Webern) non ha radici italiane, e va probabilmente cercata piuttosto nel periodo della formazione viennese, dello studio con Hans Swarowski (1956). E non va separata dall’interesse per la musica nuova, per la ricerca musicale contemporanea. Su ciò dovremo ritornare. Fra i direttori italiani delle generazioni precedenti soltanto Bruno Maderna (1920-73), che nonostante l’intensissima attività direttoriale ci appare oggi in primo luogo come un compositore che dirigeva, aveva una analoga consapevolezza della grandezza di Mahler all’epoca della giovinezza di Abbado. Gli altri italiani che a Mahler si sono dedicati intensamente, come Giuseppe Sinopoli o Riccardo Chailly, appartengono alle generazioni seguenti. La formazione di Abbado è del tutto indipendente da quella di Maderna; ma anche nel caso di Abbado lo scavo nel mondo di Mahler si compie in una prospettiva aperta con la massima attenzione alla ricerca delle avanguardie storiche e dei protagonisti dei decenni successivi, fino a Ligeti o Berio o Nono o Rihm.
Con una sinfonia di Mahler, la Seconda, Abbado ebbe uno dei suoi primi successi internazionali, al Festival di Salisburgo nell’agosto 1965 (due anni dopo aver vinto a New York il Premio Mitropoulos, sette dopo il Premio Kussevitsky): quel concerto era anche il suo debutto con i Wiener Philharmoniker. Nel 1966 diresse la Sesta al Festival di Edinburgo, e nel 1968 assunse la direzione stabile dell’Orchestra della Scala. In questa veste diede un contributo determinante alla programmazione della stagione sinfonica, e subito progettò l’esecuzione di tutte le sinfonie di Mahler nell’arco di tre stagioni. Egli stesso diede inizio a questo ciclo alla Scala il 12 giugno 1969: diresse la Sesta insieme con il Quarto di Beethoven, poi nel 1970 la Terza e nel 1971 la Seconda. Era la prima volta, in Italia, che tutte le sinfonie di Mahler venivano programmate in modo organico, e mi pare significativo che si intrecciassero con il ciclo dedicato ad Alban Berg, il compositore viennese in cui l’eredità di Mahler è riconoscibile nel modo più diretto. Un solo esempio: nell’arco di pochi mesi il pubblico della Scala ebbe modo di ascoltare in giugno la Sesta di Mahler e in ottobre i Tre Pezzi op.6 di Berg, sempre diretti da Abbado e allora in Italia di rarissima esecuzione. Sebbene le sinfonie di Mahler (e i Lieder con orchestra) fossero affidate a direttori diversi e distribuite in tre stagioni di dodici o tredici concerti ciascuna, non pochi scrissero, allora, che lo spazio dedicato a Mahler nelle stagioni sinfoniche della Scala era eccessivo e troppo concentrato.
Di ciò oggi si può sorridere; ma ho voluto ricordarlo per far comprendere che la proposta di Abbado allora non era né ovvia né scontata: la Mahler Renaissance, iniziata negli anni Sessanta, si era manifestata in Italia nell’attività di studiosi come Luigi Rognoni o Ugo Duse, e nella traduzione del saggio di Adorno (dovuta a Giacomo Manzoni, 1966); ma nella concretezza della vita musicale le esecuzioni erano ancora abbastanza rare, e il ciclo voluto da Abbado alla Scala fu un contributo di grande rilievo. La morte prematura impedì a Bruno Maderna di proseguire le sue proposte mahleriane guidando l’Orchestra Sinfonica della RAI di Milano, di cui era divenuto direttore stabile nel 1971. Soltanto nel 1984-85, in un clima completamente mutato per ciò che riguarda l’ormai consolidata fortuna di Mahler, ci fu una nuova esecuzione completa delle sinfonie in Italia, a Venezia, con l’Orchestra della Fenice diretta da Eliahu Inbal.
Non intendo ora qui proporre degli elenchi e una cronologia per dare un’immagine completa della presenza di Mahler nell’attività di Abbado; ma vorrei ricordare almeno qualche fatto significativo per mostrare come dopo il concerto salisburghese con i Wiener nel 1965 la musica di Mahler sia stata spesso legata a momenti importanti della carriera del direttore milanese. Nel 1978, quando fu creata la European Community Youth Orchestra, Abbado dedicò la prima tournée alla Sesta di Mahler. Del 1987 è la fondazione della Gustav Mahler Jugendorchester, che emblematicamente prende nome da lui, perché aperta, fra l’altro, a paesi dell’antico impero asburgico. Nel 1988 le due orchestre giovanili furono riunite a Berlino nella Terza di Mahler, che era stata scelta da Abbado anche per il primo concerto della Filarmonica della Scala, da lui ideata nel 1982.
Nel 1985 Abbado, nella veste di direttore principale della London Symphony Orchestra, promosse a Londra un festival intitolato “Mahler, Vienna e il Ventesimo Secolo”, che fu affidato per la direzione a Hans Landesmann ed ebbe tra i consulenti anche Donald Mitchell (che su queste manifestazione ha scritto una testimonianza entusiastica nel volume su Abbado a cura di Ulrich Eckhardt). Per esempio nel concerto di apertura i filtratissimi echi mahleriani di Lontano di Ligeti precedevano il Concerto per violino di Berg e la Prima di Mahler. E nel programma del Festival c’erano, fra gli altri, Schönberg, Webern, Nono, Rihm.
La concezione del Festival londinese va ricordata qui perché ci offre l’occasione per ritornare su un argomento a cui ho accennato all’inizio: Abbado conosce a fondo e sa mettere in luce nella musica di Mahler gli aspetti che ce lo rendono più vicino, che ne fanno uno dei protagonisti del Novecento. Devo subito precisare che le interpretazioni mahleriane di Abbado non impongono questa consapevolezza in modo unilaterale e non hanno caratteri dimostrativi intenzionalmente ostentati. Sono interpretazioni totali, frutto di uno scavo analitico straordinariamente acuto e approfondito, ma aperto a tutti gli aspetti della poetica di Mahler, a quelli legati alla tradizione come ai presagi, ad esempio, di Berg e dell’Espressionismo, nella consapevolezza della peculiarità, della specificità della coesistenza, nella poetica di Mahler, di volti diversi, di memorie struggenti del mondo del primo Romanticismo come di apocalittiche visioni. La chiarezza e la profondità della penetrazione analitica di Abbado sanno cogliere con rara esattezza la complessità, le tensioni, le lacerazioni o le ambivalenze del denso fluire, dilatarsi e gesticolare degli organismi sinfonici mahleriani. La vocazione a evitare ogni esteriorità retorica, la ricerca di prosciugata essenzialità, di nitidezza, che pure appartengono alla personalità interpretativa di Abbado si uniscono in lui allo scavo analitico traducendosi in una peculiare tensione. Proprio la convergenza di scavo analitico, nitida e prosciugata ricerca di essenzialità, tensione incandescente, proprio l’insieme di questi aspetti determina la profonda congenialità di Abbado nei confronti di Mahler, la sua capacità di cogliere a fondo gli aspetti più complessi e inquietanti del suo mondo, diciamo pure anche quelli più moderni.
Come si è già detto, il rapporto di Abbado con Mahler si rivelò subito di grande rilievo, fin dai successi delle interpretazioni della Seconda e della Sesta, e trovò continue conferme man mano che, nell’arco di poco più di un ventennio, Abbado accolse tutte le sinfonie di Mahler nel suo repertorio, con lenta e graduale conquista. Anche le registrazioni furono compiute in tempi lunghi, tra il 1977/78 della Seconda e il 1995 dell’Ottava: di alcune sinfonie (Prima, Seconda, Terza, Quinta, Settima e Nona) esistono registrazioni diverse: con l’eccezione della Seconda le registrazioni più recenti sono legate al periodo della collaborazione con i Berliner e in particolare le ultime, Terza, Settima e Nona, sono dal vivo del 1999 e del 2001. Le differenze esistono e rivelano, mi sembra, delle affinità fra loro, come se si riconoscesse una linea di tendenza generale; ma in complesso mi sembrano meno importanti degli aspetti comuni, della continuità che pur con mutamenti caratterizza le linee d’insieme della ricerca interpretativa di Abbado in Mahler. Sia pur in termini piuttosto approssimativi direi che le differenze tra le registrazioni mahleriane della piena e della avanzata maturità sono meno evidenti e nette di quelle che separano, ad esempio le registrazioni di Abbado delle sinfonie di Beethoven. Non parlerei di un ripensamento radicale, ma di approfondimento di alcune scelte, in una direzione sempre più prosciugata, talvolta con tempi più serrati.
Sappiamo che con la sinfonia Mahler intendeva “costruire un intero mondo” e dava voce alla complessità e molteplicità di una esperienza del reale aperta e frantumata, con un’ansia demiurgica carica di prepotente energia. Nel manifestarsi di quella energia, di quell’ansia demiurgica alcuni sottolineano i legami con la tradizione ottocentesca: ciò vale per gli studiosi (ad esempio nel caso di Constantin Floros) come per gli interpreti. Di fronte agli aspetti dell’opera di Mahler che sembrano in qualche modo vicini al gigantismo di fine secolo, all’eclettismo o addirittura al Kitsch le soluzioni possibili per un direttore sono molte: Claudio Abbado sa cogliere come pochi le inquietudini, le tensioni visionarie dell’ansia demiurgica di Mahler, il senso di vertigine e di angoscia che appartiene anche a sinfonie come la Seconda e l’Ottava. Non per caso la sua concezione prosciugata e tesa della Seconda lo impose all’attenzione internazionale.
A un frammento della Seconda vorrei dedicare il primo ascolto. Non abbiamo il tempo per dare un’idea adeguata del modo in cui Abbado interpreta e chiarisce le strutture dei movimenti più vasti; ma vorrei almeno fare ascoltare una parte del movimento più affascinante e inquietante della Seconda, che mi sembra segnare uno dei vertici assoluti tra le interpretazioni mahleriane di Abbado. Alludo al terzo tempo, “In ruhig fliessender Bewegung”, la versione sinfonica dilatata del Lied "Des Antonius von Padua Fischpredigt", finita nel luglio 1893. L’ostinato andamento di sedicesimi, “in movimento tranquillo e scorrevole”, caratterizza quasi ininterrottamente il pezzo (e fu usato da Berio in una famosa pagina di Sinfonia), contribuendo a creare quasi in modo kafkiano una sorta di vertigine del vuoto in modi apparentemente inoffensivi. Adorno paragonò la sua “monotona insensatezza” al “corso del mondo”. E Abbado propone con tagliente tensione, con eccezionale nitidezza e varietà di colori, il carattere ironico-grottesco del cangiante gioco caleidoscopico, dell’esperienza del sempre diverso ma sempre inesorabilmente e insensatamente identico. I momenti di violenta lacerazione hanno fortissima evidenza. E quando affiorano gli elementi che tentano di contrapporsi all’insensatezza del corso del mondo, che creano un contrasto, come l’idea della tromba, di struggente mestizia, che domina la sezione centrale, Abbado conferisce a questi elementi intensa evidenza, ma evita abbandoni incontrollati, sottolineature plateali, mantenendo un sobrio controllo.
In un breve incontro mi riesce difficile esemplificare qualità interpretative come quelle di Abbado, che si manifestano al meglio nell’arco complessivo di un tempo o di una sinfonia, nella chiarezza e nella penetrante analisi strutturale della visione d’insieme. Se avesse senso (e io penso che non ne abbia) proporre una antologia ideale di direttori mahleriani, di Abbado sarebbe preferibile scegliere i movimenti più densi e complessi, in particolare gli Scherzi con caratteri che vengono esaltati dalla peculiare tensione delle sue interpretazioni. Vorrei proporre tre frammenti della Settima, che è considerata con ragione tra le più moderne e problematiche di Mahler. Sebbene mi sia molto cara la registrazione del 1984 con la Chicago Symphony Orchestra, oggi ascolteremo qualche frammento della registrazione dal vivo del 1999 con i Berliner, che rivela uno scavo ancora più prosciugato, teso ed essenziale, ed esemplifica bene il suono che caratterizzava i Berliner nella fase più compiuta della loro collaborazione con Abbado.
Cominciamo con il terzo tempo, il demoniaco Scherzo, una danza macabra tutta tenuta sul filo di una tensione allucinata senza respiro, come non era mai accaduto prima in uno Scherzo mahleriano. Abbado coglie ed esalta questa tensione, e in modo altrettanto intenso e persuasivo pone in luce il carattere visionario della frantumazione timbrica, densa di presagi dell’Espressionismo. Ascoltiamo il memorabile inizio, che prende forma a poco a poco, con il ritmo scandito da timpani, violoncelli e contrabbassi e poi con il graduale apparire, in incalzante successione, di immagini angosciose, grottesche: lo spettrale scorrere delle rapide terzine degli archi, il lamentoso canto di flauti e oboi, che si trasforma in un valzer dal gesto caricato, violento, “triviale” (Berg se ne ricorderà, e Abbado ce lo fa comprendere bene).
La tensione stravolta, demoniaca sembra un poco quietarsi all’inizio del Trio centrale. Gli oboi evocano la lontana innocenza di un Ländler; ma si tratta di una breve illusione, come appare chiarissimo nella interpretazione che ascolteremo fino a questo punto (ascolto: 3-4 minuti).
Nella seconda Nachtmusik che segue Abbado coglie con finezza la leggerezza e delicatezza cameristica della scrittura, il tono sommesso, la raffinata stilizzazione. E noi ci concediamo l’ascolto di una pagina delicata tra la violenza demoniaca dello Scherzo e l’irrompere di una luce violenta e accecante nel Finale. Ascolteremo la prima sezione e parte della sezione centrale fino alla grande frase cantabile del violoncello (ascolto: 6,40 minuti).
Particolare attenzione mi sembra meriti l’interpretazione del Finale, certamente il tempo più problematico della Settima: dopo le atmosfere notturne, sempre diverse, dei primi due tempi, e dopo quelle allucinate nello Scherzo, e di delicato idillio nella seconda Nachtmusik, irrompe con violenza la luce del sole. Un celebre passo di Adorno riassume il disagio che molti provano di fronte all’idea di un Finale vitalisticamente affermativo, senza ambiguità. Adorno parla di tono forzatamente lieto e di incapacità soggettiva, per Mahler, di giungere ad uno happy end. Ma ci si è anche chiesti se la luminosità che tenta di affermarsi irrompendo in questo Finale non sia minata dall’interno, non si risolva di fatto in una critica alla possibilità stessa di un Finale trionfalistico. La citazione del pathos solenne dei Meistersinger fa pensare ad ironiche ambivalenze. L’interpretazione di Abbado, soprattutto nella registrazione con i Berliner, mi sembra una testimonianza eloquente delle ragioni di quanti vedono il Finale della Settima in chiave complessa, ambivalente, critica: il suono dei Berliner ha qualcosa di tagliente e di aggressivo e non ci induce a credere al trionfo della luce. Individua poi con ammirevole chiarezza e tensione lo svolgersi di questo Rondò, dove le idee del refrain sono sottoposte a continua trasformazione. Ce ne faremo un’idea ascoltando i primi cinque minuti.
Un ultimo esempio, dalla Nona Sinfonia nella registrazione dal vivo del 1999 con i Berliner. Molte cose mi piacerebbe far ascoltare di questa interpretazione, che trovo nel suo insieme tra le più felici di Abbado in Mahler. Il Rondo Burleske ci appare una delle pagine di Mahler dalla scrittura più densa e complessa, con una accumulazione di linee contrappuntistiche che è frutto di autentico virtuosismo compositivo. Un virtuosismo tutt’altro che compiaciuto di sé, che approda ad un assurdo vortice, ad una vertigine allucinata, con feroce disperazione. Anche qui Abbado mi sembra raggiungere esiti di lacerante tensione. Ascoltiamo il primo refrain, seguito dall’episodio con la reminiscenza della Vedova allegra (ascolto).
Sarebbe bello concludere con l’Adagio finale della Nona, con lo spegnersi mortale, lo svanire nel silenzio che Abbado definisce con sobria nitidezza e con infinita delicatezza (del suo ritegno fa parte anche la scelta di un tempo un poco più veloce del consueto: nella registrazione 1999 l’Adagio dura meno di 26 minuti). Per un ascolto solo parziale preferisco l’inizio della Nona, l’ “Andante comodo”. Abbado sa chiarire in modo ammirevole la struttura di questo pezzo, una delle costruzioni più complesse e originali di Mahler dal punto di vista formale, ed esalta nella strumentazione gli aspetti che sono analitici e disgregati più radicalmente che nelle sinfonie precedenti. All’inizio assistiamo al graduale prender forma del pezzo da materiali frantumati, ognuno caratterizzato da timbri diversi. Da uno stato di aggregazione incerto e sospeso comincia a profilarsi un gesto melodico che non ritroveremo mai uguale, ma in sempre nuove varianti. Si incontra poi un concitato tema in re minore che dà avvio al contrasto fondamentale su cui è costruito questo pezzo. Possiamo ascoltare le prime 107 battute, fino alla fine di quella che potremmo considerare una esposizione, se le categorie formali tradizionali avessero senso qui. Spero che anche un ascolto soltanto parziale basti a far comprendere con quale nitidezza e sobria intensità Abbado ne chiarisca il carattere di libero flusso di coscienza.
Paolo Petazzi
(conferenza alle "Settimane Mahleriane 2004")

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